Incontro al Meeting di Rimini del 20 agosto 2002
relatori:
Cinzia Bearzot, Ordinario di Storia Greca all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano;
Giulia Regoliosi, Direttore Responsabile di Zetesis;
Mariapina Dragonetti, Istituto Sacro Cuore di Milano
moderatore:
Giovanni Gentili
Nota di redazione: dell’incontro Esperienza religiosa, persona e popolo nel mondo antico, svoltosi a Rimini il giorno 20 agosto 2002, nel quadro della XXIII edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli (col titolo Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza), offriamo il resoconto stenografico, apparso nel CD-ROM degli atti del Meeting 2002.
Si tratta di una pura e semplice trascrizione dal parlato e di testi non rivisti dai relatori, e quindi il lettore dovrà prendere atto di tutte le incertezze e gli inconvenienti che un’operazione di questo genere comporta.
Giovanni Gentili
Io che vi parlo lavoro personalmente alle mostre e il tema di quest’anno ci ha trovato ancor di più, credo adeguatamente, all’opera proprio per cercare di presentarlo nell’aspetto più immediatamente visivo. Io ho lavorato ad “Adriatico” che si è aperto in questi giorni, da due anni prima che il tema fosse il tema di quest’anno. Mentre invece la mostra di questa sera dal titolo “Cercandolo come a tentoni” e che adesso andiamo presentando con una specie di sottotitolo che diciamo così “Esperienza religiosa, persona e popolo nel mondo antico”, credo vada alla radice del tema stesso: è una mostra che presenteranno le persone che mi stanno a fianco a partire dalla mia destra in fondo la professoressa Cinzia Bearzot che è ordinario di storia greca all’Università Cattolica di Milano, la professoressa Maria Pina Dragonetti che sta invece alla mia sinistra dell’Istituto Sacro Cuore di Milano e di nuovo a me prossima alla destra la Professoressa Giulia Regoliosi che è direttore responsabile di Zetesis. A loro lascio il compito ovviamente di parlare e di descrivere i contenuti della mostra che forse molti di voi hanno già visto. Mi permetto solo di aggiungere che la mostra stessa si leghi in maniera esemplare e in qualche modo ecco complementare all’altra mostra dedicata al senso religioso nell’antichità che è quella dal titolo “Forma e Segno” dedicata appunto alla bellezza al passaggio dell’idea e della forma della bellezza stessa nel mondo greco romano fino alla prima antichità cristiana. Cedo la parola alla prof. Regoliosi che parlerà proprio della esperienza religiosa mi pare proprio nel mondo antico.
Giulia Regoliosi
Buon giorno a tutti. Parto con una premessa che riguarda il modo con cui questa mostra è nata. É un modo che ci ha molto colpito, è stato molto importante per noi. Siamo un gruppo di persone che lavorano da circa vent’anni insieme. All’inizio alcuni di noi erano laureati altri erano ancora universitari. Poi via via si sono aggregate altre persone: è nata l’esperienza della rivista Zetesis che ha circa la stessa età. Nell’occasione appunto di questa mostra del Meeting il gruppo si è dilatato: chi andrà alla mostra vedrà un elenco di diciassette persone e chi conosce queste persone si accorge che sono persone di status tra loro molto differenti. Nel senso che ci sono professori universitari, insegnanti di scuola superiore, studenti universitari. Credo che sia abbastanza anomalo un lavoro di questo genere fatto insieme attraverso esperienze e competenze diverse, ma a partire da uno sforzo di essere gli uni maestri agli altri, i grandi ai piccoli e i piccoli ai grandi, dal riconoscersi in uno sforzo comune di leggere il modo antico nel suo aspetto più importante cioè quello che chiamiamo il senso religioso, la ricerca del senso ultimo della vita. Io farò solo una breve premessa al significato generale della mostra poi le mie due compagne svolgeranno la prima più il versante della ricerca della persona e l’altra più il versante della importanza del senso religioso come creazione di una unità di popolo. La mia premessa parte da una frase famosa più volte citata di C. Peguy che ha detto riflettendo sulla esperienza pagana che i greci non hanno avuto gli dei che meritavano. Con questo Peguy voleva dire che i pagani, i greci, forse anche i romani hanno vissuto con estrema profondità e sincerità l’esigenza del loro cuore. L’hanno presa sul serio, hanno cercato di darsi delle risposte, ma naturalmente non hanno trovato la risposta ultima ne potevano trovarla perché solo la rivelazione poteva rispondere pienamente al loro desiderio. La frase di Peguy punta proprio in un certo senso sul merito, cioè sulla serietà della ricerca. É anche vero però che esiste una profondità nella risposta: questa frase di Peguy potrebbe in fondo portarci a una visione riduttiva della religiosità antica, una visione che coincide in fondo con quella che la maggior parte di noi hanno ricavato dall’immaginario collettivo relativo agli dei olimpici, ai miti – gli amorazzi fra gli dei, gli aspetti deteriori dell’antropomorfismo. In realtà l’esperienza religiosa greco romana pur essendo una esperienza non rivelata e quindi parziale insufficiente, è una esperienza di una profondità sconcertante e resta preziosa anche per noi che pur abbiamo avuto una risposta. Al contrario potremmo trascurare tali domande che non hanno avuto, cioè che sono venute prima della rivelazione, invece per noi sono preziose perché ci mostrano, proiettata al di fuori di noi stessi, l’ampiezza dei bisogni e dei desideri che ciascuno di noi ha e che anche noi abbiamo. Tale ampiezza è espressa da persone nelle quali la verità poteva essere presente solo come seme, come gli stessi autori cristiani hanno rilevato. Questi non l’avevano incontrato faccia a faccia ma l’avevano cercato con pazienza, a volte con disperazione gridando la proprie delusioni o la propria fiducia e giungendo comunque a intuizioni di una profondità grandiosa. C’è un epoca che va dall’ottavo al quarto secolo in Grecia e che poi riemerge in alcune grandi personalità romane, caratterizzato in modo stupefacente da un fatto: le esigenze ultime non sono mai messe tra parentesi, non sono sostituite o mascherate.
