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Il male e la sofferenza in Seneca ( De provindentia) e in Leopardi (La ginestra)

by Mariapina Dragonetti

di C. Cassanmagnago


 “Come tanti fiumi, tante piogge precipitatesi dall’alto, tanta abbondanza di fonti medicamentose non alterano il sapore del mare e neppure lo attenuano, così l’impeto delle avversità non sconvolge l’animo d’un uomo forte: egli rimane nella sua posizione (manet in statu) e trae partito da qualunque avvenimento, perché è più forte di ogni realtà esterna. Ma non dico che non sente gli eventi: li vince, e, per il resto, quieto e placido, si leva contro ciò che lo attacca. Reputa ogni avversità un esercizio (exercitatio). Chi, peraltro, purché uomo e direttamente rivolto all’onesto (erectus ad honesta), non è desideroso di una giusta fatica e pronto ad eseguire doveri anche pericolosi? Per quale uomo attivo l’ozio non è una pena?” 1 In queste parole è già in sintesi tutto l’opuscolo di Seneca e la sua alta spiritualità. Il male, le avversità, il dolore, la sofferenza sono prove a cui l’uomo forte e onesto risponde con fermezza; sono esercizi (grecamente askéseis) cui si sottopone anche volentieri, non diversamente dagli atleti, dai soldati, dai gladiatori 2; perché “senza un avversario la virtù infiacchisce” 3. E come i padri spartani sono severi coi figli che fanno sudare e anche piangere, così Dio, come un padre che ama fortemente (fortiter) i figli, dice: “Siano sottoposti a fatiche, dolori e danni perchè acquistino la vera forza (ut verum diligant robur)” 4.
I guerrieri autentici – e l’immagine del combattente o dell’atleta ricorre frequentemente come in Epitteto) – si gloriano delle ferite e mostrano il sangue che scorre dalla corazza, giacché la virtù è avida di pericoli e di gioia, e pensa alle sue mete, non ai mali che dovrà sopportare5.
Ci sono poi i vili, quelli che non sanno resistere e si lamentano sterilmente, e nondimeno sopravvivono e anzi vivono con più agio e più lungo dei forti. E’ vero: sodomiti e scostumati stanno tranquilli tra mollezze e agi 6; invece alla fatica e alle armi vengono chiamati i migliori (labor optimos citat); perché sono gli uomini che vegliano negli accampamenti e combattono in armi e magari sono feriti e uccisi7
Il problema che l’opuscolo senecano affronta è quello annunciato dal sottotitolo (il titolo iella tradizione è un po’ fuorviante): perché disgrazie capitano agli uomini onesti se esiste la Provvidenza? 8
Esiste, comincia a dire Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Innanzitutto, quindi, Seneca ribadisce la tradizionale dottrina dell’ordo cosmico razionale (pronoia,providentia heimarmene, fatum) formulata in chiave eminentemente immanentistica e panteistica e conformemente ad un atteggiamento essenzialmente cosmocentrico, per quanto numerosi siano gli spunti teistici (però ininfluenti per la sua concezione globale della realtà)9.

Busto di Seneca (Museo Nazionale di Berlino, ma proveniente da Roma, ove fu rinvenuto nei pressi della Chiesa di S. Maria in Domenica)

