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Il cuore oscuro della notte

by Mariapina Dragonetti

Analisi di alcuni momenti fondamentali della notte: la luce, i lupi e il gallo

V cap de La tenebra e la luce nelle metamorfosi di Apuleio

di Tiziano Lorenzo Vezzoli


 1. Il canto del gallo

Frontespizio dell’edizione delle Metmorfosi curata da John Price (1600-1676), Gouda (NL) 1650

Nell’ambito della ricerca sulla notte interessano la nostra analisi due particolari tematiche a cui crediamo Apuleio abbia attribuito una valenza e un significato particolari: il canto del gallo e il momento in cui la notte illuminata dalla luna piena. Vogliamo cercare di scoprire se è possibile postulare un rapporto fra questi due avvenimenti.
Stabiliamo di prendere in considerazione alcuni particolari passi apuleiani che, confrontati con altri di Petronio, ci consentiranno di trarre alcune conclusioni. Il primo a cui facciamo riferimento ci porta alla novella di Telifrone, nel momento particolare in cui l’alba sta per arrivare e la notte, prossima a morire, nasconde ancora i misteri che in essa sono avvenuti. Ecco il testo (II, 26): Commodum noctis indutias cantus perstrepebat cristatae cohortis; tandem expergitus et nimio pavore perterritus (1) cadaver accurro et, admoto lumine, revelataque eius facie rimabar singula, quae cuncta convenerant. Rimando a quanto abbiamo detto altrove per la esegesi complessiva di questo passo, perché ora a noi preme particolarmente focalizzare l’attenzione sul risveglio di Telifrone, momento che coincide con il canto del gallo. Questo istante è il limite che segna la fine dell’incantesimo, del sonno e quindi il ritorno alla normalità (ritenuta tale). Accanto a questo, dobbiamo analizzare anche il caso di Aristomene, il cui confronto si rivelerà utile. Dopo la notte in cui Meroe ha strappato il cuore a Socrate, Aristomene cammina a fianco dell’amico credendo di aver solo sognato gli avvenimenti di quello strano incubo, – la riprova, egli crede, sta nell’avere Socrate che cammina insieme a lui – mentre proprio in questo momento egli sta vivendo una inganno che si attua alla luce chiara del sole. Il sogno della notte era la realtà, mentre da sveglio la sua percezione viene ingannata come se stesse sognando. È il capovolgimento delle normali regole di conoscenza, che vengono alterate per effetto della magia. Se Aristomene non vede nulla sul collo di Socrate, prima squarciato, allo stesso modo Telifrone si trova a osservare scrupolosamente il viso del suo doppio e tutto sembra integro. Il momento è dunque particolarissimo: quando a Telifrone sembra di aver accertato che tutto è normale in verità si afferma che nulla è come appare. Dal punto di vista narratologico è appunto il canto del gallo che segna l’inizio del disvelamento della realtà. Ritroviamo qui le figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas del prologo: suo malgrado Telifrone si è dovuto sostituire al morto durante la notte e i segni che porta sul volto, la mutilazione che lo rende ridicolo, ne è la riprova. Inserito in quest’ottica, il canto del gallo acquista un valore di katastrophé eccezionale.
 Se ci spostiamo per un attimo all’interno delle vicende di Carite, troveremo un altro passo che conferma le nostre conclusioni. Ci riferiamo a quella fase del racconto che la vede ormai riconsegnata ai familiari, dopo il suo rapimento da parte dei briganti, grazie all’intervento di Tlepolemo. Tutto pare andare bene ma all’inizio del libro ottavo, al capitolo primo, entra in scena un servo di Carite che, come un nunzio nella struttura delle tragedie, narra ai pastori il destino toccato in sorte alla sua signora. È questo un momento catastrofico, che segna la svolta finale nelle vicende della sfortunata Carite: se consideriamo il testo troveremo anche qui, subito in prima battuta, gli elementi di cui ci occupiamo: la notte e il canto del gallo. Così in VIII, 8 : Noctis gallicinio venit quidem iuvenis e proxima civitate, ut quidem mihi videbatur, unus ex famulis Charites, puellae illius, quae mecum apud latrones pares aerumnas exanclaverat.