Da alcuni in certi momenti sono espresse con evidenza clamorosa. Il sentimento delle cose di cui parla il titolo del nostro Meeting trova una rispondenza nella concretezza, nell’oggettività con cui questi uomini guardano se stessi e il mondo. D’altro canto la contemplazione della bellezza in un popolo creatore di bellezza come quello greco trova rispondenza nella visione del mondo fisico e metafisico come un cosmos cioè come un ordine bello in cui la stessa moralità e la stessa etica consistono nel rispetto di ciascuno per quella piccola parte del tutto che gli compete, che gli è assegnata e che se venisse modificata comporterebbe la perdita di una parte della bellezza. Ci accostiamo quindi con rispetto all’espressione di un desiderio di un dio che appare irreparabilmente segnato comunque da una contraddittorietà. Le esigenze del nostro cuore sono enormi, infinite perché Cristo è altro da tutto, è altro da qualunque risposta umana. Quindi abbiamo incontrato, chi ha già visitato la mostra l’avrà visto e chi non l’ha vista può andare a vedere, molte esigenze che sembrano tra loro opposte. Ad esempio l’esigenza di un dio persona, un dio incontrabile ma anche l’esigenza di un dio immensamente superiore che trova proprio nella sua inattendibilità la sua perfezione; l’esigenza di un dio giusto ma anche di un dio padre misericordioso, di un dio comprensivo e di un mistero di un dio tendenzialmente unico. Al monoteismo non si arriva mai, ma ci sono punte che tendono a vedere Zeus un dio così immensamente superiore agli altri che sembra essere quasi unico. Nello stesso tempo è un dio che ha legami così profondamente umani, legami familiari, affettivi: è padre, è figlio, è sposo, anche di donne mortali. Al di là di quello che potrebbe essere l’aspetto più caratteriale, di quello che potrebbe essere l’aspetto di questi amoretti o amorazzi, si coinvolge fino al massimo. Coinvolgimento che è il coinvolgimento amoroso con l’uomo: quindi un dio affettivo. Ecco si può parlare di un dio unico ma affettivo. Una famosa espressione che ripete spesso Messori cioè che il cristianesimo è il luogo dell’eteit in fondo sintetizza questa idea: la contraddittorietà, gli opposti espressi dal desiderio dell’uomo antico trovano nel cristianesimo la risposta totale. Il Dio cristiano è l’uno e l’altro, diciamo, di queste esigenze, risponde ad entrambe queste esigenze. Io mi fermo, qui, do la parola alla professoressa Dragonetti.
Mariapina Dragonetti
Partirò da una citazione di Sofocle tratta dall’Antigone per evidenziare sinteticamente due tratti contraddittori ma sempre compresenti con cui l’uomo antico pensa a se stesso. In questo coro Sofocle dice: «Molte cose nel mondo ispirano sgomento, nessuna più dell’uomo. Con il vento tempestoso del sud attraversa il mare bianco di spuma e si apre la strada tra i gorghi spalancati e a fatica col volgere degli aratri e dei cavalli rivolta anno per anno la terra grandissima, instancabile, immortale». Prosegue con le altra attività con cui l’uomo domina la natura e poi conclude: «…ha appreso la parola, il pensiero alato, i fondamenti della società, ha appreso a difendersi dal gelo e dalle piogge, moleste per chi non ha riparo. Nulla gli è precluso, e contro ogni futuro trova risorse». Quindi ci presenta un uomo dotato di razionalità e di volontà, capace di dominare l’istintività e la passionalità, a differenza degli altri esseri animali capaci di indagare sulla natura e di dominarla in gran parte secondo le loro intenzioni. Sofocle però prosegue il passo dicendo: «Solo contro la morte non ha scampo, ma pure a malattie invincibili ha trovato rimedio». La conclusione è lapidaria e pessimistica. La vita umana, infatti, nel passato con molta evidenza più di oggi, è segnata dalla constatazione della brevità temporale della vita, delle difficili condizioni di vita, e soprattutto dal limite ineluttabile della morte. Empedocle definisce gli uomini “creature di un giorno” e continua “si involano come fumo”. Certamente ci sono però nella vita molti beni. Euripide, che vedremo appunto nel corso di questa presentazione è un autore critico, nelle Supplici dice: «Gli uomini hanno più beni che mali, se così non fosse non saremmo vivi. Onore al dio che riscattò la vita dal caos e dall’elemento ferino». Certamente, quindi, come afferma Euripide, ci sono molti beni, e questi sono facilmente attribuibili al divino come dono, ma le condizioni positive e i successi conseguiti, gli affetti che riscaldano la vita e che esistono, possono però essere sconvolti da un momento all’altro. La condizione dell’uomo può cambiare totalmente di fisionomia. Sofocle dice che la sorte dell’uomo muta come le fasi della luna e, generalizzando nel tempo e nello spazio, afferma che nel futuro, nel presente e già nel passato vige questa legge: «la vita dei mortali non procede a lungo senza sventura». Il limite sicuramente è dato dall’esterno, come vedremo poi, espressamente dalla volontà divina, ma anche nel tempo, man mano che affiora una più matura coscienza individuale, è dovuto alla debolezza dell’uomo, una debolezza intrinseca alla precarietà della sua volizione. Empedocle infatti afferma: «Angusti poteri sono diffusi per le membra dell’uomo; molte fragilità improvvise ottundono il nostro pensiero». Nel passo con cui avevo iniziato il coro dell’Antigone Sofocle conclude così la sua esaltazione dell’uomo: «Padrone della scienza e del pensiero, padrone delle tecniche oltre ogni speranza, si può volgere al bene e al male». Quindi c’è un limite, dettato vedremo dall’esterno, ma sicuramente c’è anche un limite interno. Da questo derivano delle espressioni nichilistiche, lapidarie come «L’uomo è solo un soffio e un’ombra», e delle espressioni in cui in modo drammatico si dice di preferire una morte precoce a una lunga vita dolorosa. Una sola citazione da Sofocle: «Non nascere è il destino migliore, il secondo, appena nati tornare subito da dove si è venuti». Tuttavia, poiché caratteristica della religione greca e romana tradizionale è il permanere all’interno di un’ottica terrena, nella mostra non ci sarà nessuna sezione dedicata al culto dei morti, se non una sezione dedicata agli uomini