Questa è per Seneca una certezza incrollabile: la realtà è buona e nient’affatto priva di significato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti, mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? E questo è anche il problema di Lucilio, il destinatario dell’opuscolo, che non dubita della Provvidenza ma se ne lamenta10
Ecco la soluzione di Seneca: la sofferenza è esercizio che Dio ci infligge perché la virtù umana possa esistere e fortificarsi; quindi è un bene. Peraltro solo il vizio è male, il resto è indifferente11.  Seneca, non discostandosi dall’insegnamento tradizionale (gli antichi non pretendevano né volevano essere originali) accentua romanamente il momento della lotta nel rapporto tra l’uomo e la sofferenza, delineandone così una concezione definibile a buon diritto “agonistica”. Batte sull’impegno, sull’azione, sulla lotta anche sanguinosa, per cui la vita risulta un costante duello tra l’uomo o meglio il suo spirito indomabile e la realtà, a volte apparentemente iniqua o indifferente12.  Quest’ultima però non cessa neanche un istante di essere buona e ordine assolutamente significativo. Il male è piuttosto la condizione della moralità dell’uomo onesto; è l’antagonista ineliminabile e necessario. Certo, si possono avere perplessità, giacché la sofferenza induce a cedere e talora a disperare (Seneca stesso fu fin dalla fanciullezza di salute cagionevole); cionondimeno, rimane saldo il convincimento – eroico e splendido. E l’opuscolo, non privo di toni enfatici, è essenzialmente intonato a questa fiducia al fondo pacata e serena, seppure non priva di qualche accento disperato. Gli exempla introdotti nel corso della trattazione (di Catone, di Socrate ecc.), anche in ossequio alle consuetudini retoriche correnti, e la prosopopea di Dio alla fine (che probabilmente ripete quella delle Leggi nel Critone platonico) non turbano il clima schietto dell’opuscolo, i cui toni accesi ben si addicono all’alta tensione morale13
Dice Dio: “Poiché non potevo sottrarvi a questi mali ho armato il vostro animo contro tutto. Sopportate con forza! (Ferte fortiter). In questo superate Dio: quest’ultimo è fuori dalla sopportazione dei mali, voi al di sopra” 14.
E con un moto di orgogliosa ribellione: “Ogni circostanza, ogni luogo vi insegni quant’è facile rinunciare alla natura e gettarle in faccia il suo dono”15 . La morte è facile: “La porta è aperta (patet exitus). Se non volete combattere, potete fuggire” 16.  Dunque, la contradictio 17 tra la razionalità del mondo e le sofferenze che colpiscono l’uomo buono è solo apparente. Anzi, dice Seneca (citando Demetrio cinico): nessuno è più infelice di colui al quale non è mai accaduto qualche male. Perché solo la cattiva fortuna rivela grandi esempi di virtù (come fu il caso di Muzio Scevola), la cattiva fortuna che sveglia le forze dell’animo e lo spinge a sperimentarsi, a plasmarsi, a forgiarsi: “La prosperità tocca alla plebe e alla gente bassa; è proprio dell’uomo grande sottomettere le calamità e i terrori che affliggono i mortali” 18. Non avere sperimentato il dolore è ignorare rerum naturae alteram partem, l’altra faccia della natura, l’altra parte della condizione umana 19. La disgrazia, ribadisce, è occasione di virtù 20; e il veterano della vita sa affrontare mali e sofferenze con serenità e coraggio (audacter veteranus cruorem suum spectat qui scit se saepe vicisse post sanguinem)21. E dunque, esorta Seneca: “Fuggite la vita comoda e snervata per cui gli animi rammolliscono a meno che non accada qualcosa che li avverta della sorte umana”22.  Perché chi si abitua alla mollezza cadrà al primo soffio di vento; peraltro la sorte ama i più forti e s’accanisce contro di loro per rivelare la loro fortezza: li renderà a poco a poco simili a lei e l’assiduità dei pericoli procurerà loro lo spregio dei pericoli stessi23
Dunque, proposito di Seneca è quello di rimettere Lucilio in accordo con gli dei, che, sottolinea, sono ottimi con gli ottimi24. Dio o gli dèi – come dice alternando tranquillamente politeismo tradizionale e tendenze monoteistiche e teistiche – è simile all’uomo buono, che tempore tantum adeo differt 25 (giacché gli dèi sono immortali). Dio, come un padre spartano, sottopone i figli a dure prove perché li vuole liberi; così noi facciamo coi figli che vogliamo provati e sperimentati. Vuole che l’uomo buono somigli a lui, cioè sia ugualmente imperturbabile (bonum experitur, indurat, sibi illum parat)26. Egli gode delle prove di un Catone, perché ne apprezza l’eroico duello col destino, la virtù pagata con la morte: con la sua mano si è aperta la strada larga della libertà: “Perché gli dei non dovevano volentieri guardare il loro allievo uscire dalla vita in modo così nobile e memorabile?” 27 “Che c’è da meravigliarsi se Dio mette alla prova duramente gli spiriti generosi? Mai la rivelazione della virtù è cosa agevole. La fortuna ci sferza e lacera? Sopportiamo: non è crudeltà, è lotta (certamen est)28. E riportando le parole di Demetrio: l’uomo buono prega di poter conoscere anticipatamente la volontà degli dèi, se fosse possibile, per eseguirla, con tutti i mali che eventualmente comporta 29. Perché la qualità dell’uomo virtuoso è di offrirsi a Dio (o Provvidenza o Fato), cioè all’ordine delle cose; afferma Seneca con tono lapidario e incisivo Grande solacium est cum universo rapi30.
La presenza della materia31 – cui si fa cenno solo una volta – che neppure l’artefice può mutare (giacché Dio è esecutore dell’ordine cosmico), fa sì che i destini siano distribuiti nell’attuale modo: “Le indoli molli e inclini alla inerzia o ad una veglia simile al sonno sono costituite di elementi inerti; perché si realizzi un uomo di tutto rispetto, ci vuole un tessuto più forte. Egli non avrà cammino piano: è opportuno che vada su e giù, che fluttui e governi la sua nave in mare burrascoso; dovrà tenere la rotta contro la fortuna. Gli accadranno molte cose ed aspre, ma che egli saprà ammorbidire e spianare. Il fuoco prova l’oro, l’infelicità gli uomini forti (ignis aurum probat,miseria fortes viros)” 32. E citando l’episodio di Fetonte dalle Metamorfosi di Ovidio: a Fetonte piace stare lì, nell’alto del cielo, dove il Sole stesso trema (ubi Sol ipse trepidat). Analogamente la virtù va sulle cime (per alta virtus it), mentre gli uomini bassi e inattivi amano le strade sicure 33.

