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GIOVANNI PASCOLI

by Mariapina Dragonetti

La felicità

(Myricae 1891)

Quando, all’alba, dall’ombra s’affaccia,
     discende le lucide scale
e vanisce; ecco, dietro la traccia
     d’un fievole sibilo d’ale, 4

io la inseguo per monti, per piani,
     nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
     già tengo la gloria e l’amore… 8

Ahi! ma solo al tramonto m’appare,
     su l’orlo dell’ombra, lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
     lontano, lontano, lontano. 12

La via fatta, il trascorso dolore
     m’accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
     discende al silenzio infinito. 16

La felicità

(Primi poemetti 1907)

“Quella, tu dici, che inseguii, non era
lei…?„ “No: era una vana ombra in sembiante
di quella che ciascuno ama e che spera 3

e che perde. Virtù di negromante!„
“Ella è qui, nel castello arduo ch’entrai?„
“Forse la tocchi, o cavaliere errante!„ 6

“Forse… E non la vedrò?„ “Non la vedrai„
“Oh!„ “Tale è l’arte dell’oscuro Atlante:
non è, la vedi; è, non la vedi„ “E, mai…?„ 9

“Ma sì; se leggi in questo libro tante
rapide righe„ “E dicono…?„ “S’ignora:
chi lesse, tacque, o cavaliere errante!„ 12

“Se leggo?…„ “Sai: l’incanto è rotto„ “Allora?„
“La vedrai„ “Su l’istante?„ “In quell’istante!„
“E il castello?„ “Nell’ombra esso vapora„ 15

“Ed è?…„ “La Vita, o cavaliere errante!„

Il libro

(Primi poemetti 1907)

I

Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
3esercitata dalla tramontana, 3

viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora. 6

E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto, 9

sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
sfogli — se n’ode il crepitar leggiero —
le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento, 12

invisibile, là, come il pensiero…

II

Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va dall’estrema, a ritrovar la prima. 16

E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano. 19

E poi li volge a uno a uno, lenta- 
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa. 22

Sosta… Trovò? Non gemono le porte
più; tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?… Un istante; e volta le contorte 25

pagine, e torna ad inseguire il vero.

III

E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere. 29

E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni 32

la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene. 35


Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti, 38

sotto le stelle, il libro del mistero.

La picozza

(Odi e inni 1906)

Da me!.. Non quando m’avviai trepido,
c’era una madre che nel mio zaino
     ponesse due pani
          per il solitario domani. 4

Per me non c’era bacio nè lagrima,
nè caro capo chino su l’omero
     a lungo, nè voce
          pregante, nè segno di croce. 8

Non c’eri! E niuno vide che lacero
fuggivo gli occhi prossimi, subito,
     o madre, accorato
          che niuno m’avesse guardato. 12

Da me, da solo, solo e famelico,
per l’erta mossi rompendo ai triboli
     i piedi e la mano,
          piangendo, sì, forse, ma piano: 16

piangendo quando copriva il turbine
con il suo pianto grande il mio piccolo,
      e quando il mio lutto
            spariva nell’ombra del Tutto. 20

Ascesi senza mano che valida
mi sorreggesse, nè orme ch’abili
      io nuovo seguissi
            su l’orlo d’esanimi abissi. 24

Ascesi il monte senza lo strepito
delle compagne grida. Silenzio.
      Ne’ cupi sconforti
            non voce, che voci di morti. 28

Da me, da solo, solo con l’anima,
con la piccozza d’acciar ceruleo,
      su lento, su anelo,
            su sempre; spezzandoti, o gelo! 32

E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito, assiduo;
      nel gelo che spezzo,
            scavandomi il fine ed il mezzo. 36

Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per udir crosci di mani, simili
      a ghiaia che frangano,
            io, io, che sentii la valanga; 40

ma per restare là dov’è ottimo
restar, sul puro limpido culmine,
    o uomini; in alto,
          pur umile: è il monte ch’è alto; 44

ma per restare solo con l’aquile,
ma per morire dove me placido
     immerso nell’alga
          vermiglia ritrovi chi salga: 48

e a me lo guidi, con baglior subito,
la mia piccozza d’acciar ceruleo,
     che, al suolo a me scorsa,
          riflette le stelle dell’Orsa. 52

Alexandros

(Poemi conviviali 1904)

I

— Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,

o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,

l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma e si profonda

dentro la notte fulgida del cielo.

II

Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.

Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:

il sogno è l’infinita ombra del Vero.

III

Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!

Ad Isso, quando divampava ai vènti
notturno il campo, con le mille schiere,
e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.

A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere,

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

IV

Figlio d’Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:

soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…

e il canto passa ed oltre noi dilegua. –

V

E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,

come trotto di mandre d’elefanti.

VI

In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.

A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita

le grandi quercie bisbigliar sul monte.