divinizzati dopo la morte, a differenza invece di altre religioni in cui questo aspetto è uno dei fondamentali. Appunto, poiché la caratteristica della religione greca tradizionale è il permanere in questa ottica terrena, senza l’idea di un premio o di una punizione in base a un giudizio ultraterreno, nonostante la constatazione del dolore che caratterizza la vita umana, sono moltissime le espressioni e le voci di poeti che esaltano la vita. Vorrei appunto citare questa espressione che troviamo nell’Ippolito di Euripide. A un certo punto, parlando degli uomini, dice: «Sembriamo innamorati di ciò che risplende sulla terra», quindi proprio un attaccamento da innamorati ai beni della terra; però questa frase, un po’ a sintesi di quello che ho detto, è inserita in un contesto più ampio: «Sembriamo stoltamente innamorati di ciò che risplende sulla terra, perché non abbiamo esperienza di un’altra vita, né rivelazione di ciò che c’è sotto terra». L’uomo e il mondo che lo circonda quindi, appare complesso, contraddittorio e l’uomo, incapace di spiegarselo rimanendo nel limite stesso dell’orizzonte umano ma spinto da profonde esigenze di significato, cerca tale significato al di fuori di sé nel mondo divino. L’esistenza divina, come si diceva prima, appare attraverso l’ordine del cosmo, la bellezza della natura, la razionalità stessa e l’uomo, attraverso questi segni, perviene ad una qualche consapevolezza riguardo a questo campo. Cicerone, nelle Leggi, dice: «Fra tante specie di viventi non ve n’è alcuna, eccetto l’uomo, che abbia qualche conoscenza di Dio, e tra gli uomini stessi non vi è alcun popolo né tanto civile né tanto selvaggio che, pur ignorando quale debba essere ritenuta la natura di Dio, tuttavia non sappia che si deve avere un dio». Privo di una rivelazione diretta esplicita, come la più parte dei popoli antichi, l’uomo antico avanza, con le sue forze intellettive e immaginative, delle ipotesi: questa parte è ampiamente espressa nella mostra. Personalizza le forze naturali o etico-politiche che riconosce operanti e necessarie alla vita individuale e collettiva e le pone come trascendenti, immaginandole come origine e significato della vita stessa. E crea un mondo che sembra al di sopra dell’uomo, anche se vedremo con una serie di contatti, di scambi, quando invece è una trascrizione dell’umano e del mondano. Agli dei, nella loro accezione più tradizionale, vengono attribuite tutte quelle caratteristiche che mancano agli uomini e che fondamentalmente rappresentano la realizzazione del desiderio umano: l’immortalità, la giovinezza eterna, la felicità, la mancanza del dolore, la capacità di perseguire gli scopi che si vogliono ottenere. Sarebbero moltissime le citazioni; ne riporto solo una significativa perché è messa in bocca, cioè è formulata da un personaggio, Crizia, che solitamente, presenta appunto una posizione critica nei confronti degli dei. Parlando del divino in senso lato dice: «É un essere glorioso, di vita eterna, il cui spirito ode, vede ed è pieno di sapienza, che tutto osserva, divino per natura. Egli sente ogni parola che gli uomini dicono e nessun fatto resta occulto al loro sguardo». Questi dei quindi sono superiori all’uomo per forza, per sapere, e nulla è paragonabile a loro. Però non sono onnipotenti, non sono onniscienti. Essi possono distruggere, non possono dare la vita, amano e odiano come gli esseri umani; spesso invidiano gli uomini troppo potenti e soprattutto questi stessi dei, persino Zeus, sono sottoposti al Destino che, impersonale, dispone di tutti gli eventi. Eschilo, nel Prometeo, imposta un dialogo tra il coro e Prometeo. Il coro dice: «Chi è che regge il timone della necessità?». E Prometeo: «Le Moire, che hanno tre forme, e le Erinni, che hanno memoria». Il coro: «Ma allora Zeus è più debole di loro?». Prometeo: «Mai egli potrà sfuggire al destino che è fissato». Quindi un mondo divino limitato. Eppure a questo mondo divino vengono ricondotte le condizioni di vita del singolo e della collettività, nei loro aspetti positivi, come abbiamo visto in Euripide, ma soprattutto negli aspetti negativi, che rappresentano la dimensione più generalizzata. Teognide afferma: «Nessuno è responsabile della sua rovina o del suo successo. Sono gli dei che distribuiscono entrambi». In una versione più raffinata, più sottile, Eschilo parla di Zeus: «Zeus è l’autore di tutto, la causa di tutto». Gli uomini sono fortemente dipendenti da queste divinità, che quindi sono da temere, riverire, bisogna cercare di interpretarne il pensiero per poterlo assecondare. E li immaginano, come si vede nella sezione centrale della mostra, come incontrabili in epifanie, invocabili nella preghiera; essi possono parlare attraverso gli oracoli ma sostanzialmente sono sentiti lontani e, in particolare, non costituiscono quel realmente “altro”, quel realmente “diverso” da cui l’uomo, ingabbiato nel dolore e nel limite, possa sperare di trovare soluzione a questo. E, nonostante la codificazione in parole, riti, spazi, luoghi, le immagini della religione tradizionale che pur ricevono una devozione sincera da tantissime personalità grandi e eminenti, rimangono aperti e vivi nel mondo greco e romano un interrogativo e un desiderio che lo animano e lo rendono così ancora interessante: l’interrogativo sul senso dell’uomo e della vita, sempre in questa dialettica tra sé e l’altro da cui la vita dipende, e il desiderio di rapporto con questa alterità. Nella mostra noi abbiamo evidenziato questi aspetti attraverso le voci, le espressioni di poeti, di pensatori; ma queste sono solamente l’espressione efficace, particolarmente efficace e duratura, tanto che noi possiamo ancora incontrarla, di una sensibilità, di una problematica che doveva essere diffusa e che ha portato già in epoca classica, e anche questo si vede nella mostra, alla ricerca di forme di devozione, di espressione del sentimento religioso diverse da quelle della religione cittadina, per esempio i misteri. Vengo adesso a trattare il primo punto, il desiderio di conoscenza. Molti autori, come si vedrà appunto in un pannello della mostra, con saggezza prendono atto di questa dipendenza, la