 Contemplando l’umile ginestra nel paesaggio squallido e terribile del Vesuvio, Leopardi solleva il fiore solitario a simbolo di un’umanità rinnovata e fatta saggia dalla coscienza del Nulla finalmente dichiarato e riconosciuto, una volta respinte le “superbe fole” che impediscono di guardare in faccia la dura verità:

E tu lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco.

E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle. …
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali. 34

Il componimento, vero testamento del Poeta, muove dalla rappresentazione della sovrana impassibilità dell’universo e della natura matrigna, simboleggiata dal Vesuvio sterminatore, che già seppellì Pompei e i suoi abitanti. Quindi il Poeta condanna aspramente il suo secolo:

Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso lodo
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle. 35

Così rimprovera il secolo “superbo e sciocco”, nella parte più polemica della Ginestra (vv. 51-157), quella in cui condanna la nuova età che ha abbandonato il lume della ragione settecentesca per rifugiarsi in una visione illusoria della condizione umana. Leopardi, fedele alla sua religione del Nulla 36, rigetta lo spiritualismo romantico e la fiducia ottimistica nel progresso, ma non per sterile e retrivo pessimismo 37, quanto perché convinto che “le magnifiche sorti e progressive” fossero false e si dovesse fondare la nuova età a partire dalla verità dell’uomo, che è la sofferenza:

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, …
che confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale.38

E nella Palinodia a G. Capponi (1835) fingendo una ritrattazione:

…una famiglia
di mali immedicabili e di pene
preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice, e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nasce; e l’affatica e stanca
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.39

La natura “de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna” 40 e, dunque, solo avendo netta e rigorosa coscienza di ciò si potranno determinare condizioni di vero progresso. Diversamente ci sarà anche più crudo dolore: le macchine e le “gazzette” 41 (il potere dell’informazione) strazieranno ancora di più la società umana già fondata su consolatorie menzogne per cui la

probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede .42

Leopardi ricusa il Cristianesimo ma non vuole tornare alle speranze illuministiche; certo del Nulla e del dolore per le sue convinzioni materialistiche e sensistiche, gli risultava ridicolo che l’uomo s’arrogasse il vanto dell’eternità e di un progresso indefettibile, pronto però all’occorrenza “a supplicare codardamente innanzi al futuro oppressore”. Di qui la sua ripulsa delle posizioni religiose e filosofiche correnti, nonché dell’ottimismo dei liberali (toscani e napoletani):

