Home Proposte di lavoro e di lettura Il problema della libertà in due Edipi del Seicento

Il problema della libertà in due Edipi del Seicento

by Mariapina Dragonetti

di Giulia Regoliosi

da Zetesis, 2000-1


Introduzione

L’interesse per il mito di Edipo e per la sua rielaborazione tragica ha ispirato quasi contemporaneamente due autori di teatro verso la metà del diciassettesimo secolo: P. Corneille (1659) e E. Tesauro (1661). La coincidenza è interessante, giacché i due autori presentano un aspetto comune molto importante: l’opposizione alla tesi della predestinazione di matrice giansenista e la difesa dell’ortodossia cattolica in tema di libero arbitrio e di responsabilità umana. Tale posizione coincidente, che per entrambi si sviluppò, come vedremo, in alcune opere chiaramente impostate, non può non suscitare perplessità di fronte alla scelta di un mito (e di modelli classici) fondato essenzialmente sull’impossibilità per l’uomo di sottrarsi ad una forza esterna che lo domina completamente, portandolo a compiere ciò che non vuole senza possibilità di scegliere. Come è stata risolta l’antinomia?

1. l’Edipo di Corneille

Anonimo, ritratto di Pierre Corneille (Museo Nazionale del Castello di Versailles)

Corneille1 arriva all’Oedipe nella maturità, dopo aver composto le opere fondamentali della sua attività di drammaturgo. Il Cid (1636-37) e l’Horace (1639-40) erano incentrati sul contrasto fra il dovere e il sentimento, contrasto risolto duramente col prevalere del dovere: nel primo Rodrigue uccide il padre della fidanzata per vendicare l’offesa fatta al proprio padre, Chimène sacrifica il suo amore respingendo Rodrigue; nel dramma omonimo Horace, secondo la leggenda liviana, uccide nel combattimento contro i Curiazi il fidanzato della sorella (nel dramma di Corneille è anche fratello di sua moglie) e giunge ad uccidere la sorella che, unica nella gioia generale, lamenta la perdita dell’amato. In entrambe le opere troviamo il dramma di una virtù (la pietas verso i genitori e verso la patria) angosciosamente dibattuta e infine dolorosamente vincitrice, in una scelta libera, apprezzabile nella coerenza ma eccessivamente rigorosa: i due sovrani, nel Cid il re di Spagna, nell’Horace Tullo Ostilio, esprimono un ideale di misura che tempera la virtù per eccesso dei protagonisti e lascia, laddove sia possibile, spazio per gli affetti (laisse faire le temps, ta vaillance et ton Roi è la battuta finale del re don Fernand a Rodrigue nel Cid, a proposito della speranza di riconquistare Chimène, mentre il monologo finale di Tullo Ostilio spinge alla riconciliazione tutti i protagonisti, il giovane Horace col fidanzato della sorella e la sua stessa moglie). L’equilibrio, la capacità di scegliere senza nulla perdere né di virtù né di umanità sono tipiche di Augusto nel Cinna (1640-41) e di Cesare nel Pompée (1643-44): in parte ispirandosi alla tradizione storica, in parte in ossequio alla corte, ma soprattutto seguendo un ideale di virtù responsabilmente assunta, Corneille crea due tipi umani completi e positivi, che sanno superare inimicizie private e pubbliche. Soprattutto Augusto ha davanti scelte pesanti: se tenere o lasciare il potere, se punire gli amici traditori o perdonarli: il poeta ci fa assistere alla sua incertezza a lungo dibattuta, per sottolinearne la libertà.
Nelle tragedie ispirate alla storia romana il ruolo degli dèi pagani è necessariamente incerto e ambiguo: pure troviamo nel Cinna l’idea di un aiuto divino nella deliberazione (Le Ciel m’inspirera ce qu’ici je dois faire dice Augusto al v. 1258). Nel Cid, che è ambientato in epoca cristiana, i riferimenti al Cielo, pur precisi (Tu vois comme le Ciel autrement en dispose, v. 1769), non sono particolarmente determinanti nello sviluppo della problematica. Il tema del rapporto uomo-Dio diviene invece fondamentale nel Polyeucte, (1642-43), di argomento paleocristiano: non a caso uno dei massimi studiosi di Corneille, L. Sorrento2, considera quest’opera come il capolavoro cor­neilliano, poiché il poeta vi esprime pienamente la sua concezione del mondo: allievo dei Gesuiti, seguace delle tesi moliniste contro il determinismo giansenista, Corneille nella storia del martire armeno esprime la certezza che la virtù umana ha un interlocutore, la grazia, che la sostiene nelle sue scelte, lasciandole il libero arbitrio. A Polyeucte che pensa di rimandare il battesimo l’amico e maestro Nearco ricorda che sa grace / ne descend pas toujours avec meme efficace (vv. 29-30): l’efficacia della grazia dipende dalla risposta dell’uomo. Il costante dibattito corneilliano fra virtù e umanità, fra doveri e affetti è superato in un equilibrio assai più stabile e definitivo che non in altre tragedie: infatti è animato