accolgono, la accettano e attraverso una sofferta conquista fanno dell’equilibrio un ideale e una pratica di vita. Cito solo una frase di Cicerone che mi sembra particolarmente significativa: «I cittadini devono essere convinti che gli dei sono signori e moderatori di ogni cosa, che ogni cosa che si compie, si compie per effetto della loro decisione, che gli dei sono autori dei migliori benefici nei confronti degli uomini. Nessuno deve essere tanto stupidamente arrogante da ritenere che la capacità di pensiero razionale non esista nel cielo e nel mondo, da ritenere che nessun principio muova i corpi». Questa accettazione non esime però dal chiedersi, proprio per la razionalità che caratterizza l’uomo, chi sia veramente questo dio, con quale nome lo si debba chiamare, se ci sia un senso all’esistenza e quale sia questo senso, che progetto abbia per l’umanità questo dio. La ragione infatti presuppone un progetto, un senso oltre ai fenomeni, un nesso tra i diversi dati. E gli antichi, nel cercare di rispondere a questo interrogativo, hanno individuato delle costanti nell’operato degli dei. A Esiodo sembra che gli dei agiscano nel mondo, operino nel mondo per l’affermazione della giustizia. A Eschilo sembra evidente che all’interno della storia, gli dei operino per punire, per frenare le spinte dell’uomo e dei popoli a prevaricare i limiti che sono imposti a loro. E anche di fronte alla domanda più impellente, più inquietante “Perché il dolore?” Eschilo crede di individuare un senso, un fine. Egli ritiene che nel susseguirsi dei dolori individuali che si possono anche proiettare nell’ambito della famiglia, si manifesti l’opera pedagogica del dio che, tramite il dolore, guida a conoscere il giusto atteggiamento da avere. É dell’Agamennone una frase piuttosto famosa: «Zeus insegnò ai mortali i sentieri della saggezza, stabilendo che la conoscenza avvenga attraverso il soffrire». Per Eschilo queste affermazioni, queste riflessioni consolidano la fede. Egli nell’Agamennone si esprime ancora così: «Zeus, Zeus, non ho nulla da paragonargli, pur ponderando ogni cosa». Ha come compiuto questo lavoro di ricerca, ma alla fine non ha nulla da paragonargli. «Non ho nulla da paragonargli al di fuori di Zeus, se veramente il vano peso dell’angoscia voglio gettare». Per altri autori invece queste certezze si incrinano o si annullano addirittura di fronte all’evidenza della vittoria dell’ingiustizia e del male nel mondo. Non appare nel mondo un disegno evidente; si constata appunto la difficoltà di cogliere un piano, un piano conoscibile. É saggio quindi constatare il limite della conoscenza di fronte a tale tipo di realtà e rinunciare a indagare con i soli mezzi umani questo aspetto della vita, un po’ perché si constata il limite della ragione umana in sé e un po’ perché si pensa che la volontà divina ostacoli questa conoscenza, si pensa che ci sia la volontà del dio di non rendersi conoscibile. L’ardire di oltrepassare questo limite, di farsene interpreti o addirittura di eliminarlo, sarebbe un atto di arroganza punibile. In due frammenti Sofocle esprime questi concetti: «Mai, se gli dei lo nascondono, troverai il divino, neppure se andrai cercando per il mondo intero». E in questo che sto per leggere è come se, come dire, autolimitasse la sua sete di conoscenza di fronte a questo limite: «Ciò che si può apprendere imparo, quello che è raggiungibile cerco, quello che gli dei permettono di chiedere, chiedo loro». Tuttavia l’inasprirsi di condizioni esterne, catastrofi naturali, come la peste di Atene in cui muoiono giusti e ingiusti, determina per molti una sfiducia nell’azione degli dei e anche dei, come dire , messaggi attraverso cui il loro volere si esprime. Ci sono delle espressioni di incertezza così estemporanee! Euripide si interroga: «Chissà poi se la vita non sia un morire, e quel che chiamiamo morire non si chiami laggiù vita!». Fino ad arrivare a delle espressioni di scetticismo e di relativismo più sistematiche che non mettono in dubbio solamente, come dire, lo strumento della conoscenza. La ragione non è adeguata, vengono poste in crisi, si giunge a dubitare dell’oggetto stesso dell’indagine, del mondo divino. Si passa appunto dall’espressione di Protagora di agnosticismo: «Riguardo agli dei non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono», ad espressioni ancora più pesanti. In un passo del Bellerofonte di Euripide c’è questa affermazione: «Si dice che vi siano degli dei nei cieli: no, non vi sono, non vi sono, a meno che non si voglia stoltamente seguire una vecchia diceria diffusa tra gli uomini». E si arriva anche, sempre in Euripide, a porre in bocca ai personaggi delle espressioni dissacranti: «Gli dei e tutto ciò che è detto intorno a loro è solo espressione umana, potrebbe essere una creazione umana». Rivolti agli indovini: «Sedete là sui vostri seggi profetici e pretendete di conoscere quel che ha stabilito Dio, ma i vostri detti non sono altro che opera umana», non manifestazione del divino ma creazione umana. E nelle Troiane, rivolgendosi a Zeus, in una sola espressione passa dall’affermazione della fede nella presenza del divino al dubbio più radicale: «O tu che reggi la terra e sulla terra dimori, chiunque tu sia, mistero impenetrabile, o Zeus, o forza della natura, realtà esistente che anima la natura, o frutto dell’intelligenza umana, ti invoco». Non si pone in dubbio la capacità della ragione di sondare la realtà, però certamente emerge la consapevolezza realistica del suo limite. Si può indagare, comprendere una parte della realtà, non tutta la realtà. L’inadeguatezza della ragione a indagare questi campi è formalizzata da Platone quando avanza l’ipotesi che questo limite potrebbe essere colmato solo da una rivelazione di ordine divino, e con le sue parole sono in sintonia profonda le parole di Tommaso. Egli dice: «Riguardo a ciò che si può conoscere intorno a Dio per mezzo della ragione umana, fu necessario che l’uomo fosse istruito dalla rivelazione divina, perché la verità di Dio, esplorata per mezzo della ragione, sarebbe risultata umanamente conoscibile da pochi, o attraverso tempi lunghi o con la mescolanza di molti errori».