Ardir protervo e frode,
con mediocrità, regneran sempre…
                            Dal caro
sangue de’ suoi non asterrà la mano
la generosa stirpe: anzi coverte
fien di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’Atlantico mar… Sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne schiere
di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione.43

Dunque, solo quando l’uomo avrà deposto il suo vano orgoglio e capito che la sua vita è dura sopravvivenza nella costante lotta contro l’indifferenza della natura universale, allora saprà trovare la legge di una nuova fraternità:

Costei (la natura) chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria,
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.44

Ecco il ‘solidarismo’ dell’ultimo Leopardi, che costituisce il messaggio della Ginestra. È il coronamento dell’umanesimo leopardiano, il momento conclusivo dell’intera parabola umana e poetica di Leopardi. Illuminate e dissipate le tenebre dell’inganno (“E gli uomini preferirono le tenebre alla luce” suona l’epigrafe al canto), l’umanità può ritrovarsi nella comune lotta, in un fraterno abbraccio. E’ il messaggio della ‘poesia eroica’ 45 dell’ultimo Leopardi, frutto di un travaglio più che decennale.
Dopo la svolta intellettuale e morale delle Operette morali (degli anni intorno al 1824), Leopardi è convinto dell’assoluta negatività della condizione umana, la cui peculiare caratteristica risulta la sofferenza, sia fisica sia soprattutto spirituale: quest’ultima sentita come noia (“il più nobile dei sentimenti umani”), tedio, angoscia di fronte all’Enigma. Le Operette sono meditazioni inquietanti in cui domina il senso della morte, la scoperta del Nulla, il mistero che contrappone e unisce vita e morte (si pensi al Dialogo diFederico Ruysch e delle mummie, al Cantico del gallo silvestre, al Dialogo della Natura e di un Islandese).
La causa del dolore fu da Leopardi in un primo tempo individuata, russovianamente, nella ragione e nella civiltà; poi il ‘pessimismo storico’ diventò ‘cosmico’ 46: nelle Operette l’uomo vive nel dolore perché vittima di una realtà fatta di materia in perenne trasformazione e quindi tale da condannare al dolore ogni forma di vita.
La ripresa susseguente della poesia leopardiana, il ‘terzo tempo’, quello dei Grandi Idilli, si realizza nell’ormai stabile equilibrio tra convinzioni intellettuali ed effusioni liriche: in questo clima di certa e per così dire religiosa disperazione, nascono gli interrogativi gelidi ed entusiastici del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: il dolore personale del Poeta si espande oltre ogni limite e si fonde con la domanda corale del perché ultimo, col mistero irrisolto del soffrire e del morire di tutte le creature:

che fai tu luna in ciel? …
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli? …
Ove tende
questo vagar mio breve
il tuo corso immortale? …
Che vuol dir questa
solitudine immensa? Ed io che sono? 47

Infine, l’ultima stagione della sua vita (da Firenze a Napoli, anni 1830-3, 1833-7) vede l’aprirsi del Poeta a nuove esperienze che culminano nella Ginestra (1836). Nel cosiddetto Ciclo di Aspasia (Il pensiero dominanteConsalvoAmore e morteAspasiaA se stesso) degli anni 1833-5, domina l’amore per F. Targioni-Tozzetti, la delusione d’amore e il dolore per la vacuità dei contemporanei (la ‘delusione storica’). Scrive nei brevi versi di A se stesso, dalla franta sintassi:

Or poserai per sempre;
stanco mio cor…
Assai palpitasti …
Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo…
Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

La Palinodia, i Nuovi credenti e i Paralipomeni segnano il momento di polemica, di scherno, di irrisione e di ferma repulsa nei confronti del secolo che alimenta illusioni fumose e colpevoli, foriere solo di guerre e di ingiustizie. E’, come ho già detto, il momento eroico dell’ultimo Leopardi: la protesta di chi, conscio del male di vivere, lo denuncia con forza vivendolo fino in fondo e macerandosi a contemplare l’Enigma irresolubile. Il dolore non gli impedisce di dare di ciò testimonianza forte seppur disperata, avendo ormai recuperato la ragione che sente strumento di liberazione capace di rivendicare il destino dell’uomo fino in fondo. La poesia da emozione indefinita dell’infelicità diventa raziocinante messaggio, che invita nella Ginestra a un fraterno abbraccio contro la Natura. E quest’ultimo canto, seppur in parte didascalico e concettuale (come videro De Sanctis e Croce), con la sua tensione lirica incentrata sull’umile fiore, realizza un’ampia e originalissima tessitura linguistica ed espressiva, che si sviluppa in armoniose volute di respiro sinfonico, a celebrare con accenti agonistici 48 il destino umano fragile e mortale.