dalla certezza di una realtà più grande, sicuramente giusta e infinitamente buona, che lascia agli uomini le loro responsabilità ma non permette che siano soli e disperati. In una limpida visione della realtà in cui tutto ha il suo posto c’è spazio per gli affetti, non per il sentimentalismo: Polyeucte, alla moglie che gli chiede di rinunciare alla fede per amor suo, risponde: «Je vous aime / beaucoup moins que mon Dieu, mais bien plus que moi-meme» (IV, 3); la stessa moglie, che l’ha sposato senza amore per assecondare i meschini disegni politici di suo padre, è giunta ad amarlo realmente per quello che è, tanto da rifiutare il nuovo calcolo del padre che vorrebbe approfittare dell’arresto di Polyeucte per liberarla da un legame ormai pericoloso e riunirla all’antico innamorato ora assai più potente. In tutti i personaggi, anche in quelli in cui non si fa strada la conversione, a poco a poco nasce la stessa limpida e sofferta chiarezza di una dignità che dipende dal serio uso della propria libertà.
Fra il 1644 e il 1652 Corneille compose sei drammi di minore importanza, l’ultimo dei quali, Pertharite, fu un deciso insuccesso. Dopo di allora il poeta si allontanò dal teatro per sette anni, durante i quali tradusse in versi l’Imitazione di Cristo e altri testi devoti. Nel 1659 è di nuovo in scena con l’Oedipe.
Dicono le biografie che il dramma fu composto in onore di un’attrice della compagnia di Molière di cui il cinquantatreenne poeta si era invaghito senza successo: per lei, nonostante la giovane età specializzata in parti di matrona, avrebbe scelto il ruolo di Giocasta, e quindi il tema di Edipo. Nella scelta giocò un posto importante anche un mecenate, il procuratore generale Fouquet, che insistette col poeta perché tornasse alle scene e gli propose una rosa di argomenti: e forse la preferenza per un mito (in precedenza c’erano state solo una Medée nel ’34-’35 e una Andromède rappresentata nel ’50, mentre nello stesso periodo dell’Oedipe si pone la composizione della Toison d’or) può essere connessa con il diffondersi della Querelle des anciens et des modernes; sappiamo per lo meno che Corneille (oltre ai numerosi scambi d’opinioni col D’Aubignac) più tardi, nel 1669, pubblicò sulla questione una Défense des Fables dans la poésie, in cui prendeva posizione a favore degli anciens e dell’utilizzo delle fables, cioè della mitologia. 
Se tutti questi dati biografici sono rilevanti, è ugualmente significativo il fatto che nel 1656 fossero uscite le Lettres Provinciales di Pascal e si fossero particolarmente riaccese le polemiche molino-giansenistiche: sembra quasi che il poeta abbia scelto un tema così ostico come una sorta di sfida.

Corneille dà inizio alla tragedia con una vicenda amorosa/politica consona al gusto teatrale del tempo (come ben si vede anche dalle tragedie mitologiche di Racine) e nello stesso tempo tendente a rendere più complicato l’intrigo.
Dirce è figlia di Giocasta e Laio: giovinetta quando il padre muore, cresce alla corte del fratello Edipo, creduto patrigno. Quale unica discendente del re legittimo, considera Edipo un usurpatore, ed ha rancore per il popolo che le ha sottratto il trono e per la madre che si è prestata ad un matrimonio disonorevole. Creazione poetica interessante, ha in sé echi delle varie Elettre del teatro antico (si veda in particolare il litigio con Giocasta in III, 2, che l’autore, nell’introduzione, considera discutibile per la mancanza di rispetto filiale), ma anche tratti della fierezza dell’ Antigone sofoclea (senza, naturalmente, la profondità delle ragioni) e, forse, qualcosa di Amleto (anche qui rileviamo lo scontro con la madre per il secondo matrimonio; entrambi ignorano inizialmente che il secondo marito è l’uccisore del padre; in entrambe le opere compare il defunto come spettro). Di Dirce è innamorato Teseo, sovrano di Atene; la giovane lo ricambia (si veda in particolare il monologo iniziale del III atto, in cui deve confessare a se stessa il contrasto fra onore ed amore, così tipicamente corneilliano, e la libera scelta di far prevalere l’onore) ma lo considera anche pari a sé in quanto re, e rifiuta Emone, sposo destinatole, perché non ha potere regale. Edipo si trova di fronte ad una situazione estremamente conflittuale: oltre alla peste, deve fronteggiare l’opposizione di Dirce al matrimonio combinato che gli assicurerebbe la possibilità di allontanarsi da Tebe lasciando il fidato Emone come reggente e accorrere a Corinto per ricevere l’eredità del padre presunto. D’altro canto, la sua proposta di lasciare a Dirce e Teseo il trono di Tebe e accontentarsi di Corinto è respinta da Giocasta, preoccupata per i due figli maschi che si odiano fra loro e necessitano quindi, per il futuro, di due regni.