Tommaso sembra essere meno pessimista dei Greci stessi rispetto alle potenzialità della ragione umana nel conoscere il mistero divino, non totalmente inattingibile bensì attingibile limitatamente a pochi, in tempi lunghi e con errori. Tommaso però prosegue la citazione dicendo che tuttavia dalla conoscenza di questa verità dipende tutta la salvezza umana, che risiede in Dio. É interessante come, con tale affermazione di Tommaso, questa conoscenza è, come dire, foriera della felicità, della salvezza. Mi sembra appunto che con tale affermazione coincidano parole nostalgiche che troviamo in tanti classici, di fronte all’impossibilità di arrivare a tale conoscenza. C’è la certezza che, se questa conoscenza fosse raggiungibile, fosse ottenuta, potrebbe dare la felicità. Due frammenti, uno di Empedocle e uno di Euripide, iniziano tutti e due con l’aggettivo “felice”. Empedocle dice: «Felice chi ha acquistato ricchezza di pensieri divini, infelice chi ha sugli dei un’oscura opinione». Ed Euripide: «Felice colui che ha ottenuto la conoscenza, premio della ricerca». Allora, venendo al secondo punto, all’esigenza di rapporto di figliolanza dal divino va detto che nella religione greca e romana tradizionale Zeus viene chiamato il padre degli uomini e degli dei. Quindi è riconosciuta una parentela dipendente dalla comune origine. Esiodo dice che gli dei e gli uomini mortali sono nati dalla stessa discendenza. Anche nell’inno a Zeus parla degli uomini come nati dal divino, immagine del divino e questo legame è individuato soprattutto nella presenza dell’anima. Cicerone, infatti, nelle Leggi dice: «Mentre tutti gli altri elementi di cui gli uomini sono costituiti derivano da una natura mortale, per il loro essere fragili, l’anima fu generata da Dio; per questo veramente la nostra parentela con i celesti può essere chiamata o discendenza o stirpe». Non c’è quindi un ostacolo a riconoscere una discendenza, un legame appunto, con gli dei. Quello che gli uomini sembrano veramente desiderare è la presenza del divino durante la propria esistenza, di un divino che non sia solo creatore ma che curi, che si prenda cura delle proprie creature. Ed è questo che l’uomo desidera e spera. Euripide nell’Ippolito afferma: «É grande per me il pensiero che gli dei si occupano di noi, e quando mi torna in mente, mi toglie ogni affanno». Ci sono delle situazioni letterarie in cui sembra che questa vicinanza si sia realizzata misteriosamente; sempre nell’“Ippolito”, Ippolito stesso, rivolgendosi alla divinità a cui è dedicato, Artemide, le dice: «Io solo infatti ho questa grazia tra i mortali, con te vivo insieme, scambio parole, ascoltando la tua voce anche se non vedo il tuo volto». Però si tratta di episodi misteriosi. Sono molto più numerose le voci in cui si lamenta la mancanza di questa divinità, tanto che Sofocle nelle Trachinie afferma: «Gli dei danno la vita e si fanno chiamare padri, ma stanno a guardare queste sofferenze. Il futuro nessuno lo vede ma il presente è doloroso per noi» E per la divinità che non si cura degli uomini è vergognoso, tanto è vero che si giunge, come dire, quasi al desiderio di poter sostituire questi dei lontani che non amano con delle presenze rassicuranti più vicine. In un canto per Demetrio Poliorcete gli Ateniesi cantano: «Gli altri dei sono lontani, o non hanno orecchi, o non esistono, o non si curano di noi. Te invece (il sovrano) noi vediamo presente, non di legno, non di pietra, ma in carne ed ossa». Il dio dell’antichità, anche pensato come santo, perfetto e giusto, tante espressioni di filosofi lo configurano così, non ama l’uomo, e non tanto l’umanità nel suo complesso, per cui, come ci diceva Euripide, ha segnato un cammino di progresso, di affrancamento dalla bestialità. Ma l’uomo individuale non lo ama neanche quando è desiderato, non lo ama in quanto non è persona, dotato di volontà e di identità personale; non è sostanzialmente altro dall’uomo. La cultura antica, come si diceva prima, in tutte le sue caratteristiche, in tutti i suoi momenti si sforza quindi di immaginare di leggere una relazione che non sa porre e non può porre. Siamo di fronte a un momento di difficoltà, di empasse, che non sembra trovare nell’ambito della religione greca e romana, antropomorfica e politeista, una via di uscita e di sviluppo, così come il problema della conoscibilità detto in precedenza. Questo succede nella religione tradizionale. La mostra evidenzia attraverso alcuni pannelli sulle religioni misteriche e alcuni pannelli in cui si dà più voce alle spiegazioni dei filosofi, altri aspetti della religiosità greco e romana in cui si tenta, come dire, uno sblocco di questa situazione. Questa dimensione religiosa, quella della conoscenza della natura del divino e del rapporto con esso in un rapporto di dialogo e di amore reciproco, che non trova la propria fondazione nel mondo pagano sembra trovarla invece nel pensiero ebraico-cristiano. Qui infatti da una parte, con la rivelazione divina e dall’altra con il Dio personale creatore Provvidente e con la creatura dotata di libertà, le esigenze umane così fortemente attestate dall’uomo antico hanno una diversa fondazione e la possibilità di risposte. Come diceva prima la professoressa Regoliosi, attraverso questo percorso che abbiamo fatto nella mostra non abbiamo voluto tanto sottolineare l’incompletezza del mondo classico, ma piuttosto abbiamo voluto evidenziare la vivezza di questa ricerca e la ricchezza delle intuizioni a cui gli antichi sono pervenuti. E soprattutto abbiamo voluto, più che sottolineare limiti di questa umanità, la sua grandezza che a nostro avviso si manifesta più che nelle creazioni a cui sono pervenuti, negli interrogativi che hanno espresso.