2. La luna piena

A questo punto dobbiamo analizzare l’altro importante momento della notte, quello della luna piena. Possiamo ricordare con R. Smet (2) che prima del libro undicesimo sono scarsissime le espressioni che ricordano la luce della luna. Non appaiono condivisibili appieno, tuttavia, le osservazioni per cui nei primi X libri vi sarebbe una sola referenza alla luce lunare in VI, 29. Si vedano per esempio le ampie citazioni della luce nell’adynaton di I, 3: Ne – inquit – istud mendacium tam verum est siquis velit dicere magico susurramine amnes agiles reverti, mare pigrum colligari, ventos inanimes exspirare, solem inhiberi, lunam despumari, stellas evelli, diem tolli, noctem tolli, noctem teneri, e quelle di I, 8: Saga – inquit – et divina, potens caelum deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, Manes sublimare, Deos infirmare, sidera extinguere, Tartarum ipsum illuminare, così come quelle di II, 5 Maga primis nominis et omnis carminis sepulchralis magistra creditur, quae, surculis et lapillis et id genus frivolis inhalatis,omnem istam lucem mondi sideralis imis Tartari et in vetustum Chaos submergere novit. In questi casi in cui la luna viene nominata direttamente – oppure quando ci si riferisce anche ad essa con i termini più generali di sidera o di luce dell’universo – l’intento è quello di mettere in risalto il potere, che la goetía ha, di oscurarla e di eclissarla. Sono altresì importanti i passi in cui il racconto ci avverte espressamente che «in quel momento la luna non c’era», come in IV, 18 (3) dove troviamo i briganti in azione in servato noctis inlunio tempore, oppure come in IX, 33 (4), dove la notte di inluniae caliginis segna l’inizio di una serie di prodigi funesti. Forse risponde a una precisa regola il fatto che, nei primi dieci libri, si citi più spesso la mancanza della luna piuttosto che la sua presenza? Esaminando i dati possiamo affermare che la presenza della luna è sottoposta ad una legge narrativa che di essa sottolinea l’aspetto tenebroso e malefico. I briganti hanno bisogno che non ci sia la luna per poter compiere le loro scorrerie notturne senza pericolo di essere visti, mentre le streghe minacciano il sole di oscurarlo perché tarda a lasciare spazio alle tenebre, luogo e ambiente dei riti magici. Quando si parla della luna, lo si fa solo per avvisarci che essa sarà fatta sparire : lunam despumari. Se poi in VI, 29 la luna compare, essa è una traditrice: infatti ad lunae splendorem i briganti (che iam inde longius cognitos risu maligno (5) salutant) scoprono Carite e Lucio che tentano la fuga. Carite pretendeva di guidare Lucio sulla via di destra, quando l’asino sapeva bene che proprio da quella parte sarebbero dovuti tornare i briganti (6). La scena, alla luce bianca di questa strana luna, assume tinte di crudele scherno per i poveri fuggitivi, cui si rivolgono le canzonature beffarde dei briganti che domandano ai nostri fuggiaschi: quorsum istam festinanti vestigio lucubratis (7) viam, nec noctis intempestae Manes Larvasque formidatis? An tu, probissima puella, parentes tuos intervisere properabas? Sed nos et solitudini tuae praesidium perhibebimus et compendiosum ad parentes tuos iter monstrabimus. Inoltre, la luna elemento di magia oscura ritorna anche anche in Petronio, dove la trasformazione del compagno di Nicerote in lupo mannaro avviene presso un cimitero in una notte di luna piena, ciò che riprende ancora più palesemente il significato soprannaturale di cui dicevamo. Questa luna complice della oscura atmosfera goetica dei primi dieci libri verrà superata dall’undicesimo libro, dove la medesima diviene immagine della divinità.
Abbiamo discusso della luna e del canto del gallo. Ci resta da vedere cosa accade quando questi elementi siano compresenti in un unico quadro.