Questa la vicenda che s’innesta nell’impianto sofocleo-senecano. Edipo manda a interrogare l’oracolo a proposito della peste: ma Apollo risponde solo con un mormorio confuso e minaccioso, che Edipo e Giocasta tentano di interpretare: gli dèi sono evidentemente adirati, secondo Giocasta perché l’uccisore di Laio non è stato punito, secondo Edipo perché l’esposizione del bambino ha vanificato le profezie divine. Quest’ultima posizione appare molto importante in quanto in assoluta sintonia con la variante sofoclea del mito: gli dei non avevano proibito a Laio di generare figli (quindi il destino di Edipo non è punizione per una disobbedienza paterna), anzi desideravano fortemente che il bambino vivesse e compisse quanto predetto. Nonostante Giocasta rigetti questa idea, la concezione di una divinità malevola e incomprensibile ricompare anche nelle parole di Mégare, ancella di Dirce (nonché figlia del vecchio servo che conosce tutta la verità): Nous ne savons pas bien comme agit l’autre monde; / il n’est point d’oeil perçant dans cette nuit profonde; / et, quand les dieux vengeurs laissent tomber leur bras, / il tombe assez souvent sur qui n’y pense pas “Noi non sappiamo come agisce l’altro mondo; / non c’è un occhio penetrante in quella notte profonda;/ e, quando gli dei vendicatori lasciano cadere il loro braccio, / cade abbastanza spesso su chi non se l’aspetta.” (III, 3 = vv. 561-564).
A Tiresia è affidato l’incarico di evocare l’ombra di Laio (ripresa di Seneca, seppure in un contesto piuttosto differente): questa annuncia che bisogna versare sangue della sua stirpe. Naturalmente l’unica persona della stirpe di Laio risulta Dirce (notiamo di passaggio come Racine giochi su un equivoco analogo nell’Iphigénie): ed ella, che pure ha più volte dichiarato il suo rancore per il popolo, è pronta a sacrificarsi per la sua salvezza: et sans considérer quel fut vers moi son crime, / puisque le ciel le veut, donnons-lui sa victime (vv. 929-30). Sia Edipo sia Giocasta esitano a sacrificare Dirce, e desidererebbero che la volontà divina apparisse più chiaramente; ma Dirce, cui è praticamente proposto di fuggire con Teseo, oppone, oltre alle necessità del popolo e di tutti i presenti sottoposti al contagio (compreso Teseo), anche altre ragioni: legatissima al ricordo del padre, si considera responsabile della sua morte perché Laio stava recandosi a consultare l’oracolo per lei quando è stato ucciso (II, 3: dialogo con Nérine, dama della regina); inoltre pensa che l’ombra del padre abbia chiesto la sua morte per liberarla da una situazione che le pesa: in questo caso il cielo le è favorevole, mentre forse ha in serbo qualche oscura minaccia per Edipo:

S’il sait ma destinée, il ignore la sienne.
Le ciel pourra venger ses ordres retardés.
Craignez ce changement que vous lui demandez.
Souvent on l’entend mal quand on le croit entendre;
l’oracle le plus clair se fait le moins comprendre.
Moi-meme je le dis sans comprendre pourquoi;
et ce discours en l’air m’échappe malgré moi.