Cinzia Bearzot
Il mio compito è quello di attirare l’attenzione su un aspetto dell’esperienza religiosa antica che non riguarda la religiosità individuale o la ricerca personale, ma la sua dimensione pubblica. Dimensione che, dico subito, è molto forte, potremmo dire qualificante, e fa sì appunto che l’esperienza religiosa nel mondo antico non sia un fatto privato, ma un fattore sociale di rilievo. Alcuni dei pannelli della mostra, in particolare quelli intitolati “Esperienza religiosa e comunità in Grecia e a Roma”, cercano per quanto molto sinteticamente di rifare emergere questi problemi ed io vorrei riprenderne qui il contenuto. Come vedrete farò riferimento soprattutto al mondo greco, perché è il mio settore di competenza maggiore. Quello che dirò vale a maggior ragione per il mondo romano, il quale molto più di quello greco fa dipendere la stabilità dello Stato, della compagine sociale dal patto con la divinità. É il concetto famoso che il latino esprime con l’espressione pax deorum. Il primo punto che vorrei toccare è quello dell’esperienza religiosa come fattore dell’identità cittadina. Dico cittadina perché come tutti sanno, l’esperienza fondamentale di Stato nel mondo greco ed in origine in quello romano è la città, la polis. Non è l’unica forma di Stato, ma è quella originaria, la principale. Ora come tutti sanno la polis nasce come comunità civile costituita da uomini che si riconoscono in qualcosa di comune. Questo qualcosa di comune in cui gli uomini si riconoscono sono le leggi ed i culti. Direi prima i culti delle leggi e questo prima è anche un prima cronologico. Non è un caso che nella città, sia proprio il cosiddetto spazio religioso il primo a dotarsi di strutture architettoniche. Gli edifici cioè più antichi che compaiono nelle aree urbane sono gli edifici di tipo religioso, dai semplici altari fino ai templi. Tutti gli edifici di carattere civile, sono molto più tardi sul piano cronologico. Questo già mette in evidenza con molta grandezza, il primato dell’esperienza religiosa. Nell’ambito della città sono i culti specifici cittadini che danno un contributo fondamentale nella realizzazione della realtà cittadina. Nel pannello 13 appunto quello dell’“Esperienza religiosa e comunità in Grecia” è riportato brevemente un passo di Senofonte che i miei studenti conoscono molto bene e che vorrei riproporre qui, perché è meglio tutto sommato far parlare gli antichi che non parlare noi. Senofonte riporta un discorso di un personaggio: un araldo eleusino, quindi un uomo legato al mondo religioso, il quale fa un appello ai cittadini, in un momento estremamente difficile della vita di Atene e cioè i momento della crisi della democrazia del 404. C’è una guerra civile in corso, sono al potere i cosiddetti trenta tiranni, la resistenza democratica sta vincendo, sta prendendo di nuovo il sopravvento. Per bocca di questo personaggio Cleocrito, questo araldo eleusino Senofonte fa un appello alla parte avversa, un appello di riconciliazione. Il contributo di questo appello mi sembra molto utile e dice: «Cittadini perché ci cacciate? Perché volete ucciderci? Non solo noi non vi abbiamo fatto mai nulla di male, ma anzi abbiamo partecipato insieme a voi alle cerimonie più sante, ai sacrifici e alle feste più belle. Abbiamo cantato insieme nei cori, siamo stati compagni di scuola e compagni d’armi, abbiamo affrontato con voi molti pericoli per mare e per terra per la comune salvezza e libertà di entrambi. In nome degli dei, dei nostri padri e delle nostre madri, dei nostri vincoli di sangue, di parentela e di amicizia rispettate dagli uomini, smettete di danneggiare la patria.