Leopardi non è solo il grandissimo poeta dell’idillio, ma anche il poeta della persuasione ironica. Nella Ginestra si svolgono più apertamente i motivi eroici della sua poesia e si attua l’estremo tentativo del Poeta di portare in poesia tutta la sua esperienza e persuasione filosofica, morale, estetica, di fondere l’impegno poetico e l’annuncio di una buona e disillusa novella nella rappresentazione del mito-parabola della ginestra 49.
La sua ideologia o filosofia (“un ingorgo sentimentale” per Croce che non lo amava 50) si presenta per più di un verso come una religione personale, la religione del Nulla 51, una sorta di Cristianesimo rovesciato.
Al fondo sta la convinzione che la natura, matrigna, tutto affatica e spegne “indefatigata”. L’ordine cosmico è un mistero impenetrabile e per quello che appare è maligno e fonte solo di inarrestabile dolore per le creature. Siamo agli antipodi di Seneca, la cui fede nella bontà del cosmo è saldissima, e di Epitteto, nella cui filosofia emerge (seppur aporeticamente) l’idea e la fede in un Dio persona e padre 52. Leopardi, com’è noto, tradusse il Manuale e ne definì la filosofia rinunciataria e adatta a spiriti deboli, pur riconoscendone l’utilità pratica 53. Peraltro, Leopardi non considerò le Diatribe e il loro spirito ottimisticamente religioso, che ne giustifica il duro ascetismo. Comunque il pessimismo di Leopardi non è frutto delle sue letture stoiche, ma di convinzioni materialistiche e sensistiche che si radicalizzarono nel corso della sua vita. Di buon’ora, ventenne, Leopardi abbandonò la Chiesa e il Cristianesimo persuaso che fosse un’illusione umana, troppo umana 54.
Che cosa dunque fa in lui argine al dolore che è la vita stessa? Solo la ragione che ne dà testimonianza e l’eroismo della volontà che lo spinge a chiamare l’umanità alla vera fratellanza. Insomma alla vita non c’è rimedio: si nasce per soffrire e per morire. D’altro canto, la tensione agonistica che emerge è altra cosa dall’agonismo stoico e in particolare di Seneca: fiducioso nell’ordine del mondo e nella condizione umana 55, lo Stoico sopporta con forza, perché nella lotta è il senso della vita, è la possibilità di autoaffermarsi e di conseguire la virtù e quindi la libertà. Il dolore stesso, se ben usato, diventa gioia, perché ogni difficoltà ben affrontata e superata, ogni vittoria sul mondo accresce la forza dell’animo, la sua serenità, la sua imperturbabilità. L’animo arriva così a disprezzare la sorte e con essa il male e il dolore, che è utile, anzi necessario perchè l’uomo divenga conscio della sua forza e riveli la sua virtù. Non c’è in tutto questo pessimismo o angoscia, ma serenità e fiducia nella Provvidenza del mondo. L’atteggiamento del filosofo stoico è aristocratico ma umanissimo; è l’atteggiamento di chi non empiamente nè irrazionalmente ma con pazienza e metodo s’adopera per realizzare una dimensione umana schiva e forte di assimilazione al Logos, a Dio. Tale “sequela di Dio” solo in Epitteto 56, dato il potenziale e parziale superamento del panteismo immanentistico, è avvicinabile a quella del cristiano. Quest’ultimo ha come obbiettivo ultimo l’imitatio Christi; e la sofferenza è mezzo per testimoniare la Passione di Lui e realizzare la “sequela”.
Se si prescinde dalle posizioni veterotestamentarie per cui la sofferenza è punizione di una colpa o prova o problema di ardua soluzione 57, la risposta evangelica alla sofferenza è tutta nella fede in Cristo salvatore. Ne consegue che il dolore per il cristiano è salvifico: “La sofferenza certamente appartiene al mistero dell’uomo… Solo Cristo rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Il mistero della redenzione del mondo è in modo sorprendente radicato nella sofferenza e questa a sua volta trova in esso il suo supremo e più sicuro punto di riferimento” 58. E nel capitolo “Partecipi delle sofferenze di Cristo”: “Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta” 59.