«Se egli sa il mio destino, ignora il suo. / Il cielo potrà vendicare il rinvio dei suoi ordini. / Temete il cambiamento che gli domandate. / Spesso lo si capisce male quando si crede di capirlo; / l’oracolo più chiaro si fa capire di men . / Io stessa lo dico senza capire perché; / e questo discorso vago mi sfugge senza volerlo.»(vv. 914-920)

Teseo ordisce un inganno per salvare Dirce. Inizialmente diffonde la voce che il figlio di Laio creduto morto è vivo (si saprà più tardi che Mégare gli ha rivelato ciò che suo padre ha fatto del bambino, per cui l’inganno poggia su un fondamento reale: vv. 1286 segg.). Tiresia, interrogato in proposito, dice che il figlio di Laio vive a corte, ma il suo riconoscimento causerà la rovina per Edipo. Quest’ultimo interpreta il messaggio nel senso che una persona destinata all’incesto e al parricidio non può che essere vile e perfida: sicuramente intende assassinare chi gli ha usurpato il trono. Mentre si attende che Giocasta porti a corte il vecchio padre di Mègare, che conosce sia l’assassino sia la sorte del piccolo esposto, Teseo completa il suo inganno fingendo di essere lui il figlio di Laio e Giocasta. Ma costei rifiuta la rivelazione perché suo figlio non può che essere malvagio per destino, e Teseo sicuramente non lo è. Qui si colloca dunque il passo più famoso di tutta la tragedia, il monologo di Teseo:

Quoi, la necessité des vertus et des vices
d’un astre impérieux doit suivre les caprices,
et Delphes, malgré nous, conduit nos actions
au plus bizarre effet de ses orédictions?
L’ame est donc toute esclave; una loi souveraine
vers le bien et le mal incessament l’entraine;
Et nous ne recevons ni crainte ni désir
de cette liberté qui n’a rien à choisir,
attachés sans relache a cet ordre sublime,
vertueux sans mérite, e vicieux sans crime.
Qu’on massacre les rois, qu’on brise les autels,
c’est la faute des dieux, et non pas des mortels:
de toute la vertu sur la terre épandue,
tout le prix à ces dieux, toute la gloire est due;
ils agissent en nous quand nous pensons agir,
alors qu’on délibère on ne fait qu’obéir;
et notre volonté n’aime, hait, cherche, évite,
que suivant que d’en haut leur bras la précipite.
D’un tel aveuglement daignez me dispenser.
Le ciel, juste a punir, juste à récompenser,
pour rendre aux actions leur peine ou leur salaire,
doit nous offrir son aide, et puis nous laisser faire.

«Come! la necessità delle virtù e dei vizi / deve seguire i capricci di una stella imperiosa, / e Delfi, nostro malgrado, conduce le nostre azioni / al più bizzarro effetto delle sue predizioni! / L’anima è dunque tutta schiava: una legge suprema / la trascina incessantemente verso il bene o il male; / e noi non riceviamo né paura né desiderio / da questa libertà che non ha niente da scegliere, attaccati senza rimedio a quest’ordine sublime, virtuosi senza merito, e viziosi senza colpa. / Che si massacrino i re, che si spezzino gli altari, / è colpa degli dèi, e non dei mortali: / di tutta la virtù sparsa sulla terra, / tutto il merito, tutta la gloria è dovuta agli dèi; / essi agiscono in noi quando noi crediamo di agire; / nel momento in cui si decide non si fa che obbedire; / e la nostra volontà non ama, odia, cerca, evita, / se non seguendo la spinta dall’alto del loro braccio./ Degnatemi di dispensarmi da un tale accecamento. / Il cielo, giusto a punire, giusto a ricompensare, / per rendere alle azioni la pena o il premio,/ deve offrirci il suo aiuto, e poi lasciarci fare.» (III, 5 = vv. 1149-1170)

Edipo raccolto dai pastori; opera francese anonima (disegno con inchiostro bruno, 21 x 26) datata attorno al 1820 e conservata a Compiègne.