Ecco questo discorso, ed è un peccato non poter far riferimento al testo originale, il quale linguisticamente insiste molto sull’idea di comunità e di partecipazione. Il tema fondamentale di questo discorso è il recupero dell’unità cittadina, della comunità cittadina attraversata in questo momento da una frattura profonda. Questo recupero viene proposto e perseguito sulla base della comunione di esperienze. Ci sono esperienze di tipo diverso. Di tipo religioso prima di tutto: i sacrifici, le feste; di tipo sociale: i cori e le scuole; di tipo politico: servizio militare o quello che qui viene chiamato il servizio alla libertà comune. Da questa comunità di esperienze i cittadini sono legati da quello che in greco chiamano koinon la comunità, di cui va recuperata l’unità. Questo bisogno di recuperare quell’unità della comunità, la valenza unificante dell’esperienza religiosa in questo passo di Senofonte è fortissimamente sottolineato. É una prospettiva questa che ritorna altrove. Sarebbero molti i passi che potrebbero essere qui citati, per esempio il coro degli iniziati ai misteri nelle rane di Aristofane nel 405. É un altro grande momento di crisi della democrazia, non è forse un caso che in questi momenti di grave crisi dell’unità politica della città si faccia riferimento al fattore unificante di carattere religioso. Anche in questo caso questo coro, che è un coro di iniziati ai misteri appunto, pronuncia parole molto significative. Ricordo qualche verso: «Taccia e si ritiri di fronte ai nostri cori, chi non pone fine alla guerra civile, chi non è benevolo verso i suoi concittadini, chi soffia sul fuoco per interessi privati, chi guidando la città nella tempesta, si lascia corrompere». Ed il coro poi prosegue, sottolineando tutta una serie di conseguenze positive per la comunità che derivano dal recupero, da questo stretto connubio tra sfera politica e sfera religiosa. Secondo punto che è strettamente collegato con il primo: l’esperienza religiosa come fattore d’identità non solo cittadina, ma nazionale quindi a livello panellenico. É noto a tutti che la Grecia antica produsse un’esperienza politica estremamente frammentata quindi non fu in grado mai di pervenire ad una unificazione nazionale che non fosse imposta dall’esterno. Tutti conoscono il luogo comune del particolarismo greco che pur essendo un luogo comune, contiene una verità. Nonostante questo la Grecia ebbe però il senso della sua unità culturale. Nell’ambito di questo patrimonio culturale comune che viene riconosciuto, l’esperienza religiosa indubbiamente ha un posto molto importante, come a livello locale e cittadino, come a livello panellenico nazionale; l’esperienza religiosa è un fattore unificante molto significativo. Anche qui faccio parlare un antico. Erodoto nell’VIII° libro parla del mondo greco, della grecità (il termine greco usato è Ellenikon) come di qualcosa di unitario, alla cui formazione concorrono diversi fattori tra i quali appunto anche il fattore religioso. Per contestualizzare il passo, siamo nel 479 prima della battaglia di Platea seconda guerra persiana, in un momento di grande pericolo per la Grecia tutta. Sono gli ateniesi che parlano per smentire la possibilità di un loro accordo con i persiani: «Dicono che gli spartani temano che noi ci accordiamo con il barbaro. É assai umano, ma ci sembra che sia ingiurioso il vostro timore dal momento che voi conoscete i sentimenti degli ateniesi. Che non c’è in alcun punto della terra tanto oro. Né paese che si distingua per bellezza e fertilità che noi accetteremmo per consentire ad asservire la Grecia parteggiando per i persiani. Molte e gravi sono le ragioni che ci impediscono di far questo. Prima di tutte e più di tutte importanti le immagini degli dei incendiate e abbattute che dobbiamo di necessità vendicare duramente, invece di accordarci con chi ha compiuto tale misfatti e poi la grecità (l’Ellenikon di cui parlavo prima), lo stesso sangue, e la stessa lingua e i comuni templi degli dei e i riti sacri e gli analoghi costumi dei quali non sarebbe bene che gli ateniesi diventassero traditori».
Ecco a questo passo noi dobbiamo forse una delle definizioni più complete e più efficaci della grecità intesa come unità tecnico-culturale. L’uomo greco vi appare con uno stato duplice, da una parte come membro di una comunità ristretta e ben definita (è chiaro che è la polis, Atene in questo caso), ma anche come membro di una comunità più ampia omogenea sul piano culturale. L’identificazione, come avete sentito, si basa su criteri linguistici, etnici, religiosi, etico-politici, giuridici. Quindi c’è una consapevolezza molto forte della propria identità culturale e l’aspetto religioso ha un ruolo rilevante nella percezione di questa unità. A rinsaldare questa unità del resto contribuivano, come è noto, le feste pannelleniche che si svolgevano regolarmente in alcuni dei grandi santuari greci, in particolare a Delphi e a Olimpia. L’attore ateniese Isocrate afferma a questo proposito che occorre lodare coloro che istituirono questi incontri perché, dice Isocrate: «…ci hanno trasmesso l’usanza conclusa una tregua e chiuse le inimicizie esistenti di riunirci in uno stesso luogo e di ricordarci con le preghiere ed i sacrifici comuni dei rapporti di parentela che ci sono tra noi. E per il futuro di avere gli uni verso gli altri un atteggiamento più benevolo, di rinnovare le antiche relazioni di ospitalità e di stringerne di nuove». Un altro passo molto significativo per mostrare come tra esperienza religiosa e società civile, c’è in Grecia una profonda interdipendenza a più livelli, compreso quello molto delicato del livello panellenico.
Nel mondo romano per fare almeno qualche accenno, questa compenetrazione è ancora più forte. Prima di tutto perché è molto più forte sul piano sociale l’accentuazione, potremmo dire, comunitaria. A Roma il cittadino fruisce dei suoi diritti in particolare della libertas, non perché ha dei diritti come individuo, ma perché appartiene ad un gruppo sociale. La famiglia in cui il figlio è liber per eccellenza, l’uomo libero, la gens, la tribù, il collegio, la città. L’onomastica romana del resto evidenzia molto bene questo modo di percepire il cittadino inserito in una serie di gruppi. Il cittadino accede tra l’altro anche all’esperienza religiosa. Quindi un accentuazione comunitaria molto forte. Poi per quello che ricordavo all’inizio, lo stato fonda la sua sicurezza nel mondo romano per una sorta di patto con la divinità. La Pax Deorum che dipende da diversi fattori, tra cui la Pietas (cioè l’osservanza delle norme religiose tradizionali).