Note

  1. Seneca, De provid., II, 1-2. Il saggio vertit malum in bonum (II, 4 e passim); cfr. Epitteto, Diatribe, II, 20. Sono moltissimi i punti di contatto tra Seneca ed Epitteto; essi attestano l’’esistenza di una dottrina stoica comune (risalente alla tradizione stoica), nel I-II sec. d.C. ↩︎
  2. Cfr. De prov. II, 3, segg.; 6 segg.; III, 4; IV, 2 segg.; V, 1. Epitteto, Diatribe, II, 9, 13 e passim. ↩︎
  3.  De prov.. II, 4: Marcet sine adversario virtus. ↩︎
  4. De prov. II, 6. ↩︎
  5. De prov., IV, 4 segg. ↩︎
  6. De prov., III, 13. ↩︎
  7. De prov. V, 4 segg. ↩︎
  8. Qua re aliqua incommoda bonis viris accidant cum sit Providentia. I propositi di Seneca sono espressi a III, 1 segg. Dunque, non si tratta di un trattatello sul male come tale e sulla Provvidenza, quanto sul problema dell’apparente iniquità dell’ordine naturale. Tutta la trattazione ha taglio morale e nient’affatto metafisico. Sulla Provvidenza e la teodicea presso gli Stoici cfr. Pohlenz, La Stoa, tr. it., Firenze 1967, I, pp. 198-9 e passim. ↩︎
  9. La Provvidenza Storica è razionalità finalizzata e immanente nel cosmo; cfr. Reale, Storia della filosofia antica, Milano 1976, III, pp. 369 sgg.: sul fato “ineluttabile necessità” cfr. Sen., De prov., V, 7: causa pendet ex causa; Reale, l. c., pp. 372 ss. Seneca non condivide l’antropocentrismo di Zenone, cfr. Pohlenz, op. cit., II, p. 93; tende ad un Dio personale, Pohlenza, l.c., p. 92. ↩︎
  10. De prov., I, 4. Risulta sterile cercare in Seneca una teologia ben determinata e priva di oscillazioni, che realmente si stacchi dalla fisica (cfr. Seneca, I Dialoghi, a cura di A. Marastoni, Milano, Rusconi, pp. 66-7). Inoltre, applicare a Seneca la forma mentis cristiana (e magari pretendere che vi si trovi una Provvidenza trascendente) ci preclude la comprensione del suo messaggio. ↩︎
  11.  È la tradizionale soluzione intellettualistica; cfr. Pohlenz, I, 198-9; 241 sgg.: male è solo il vizio, bene solo la virtù, il resto indifferente (adiaphoron); cfr.De prov., V,VI, 1 sgg. Seneca nell’opuscolo non dà troppo rilievo alla tesi sopraddetta che sviluppa solo alla fine della; trattazione. ↩︎
  12. Gli dèi si occupano degli uomini in generale più che dei singoli: cfr. De prov. III, 1: Maior diis est universorum cura quam singulorum. ↩︎
  13. L’emotività; e certa enfasi oratoria non sconvengono affatto, dato il taglio dell’opuscolo (cfr. la diversa opinione di Marastoni, op. cit., p. 65). ↩︎
  14. De prov., VI, 6 ↩︎
  15. Ibid., VI,; 8 ↩︎
  16. Ibid., VI, 7; Sen.. Ep. 70;; cfr.; Epitteto, Diatr., I,; 9,; 20 e; passim ↩︎
  17. De prov. I, 1. ↩︎
  18.  Ibid., IV, 1. ↩︎
  19. Ibidem. ↩︎
  20. Ibidem IV, 6; cfr. Epitteto, Diatr., I, 6, 32. ↩︎
  21.  Ibidem IV, 6. ↩︎
  22. Ibidem IV, 0. ↩︎
  23. Ibidem IV, 12. ↩︎