3. Il lupo: Lucio versipellis?

Licantropo, da un Bestiario del XIV secolo

Concludiamo questa analisi prendendo spunto da un passo petroniano della favola del versipellis (8). Nicerote racconta l’incredibile episodio di cui stato testimone e che lo ha portato, una notte, ad assistere alla trasformazione di un uomo in un lupo. Il protagonista del racconto era uscito dalla casa del suo padrone per recarsi presso un’osteria dove era morto il marito di una certa Melissa; lo accompagnava, lungo la strada, un miles che aveva precedentemente incontrato. Ci si dice che la luna piena splendeva tamquam meridie (62, 3) e che l’ora era quella del canto del gallo circa gallicinia. Il frutto di questa atmosfera così densa di magia è la metamorfosi del soldato in lupo: Nicerote lo ritroverà sanguinante, per una ferita al collo, proprio là dove i servi di Melissa lo avevano colpito quando era in forma di lupo (9).
 Possiamo trovare conferma circa l’importanza del momento in cui il gallo canta riprendendo le ricerche di A. Borghini (10), che definisce questo momento della notte con i termini di una “marca di catastrofe”. Nel plenilunio i termini opposti della luce e della tenebra si trovano compresi in una strana unità (11): pur essendo notte fonda sembra l’ora del mezzodì. Questo momento eccezionale, che ritroveremo nelle vicende di Telifrone (II, 6), si presenta nello stesso tempo come la fine della notte e l’inizio del giorno, ma supera per la sua specificità l’uno e l’altro (12). Se ripensiamo al canto del gallo che troviamo in Telifrone, a quello dell’inizio del racconto sulle vicende di Carite, alla luna piena di Carite e Lucio fuggiaschi e infine alla compresenza di questi elementi in Petronio, sembra di poter rilevare che i singoli elementi acquistano ciascuno una specifica collocazione in un quadro ben definito, come l’analisi storica e letteraria ci conferma. È Eliano nella sua Natura animalium (X, 26), infatti, ad informarci che il momento di forte luminosità di cui abbiamo parlato, il diluculum o crepusculo mattutino, veniva reso in lingua greca con i termini lykóphos lykaugés, cioè luce da lupi. È estremamente coerente, dunque, sul piano magico, che la trasformazione in lupo del versipellis avvenga al momento della “luce dei lupi”. Inoltre Polluce (13), parlando delle della parti in cui divisa la notte, ci informa che “il momento della luce dei lupi quello del canto del gallo “ .
Abbiamo discusso ampiamente dell’accecamento di cui è vittima Lucio. Se poniamo in rapporto con questo il fatto che Eliano considera il lupo “l’animale dalla vista più acuta e il solo che vede anche di notte quando la luna non c’è”, il significato che abbiamo attribuito all’accecamento acquista un valore ancora più forte. Possiamo forse spingerci fino a pensare a Lucio (o Lykios) come a un uomo-lupo che avrebbe dovuto saper vedere nella tenebre della notte. Ci porta a questa conclusione – non priva di audacia e quindi da assumere solo come suggestiva ipotesi – il fatto che, attraverso i riti di consacrazione (14), Lucio diventerà un nuovo Osiride (XI, 24): seguendo Plutarco (15) apprendiamo che “[gli Egiziani] … scrivevano il nome del loro re e signore Osiride con il disegno di un occhio e di uno scettro: alcuni interpretano questo nome nel senso di “dai molti occhi”, perché nella lingua egiziana OS significa molto e RI occhio.”