E passerei con questo al terzo punto: l’esperienza religiosa, come fattore di integrazione. Un punto che a me pare importante perché nel mondo greco, quello romano molto meno per le sue diverse caratteristiche, è un mondo in cui l’integrazione nella vita sociale di alcuni gruppi è molto difficile. Si tratta dei gruppi di coloro che sono tradizionalmente esclusi dalla partecipazione politica. Come noto nella città greca anche democratica la partecipazione politica è aperta ai liberi maschi adulti, restano escluse le donne ed il gran numero di stranieri liberi e schiavi che risiedevano nel territorio cittadino. Quindi è un’esperienza di partecipazione politica molto profonda, ma molto chiusa e quindi limitata ad un gruppo degli aventi diritto che è sempre una minoranza.
Anzi più i diritti dei cittadini sono profondi, estesi, più il corpo cittadino tende a rinchiudersi a blindarsi in un certo senso. Ed è facile da ricordare la legge di Pericle che restrinse ai figli di padre e madre ateniesi i diritti di cittadinanza. C’è come si suol dire una gelosia della cittadinanza che per esempio Roma non conosce. Ecco in questo quadro caratterizzato dalla tendenza a riservare alcuni aspetti della partecipazione ad un gruppo relativamente ristretto, la possibilità di partecipare alla vita della comunità attraverso momenti di tipo religioso costituisce l’unico fattore, di integrazione del koinon nella comunità per le categorie di esclusi che ho menzionato. Le donne trovavano prima di tutto nella partecipazione al culto familiare e cittadino l’unica possibilità riconosciuta di avere una vita sociale. Potremmo dire che diversamente che in altri campi, l’ambito religioso è uno dei pochissimi, se non l’unico, in cui non si registra discriminazione della donna. Lo stesso vale per gli stranieri ed in particolare per gli stranieri residenti, che potevano accedere ad alcune forme del culto cittadino o vedersi riconoscere culti propri. E anche per gli schiavi perché a tutte queste categorie: donne, stranieri, schiavi era aperta per esempio la partecipazione ai misteri eleusini ed in genere alle religioni di tipo misterico. A culti cioè diversi della religione olimpica che richiedevano un’iniziazione sulla quale era necessario mantenere il segreto e che offrivano quelle speranze ultraterrene che la religione olimpica invece non prometteva. Ecco diversamente dai culti tradizionali, i culti misterici erano aperti a tutti con l’esclusione degli assassini e dei non parlanti greco; ma in linea di massima erano aperti a uomini e donne, cittadini e non cittadini, greci e barbari, liberi e schiavi, senza discriminazione relative a quegli status di libertà e di cittadinanza che invece tanto condizionano l’integrazione di tipo politico. In un mondo che tende a restringere moltissimo i limiti della partecipazione politica mi sembra anche questo un dato significativo. In sostanza ecco per non dilungarmi troppo, quello che intendevo sottolineare è che l’esperienza religiosa antica non è mai riducibile ad un fatto privato individuale. É invece un’esperienza comunitaria, sociale, di popolo riprendendo il titolo di questa presentazione, dalla forte dimensione pubblica il cui significato non è stato mai pienamente compreso anche per l’accentuazione che spesso è stata fatta degli aspetti di tipo formalistico, poco spirituale di questa religiosità: penso al problema della fede degli oracoli per esempio. Ma io credo che per comprendere l’importanza del mondo antico, occorra proprio tener presente che nelle società antiche il bene comune viene fatto dipendere sempre dal rapporto con il divino. Ne consegue che il fattore religioso non è ricacciato nel privato della coscienza individuale, è riconosciuto come costitutivo dei fondamenti del vivere civile; è un aspetto che a me pare non irrilevante nell’ambito del tema della mostra. Io spero possa emergere anche dall’impostazione della mostra stessa. Grazie.
Il moderatore sollecita domande.
Una domanda chiede informazioni sulla rivista citata dalla Prof.ssa Regoliosi
Giulia Regoliosi: La rivista si chiama Zetesis. É nata appunto più di 20 anni fa da un gruppo di amici, alcuni insegnanti e alcuni universitari, adesso siamo naturalmente un po’ più vecchi, si sono aggiunte nel frattempo anche persone più giovani. É una rivista che si occupa di studi greco-romani a livello possiamo dire di alta divulgazione, con una parte di studi e una parte relativa invece proprio alla didattica, con interventi in cui cerchiamo di essere sempre più aggiornati sulle problematiche che via via in questi 20 anni si sono presentate, i vari progetti, riforme eccetera. E a questo proposito vorrei dire che la rivista è nata con il sottotitolo di “bollettino di collegamento”, adesso si chiama rivista, ma in realtà lo scopo era proprio quello di unire, di collegare. Di allargare un’esperienza e vorrei appunto invitare chi è in qualche modo interessato al mondo classico di aderire all’abbonamento che si può fare anche qui al Meeting al banchetto della mostra, all’acquisto dei numeri che possono essere acquistati anche nelle librerie di ITACA. Per chi lo desiderasse è sempre gradita, desiderata una collaborazione. Zetesis è nata anche per dare una voce sia a persone autorevoli che hanno anche altre possibilità di esprimersi sia anche a persone che hanno da dire, magari a livello ancora diciamo imperfetto, ma che comunque hanno delle intuizioni da comunicare. Ringrazio chi è intervenuto perché questa mostra non esisterebbe se non ci fosse stata questa esperienza e d’altro canto la rivista vive anche proprio per gli abbonamenti e per chi legge e partecipa. Grazie.