Voltaire, nei suoi Commentaires sur Corneille, ricorda la risonanza che ebbe nelle controversie del tempo questo passo, da molti imparato a memoria; e il Sorrento lo definisce «esplicitamente molinista»3. Alcune frasi in particolare sono di fondamentale importanza per l’affermazione dell’ortodossia cattolica, soprattutto l’ultima che pone a tema il rapporto fra libertà e grazia con una nettezza superiore anche al Polyeucte. Ma proprio per questo le leggiamo con un certo disagio. Più volte, su queste pagine, ho affrontato la problematica religiosa di Sofocle nell’Edipo Re4, rilevando come l’autore rifiuti via via tutte le certezze che la genialità religiosa dell’uomo greco aveva elaborato fino a lui, lasciando i suoi personaggi desolatamente soli con una domanda aperta: ma questa domanda è la drammatica domanda di Sofocle, la crisi è non solo quella del suo tempo ma la sua, di uomo profondamente religioso a cui le risposte sembrano tutte insufficienti; nell’opera di Corneille il monologo di Teseo contiene già le risposte che l’autore possiede, inserite in un contesto che le contraddice. Infatti la storia di Edipo non può procedere diversamente da come il mito greco l’aveva elaborata: la scoperta della sua identità, della sua infamia, dell’inutilità dei suoi sforzi di sottrarsi al destino. Lo stratagemma di Teseo rallenta il riconoscimento: inizialmente si scopre solo che Edipo ha ucciso Laio, e Teseo continua a proclamarsi suo figlio: per cui Giocasta, divisa anch’ella fra amore e dovere, commenta che l’oracolo ha mentito, attribuendo ad una sola persona il parricidio (commesso invece da Edipo, apparentemente estraneo) e l’incesto (potenzialmente compiuto da Teseo nei confronti della presunta sorella Dirce): un passaggio decisamente lambiccato e forzato. Ma il V atto ricompone la storia originaria: l’arrivo del messaggero di Corinto, la notizia che Edipo è un trovatello, l’accettazione serena, anzi quasi lieta, del selfmade-man : Mais je me fis toujours maitre de ma fortune; / et puisqu’elle a repris l’avantage du sang, / je ne dois plus qu’à moi tout ce que j’eus de ramg “Ma io mi sono sempre fatto padrone della fortuna; / e poiché essa ha ripreso il vantaggio del sangue, / io non devo più che a me tutto ciò che ho avuto di dignità” (vv. 1718-20: cfr. l’autodefinizione illusoria dell’Edipo sofocleo a questo stesso punto: παῖδα τῆς τύχης). Infine l’incontro fra i due vecchi che a suo tempo hanno salvato il bambino e il riconoscimento definito dell’identità di Edipo.    
La sua prima reazione è di accusare chi l’ha lasciato in vita cooperando con gli dèi: Le ciel l’avait prédit, vous avez achevé; / et vous avez tout fait quand vous m’avez sauvé. Ma la ricerca della colpa altrui non appaga Edipo: que m’importe en effet / s’il est coupable ou non de tout ce que j’ai fait? (vv. 1771 segg.).
Edipo ha cercato di vivere responsabilmente, cerca fino in fondo di ritagliarsi spazi di libertà: ansioso di divenire almeno la vittima sacrificale per il bene della città, si acceca per versare di sua iniziativa sangue espiatorio, prevenendo un nuovo intervento degli dei contrario alle sue speranze: e insieme esplicita il suo rifiuto di continuare a vedere un cielo (si è visto che è la parola ricorrente del linguaggio religioso corneilliano) da lui aborrito. Soprattutto rivendica come totalmente propria e intoccata la sua moralità, che non dipende dagli dèi e non può essere tolta dalle azioni che gli dèi gli hanno fatto compiere. A Dirce che, certa ormai di essere sua sorella, depone ogni odio contro di lui e anzi continua ad insistere per essere lei la vittima, dice Edipo:

Hélas! qu’il est bien vrai qu’en vain on s’imagine
dérober notre vie à ce qu’il nous destine!
Les soins de l’éviter font courir au-devant,
et l’adresse à le fuir y plonge plus avant.

«Ahimé! come è vero che invano ci s’immagina / di sottrarre la nostra vita a ciò che egli (scil. il cielo) ci destina! / Gli sforzi di evitarlo fanno correre incontro a lui, / e la tensione a sfuggirlo ci fa sprofondare in esso maggiormente.» (V, 5 = 1829 segg.)

E conclude proclamando «l’éclat de ces vertus que je ne tiens pas d’eux», cioé, appunto, la propria libertà morale rispetto agli dèi.
Certo il cristiano Corneille non può attribuire agli dèi pagani la grazia, come non poteva attribuirla loro nelle tragedie romane; diremo di più, deve inevitabilmente restare nell’ambito delle idee comuni sugli dèi, al di sotto quindi delle più profonde intuizioni di singole personalità antiche, per non rischiare l’accusa di anacronismo. Appena accettabile è l’affermazione delle virtù di Edipo, che presuppone l’idea di coscienza assente nella tragedia sofoclea, ma pur sempre presente in tragedie posteriori, dall’Oreste di Euripide all’Edipo a Colono di Sofocle stesso (in cui peraltro anche il rapporto con gli dèi è recuperato). Ma allora che senso ha la tirata di Teseo sul libero arbitrio? Un ossequio all’attualità, non importa se fuori posto? forse. Una parodia dell’ortodossia cattolica? certamente non interpretata così al suo tempo, e contraddittoria con le idee dell’autore. Un caso di “metateatro”, che svela l’assurdità di ciò che si svolge in scena 5 forse, anche per la scelta del personaggio, estraneo al modello: ma allora si è trattato appunto di una sfida deliberata nei confronti della tragedia greca, e questo, ripetiamo, lascia a disagio: perché è una sfida che richiede un corpo estraneo per risolverla.