 4.
a. Il sole di tenebra

Abbiamo trovato riscontri interessanti nell’esame di alcuni passi di Apuleio in confronto con altri di Petronio. A questo punto, l’oggetto della nostra analisi cambia e dalla notte passiamo ad approfondire alcuni momenti del racconto apuleiano in cui compare la luce del giorno e, in particolare, il mezzodì. Secondo le simbologie della mitologia classica la meridies è l’attimo in cui il sole brilla più alto nel cielo e il mondo, come soffocato, si ferma per un istante. Questo quanto ci dice la norma, ma. Lo stravolgimento della realtà quale viene presentato da Apuleio opera anche in questo caso: Apuleio usufruisce del sole e del mezzodì come metafora dell’accecamento e i passi che esamineremo ci presenteranno l’immagine dell’inganno e della morte.
Il passo che analizziamo per primo è II, 11: Commodun meridies accesserat, et mittit mihi Byrrhena xeniola porcum opimum et quinque gallinulas et vini cadum in aetate pretiosi. Tunc ego vocata Photide: “Ecce – inquam – Veneris hortator et armiger Liber advenit ultro! Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat pudoris ignaviam et alacrem vigorem libidinis incutiat. Hac enim sitarchia navigium Veneris indiget sola, ut in nocte pervigili et oleo lucerna et vino calex abundet. Da quanto abbiamo già esaminato altrove, appare chiaro che ogni gesto compiuto dalla amica della madre di Lucio, Byrrena, non solo non è “ innocente “ ma riveste anche un significato particolare e intenso per lo sviluppo ulteriore della trama: in questo caso si tratta dei doni che Birrena offre a Lucio sull’ora del mezzodì. Sarebbe interessante approfondire il significato simbolico dei doni: in particolare, il maiale è molto immagine del cinghiale il cui inseguimento consentì a Seth di ritrovare il sarcofago con il corpo di Osiride (16). Questo cibo sarà fermamente proibito a Lucio quando questi diverrà sacerdote isiaco, poiché ci informa Plutarco che “i sacerdoti … rifiutano la maggior parte dei legumi e la carne di montone e di maiale (17) perché questi alimenti producono una eccessiva pienezza (18)”. In ogni caso sembra palese che i doni, offerti da Byrrena a Lucio come gesto di benvenuto nella città di Ipata, hanno un valore simbolico. Byrrena infatti ha già messo in guardia Lucio dalle malefiche arti della stregoneria di Panfile, e ora sembra spingerlo verso un destino in cui agirà Fotide. Dice bene V. Ciaffi (19): “Cosciente Birrena di quello che fa, o strumento involontario delle potenze di Ipata? Rispondere con sicurezza non si può, ma il comportamento di lei … ha qualcosa di ambiguo: affettuoso il suo invio di xeniola a II, 11, 1, ma proprio quei doni, a detta di Lucio, serviranno per la notte d’amore (II, 11, 2 e sgg.), che è il primo passo verso la metamorfosi.” Concordiamo con le sue osservazioni che ci sembrano calzanti con il tessuto narrativo: il mezzodì sembra confondersi qui con la notte.
 Il secondo passo in esame deve essere diviso in più parti. Nella prima vediamo Lucio ridotto per la stanchezza, alla condizione di morto che cammina III, 29: Iamque, rerum tantarum pondere et montis ardui vertice et prolixo satis itinere, nihil a mortuo differebam (20). La connotazione temporale viene indicata subito dopo, dove compare nuovamente il mezzodì nella espressione luce clarissimaCum denique iam luce clarissima vicum quempiam frequentem et nundinis celebrem praeteriremus, inter ipsas turbelas Graecorum genuino sermone nomen augustum Caesaris invocare temptavi; et O quidem tantum disertum ac validum clamitavi, reliquum autem nomen Caesaris invocare non potui (21). Di fronte all’esuberante vocalismo dell’asino il rimedio che pare più consono ai ladroni è quello delle percosse, che riducono l’asino a mal partito: aspernati latrones clamorem absonum meum, caedentes hinc inde miserum corium nec crebris iam idoneum relinquunt. Il racconto ha una climax interna, perché a questo punto Lucio scorge inun prato alcune rosae virgines che matutino rore florebant. Soltanto il pensiero della sorte a cui sarebbe andato incontro sotto forma umana in quella banda di ladri lo dissuade dall’approfittare del momento. Veniamo ora al momento culminante e forse il pi pericoloso, in cui il nostro eroe si avvicina ancora una volta alla morte: siamo in IV, 1, dove verso mezzodì (Diem ferme circa medium, cum iam flagrantia solis caleretur), i briganti si fermano presso un villaggio. Lucio può vagare libero e si mette subito alla ricerca delle rose con cui liberarsi dalla schiavitù della forma asinina: Deosque comprecatus omnes cuncta prosperabam loca, sicubi forte conterminis in hortulis candens repperirem rosarium. Il testo continua: Ergo igitur cum isto cogitationis salo fluctuarem, aliquanto longius video frondosi nemoris convallem umbrosam, cuius inter varia herbulas et laetissima virecta fulgentium rosarur mineus color renidebat. Se però Lucio crede che si tratti di un bosco sacro a qualche divinità, Venere o le Grazie, la sua speranza resterà delusa poiché lo attende una triste sorpresa: Iam enim loco proximus, non illas rosas teneras et amoenas madidas divini roris et nectaris, quas rubi felices et beatae spinae generant, ac ne convallem quidem usquam nisi tantum ripae fluvialis marginem densis arboribus septam video. Le rose si rivelano infatti, viste da vicino, fiori dal veleno potente e mortale: Hae arbores, in lauri faciem prolixe foliatae, pariunt in modum floris odori porrectos caliculos modice punicantes, quos equidem fraglantes minime rurestri vocabulo vulgus indoctum rosas laures appellant, quarumque cuncto pecori cibus letalis est. Anche in questo caso Apuleio ha voluto attribuire al mezzogiorno un ruolo opposto e contrario a quello che logicamente sembrerebbe spet­targli: quest’ultimo si rivela non un momento di luce ma di oscurità e morte (22). Nel prosieguo Lucio cade preda dello sconforto e decide di morire volontariamente avvelenandosi, ma anche questo gli viene impedito dalla Fortuna per il sopraggiungere del padrone dell’orto (adreptum me totum plagis obtundit adusque vitae ipsius periculum) e dei vicini che scatenano i loro temibili cani: Tunc igitur procul dubio iam morti proxumus, cum viderem canes et modo magnos et numero multos et ursis ac leonibus ad compugnandum idoneos in me convocatos… Siamo nuovamente di fronte al mezzodì in IV, 4 (Nec mora, cum iam in meridiem prono iubare (23)…) quando i briganti azzoppano e scaraventano in un burrone l’altro asino che li segue insieme a Lucio, sconvolgendo la sua decisione di scioperare anche a costo della morte.