  24. Ibidem I, 5. ↩︎
  25.  Ibidem I, 5 bonus tempore tantum a deo differt, discipulus eius aemulatorque et vera progenies; cfr. VI, 6. ↩︎
  26. Ibid., I, 6; cfr. Epitteto, I, 24, 1. ↩︎
  27. Ibid., II, 10; 12. ↩︎
  28. Ibid., IV, 12.   ↩︎
  29. Ibid., V, 5. ↩︎
  30. Ibid., V, 8; cfr. Epitteto, Ench., 53. ↩︎
  31. Ibid., V, 9. ↩︎
  32. De prov., V, 9-10. ↩︎
  33. Ibid., V, 10-11. La tesi per cui male è solo il vizio e bene solo la virtù, mentre il resto è indifferente (in pratica la tesi portante di Epitteto, cfr. Diatr., I, 20, 12 e  passim) nel  cap. VI, cfr. nota 11. ↩︎
  34. Leopardi, La Ginestra, vv. 297 sgg. ↩︎
  35. Ibid., vv. 78-86. ↩︎
  36. K. Vossler, Nel Centenario di Leopardi, 1937, pp. 8 sgg.: è quasi il riflesso inverso, il fantasma ‘revenant’, l’ombra in pena del Cristianesimo tramontato, per non dire estirpato. ↩︎
  37. Cfr. S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo dell’Ottocento italiano, Pisa 1965, pp. 150 segg. ↩︎
  38. La Ginestra, vv. 111 sgg.   ↩︎
  39. Palinodia, vv. 173 sgg.    ↩︎
  40. Ginestra, v. 125.   ↩︎
  41. Palinodia, vv. 150 sgg.  ↩︎
  42. Ginestra, vv. 155 sgg.    ↩︎
  43. Palinodia, vv. 75 sgg.; 59 sgg.  ↩︎
  44. Ginestra, vv. 126 sgg. ↩︎
  45. Cfr. W. Binni, La poesia eroica di G. Leopardi, in “Il Ponte”, XVI, 1960, pp. 1730 sgg. È questo critico che dal 1947 (La nuova poetica di Leopardi) in poi, fino alla Protesta leopardiana del 1973, ha dato peso e rilievo al Leopardi combattivo ed eroico, accanto a quello ‘idillico’. Il critico Campailla ha di recente sottolineato l’inattualità di Leopardi in senso nietzschiano. ↩︎
  46. Tale divisione ormai classica risale a Carducci e Zumbini. ↩︎
  47.  Canto notturno, vv. 1-6. 18-20. 88-89. ↩︎
  48. Cfr. Leopardi, I Canti, a cura di M. Fubini, Torino 1964, pp. 243-4. ↩︎
  49. Binni, loc. cit. ↩︎
  50.  Croce, Poesia e non poesia, Bari 1949, pp. 109 sgg. ↩︎
  51. Vossler, l.c.. ↩︎
  52. Cfr. Epitteto, Diatribe, Milano 1982, Introduzione, pp. 27 sgg. ↩︎
  53. Ibid., pp. 523 sgg. ↩︎
  54. Vossler, l.c. ↩︎
  55. Nemo sanus naturae irascitur: Sen, De ira, II, 10, 6. È stoltezza o follia ricusare l’ordine naturale. Saggezza, al contrario, accettare l’apparente indifferenza dei ciclo perpetuo delle cose. Il quasi ottimismo di Seneca si collega al suo aporetico teismo dalle posizioni stoiche più genuine discenderebbe più coerentemente un duro e disincantato realismo (nient’affatto un pessimismo nichilistico). ↩︎
  56. Cfr. Epitteto, op. cit., Indice, s.v. assimilarsi. ↩︎
  57. Cfr. J. Galot, Perché la sofferenza?, Lovanio 1984, tr. it. Milano 1986, pp. 45 sgg. (particolarmente il libro di Giobbe) ↩︎
  58. Lettera apostolica di Giovanni Paolo vivifici doloris, 1984, Ed. dehoniane, pp. 51 sgg. ↩︎
  59. Ibid, p. 27. ↩︎