 b. Eros e Psiche

Ci avviamo ora verso a conclusione della nostra analisi. Entriamo nell’atmosfera magica della favola di Eros e Psiche e, in particolare, nella ridda di prove che Psiche deve superare per poter rincontrare il suo amante. Una di queste consiste nel portare a Venere i fiocchi della lana dorata di alcune pecore assassine. Ad ammonire Psiche è una canna sibilante, cresciuta sulle rive del fiume dove la disperata vorrebbe gettarsi (24)
Psyche, tantis aerunmnis exercita, neque vero istud horae contra formidabiles oves feras aditum, quoad de solis flagrantia mutuatae calorem truci rabie solent efferri, cornuque acuto et fronte saxea et non numquam venetatis morsibus in exitium saevire mortalium; sed dum meridies solis sedaverit vaporem et pecua spiritus fluvialis serenitate conquieverint, poteris sub illa procerissima platano  latenter abscondere. Et cum primo mitigata furia laxaverint oves animum, percussis frondibus attigui nemoris lanosum aurum repperies, quod passim stirpibus convexis obhaerescit. 

Il mezzodì appare esplicitamente come momento di morte anche nel passo che esaminiamo di seguito. La storia del mugnaio che esaspera la moglie adultera con il suo comportamento verso il giovane amante ha una fine inaspettata: la donna ricorre ai sortilegi di una maga (IX, 29 quandam feminam, quae devotionibus ac maleficiis quidvis efficere posse credebaturi), e istiga contro il marito uno spettro. Infatti nel seguito della storia compare uno spettro in forma di donna (mulier tristitie deformis nudis et intectis pedibus, lurore buxeo macieque foedata) che trascina il mugnaio all’interno della casa (quasi quippiam secreto conlocutoria) e che scompare senza lasciare traccia. Dopo qualche tem­po il pover’uomo verrà rintracciato e quodam tigillo constrictum iamque exanimem. L’ora in cui accade il fatto è diem ferma circa mediam.

5. Il sole nella tenebra

Raffaello, Loggia di Psiche, Villa Farnesiana, Roma

Durante l’ascolto del racconto apuleiano ci si trova di fronte a un caso particolarmente interessante: il sole vi entra come elemento di paragone perché le scene sono ambientate nella notte. Ci riferiamo a due episodi i cui protagonisti, e questo è determinante, sono i briganti. Questi si muovono sempre di notte, come le streghe, e per ciò stesso costituiscono l’elemento che scatena la magia e che realizza, per così dire, l’inaspettato.
La prima scena in cui li incontriamo direttamente è la notte della metamorfosi di Lucio. Lucio (ormai asino) si trova rinchiuso nella stalla e un servo lo sta malmenando con un ramo nodoso. Ecco che all’improvviso le porte vengono divelte con gran frastuono e la casa di Milone appare circondata dai briganti: questi illuminano la notte con la luce delle loro fiaccole e lo scintillare delle lame come fosse l’alba. Ecco la scena (II, 28): Nec mora, cum vi patefactis aedibus globus latronum invadit omnia, et singula domus membra cingit armata factio, et auxiliis hinc inde convolantibus obsistit discursus hostilis. Cuncti gladiis et facibus instructi noctem illuminant, coruscat in modum ortivi solis ignis et mucroCoruscare è verbo che ha un significato e un valore fondamentale nelle Metamorfosi, perché sarà usato nella descrizione della visione mistica di Iside (XI, 4) e nella notte in cui Lucio viene iniziato ai sacri misteri (XI, 23) (25). Lo troviamo però qui fin dall’inizio, quando esso evidenzia il momento in cui Lucio perde ogni speranza di poter tornare se stesso e muore, per così dire, alla condizione umana. Infatti il viaggio nella ‘notte dell’anima’ non durerà per lui moram noctis unius, come falsamente aveva assicurato Fotide, ma un anno intero.
Un’identica situazione compare in un altro punto forte del romanzo, nel rapimento di Carite per mano di quei banditi che tengono prigioniero anche Lucio. Vediamo il passo (IV, 26): domus tota lauris obsita, taedis lucida costrepebat hymenaeum; tunc me gremio suo mater infelix tolerans mundo nuptiali decenter ornabat, mellitisque saviis crebiter ingestis iam spem futuram liberorum votis anxiis propagabat: cum irruptionis subitae gladiatorium fit impetus ad belli faciem saeviens, nudis et infestis mucronibus coruscans… La presenza di questo sole artificiale significa per Carite l’inizio di una serie di sventure, poiché sappiamo che a Carite la Fortuna non concederà il ritorno alla condizione primigenia. Solo attraverso la morte essa potrà unirsi definitivamente all’amato.