2. L’Edipo di Tesauro

Emanuele Tesauro6, nobile torinese, entra a diciannove anni nella Compagnia di Gesù, dove svolge attività di maestro di retorica e predicatore. Divenuto sacerdote, lascia dopo qualche tempo la Compagnia, per dissensi soprattutto disciplinari. La sua ampia produzione comprende opere retoriche e parenetiche (Panegirici, Il Cannocchiale aristotelico), opere storiche (ad es. l’Origine delle guerre civili nel Piemonte, Istoria della venerabile compagnia della fede cattolica sotto l’invocazione di S. Paolo) e opere teatrali. Due di queste sono di argomento esplicitamente cristiano, l’Ermenegildo (scritta originariamente in latino e poi tradotta in italiano) e Il libero arbitrio7; due di argomento mitologico, Edipo Ippolito. Le prime due sono opere giovanili, le altre pubblicate nel 1661, anche se non manca l’ipotesi di una stesura precedente: ma l’Edipo per lo meno mostra di avere alle spalle la tragedia corneilliana.

Frontespizio di libro di Emanuele Tesauro (Inscriptiones, editio secunda,Torino 1661)

 La domanda «perché proprio Edipo?» che ci siamo posti per Corneille non ha una risposta in alcuna fonte per Tesauro; la dedica dell’edizione del ’61 a Emanuele Filiberto Carignano sembra alludere ad una richiesta da parte del principe di opere teatrali «per intermedio delle sue belliche fatiche», ma non risulta che la scelta degli argomenti sia stata imposta. L’Ossola, nella sua introduzione, si limita a rilevare la fortuna del mito nei secoli XVI, XVII e XVIII (fino a quell’Edippo tragedia di Wigberto Rivalta appartenente forse al giovane Foscolo8), fortuna legata soprattutto al motivo politico presente nella vicenda. Solo marginalmente viene rilevata l’aporia da cui abbiamo preso le mosse: un sacerdote, cresciuto fra i Gesuiti da cui si separa per motivi non teologici, interessato alla questione del libero arbitrio tanto da dedicarvi un’opera teatrale, sceglie una vicenda mitica incentrata sulla sua negazione.

È necessaria una precisazione: il sottotitolo dell’opera Tragedia tirata da quella di Lucio Anneo Seneca non indica soltanto che la tragedia intende essere più un rifacimento che una creazione autonoma9, né che il modello è Seneca e non Sofocle (come per l’Ippolito è Seneca e non Euripide). Certo, molti passi senecani sono ripresi integralmente, con traduzioni o libere rielaborazioni; e il «barocco» di Seneca ben si adatta al concettismo secentesco, così come il suo gusto per il macabro e l’orrido. Ma soprattutto il porsi come rifacitore del poeta pagano crea nell’autore una sorta di straniamento, un chiamarsi fuori rispetto alla propria opera. L’esempio più esplicito lo incontriamo nella didascalia che segue l’intermezzo corale fra il quarto e il quinto atto, un intermezzo intitolato Il Fato che commenta la scoperta dell’identità di Edipo: In questo Coro, e in tutta la tragedia, ciò che si dice del Fato, è detto da Seneca secondo la filosofia de’ Gentili. «È detto da Seneca»: Tesauro quindi se ne fa solo traduttore, quasi osservatore neutrale.

Tuttavia l’opera presenta notevoli differenze rispetto all’originale, tanto che traduzione o anche rifacimento sembrano termini poco appropriati: in particolare10 vi è inserita una vicenda politico-amorosa che ha alcune analogie con quella corneilliana, e forse la presuppone. Creonte ama, riamato, Antigone: la scelta della coppia appare assai bizzarra, tenendo conto che Creonte, benché si insista sul fatto che è molto minore rispetto a Giocasta, è pur sempre non solo zio ma prozio della ragazza; strana la rinuncia al personaggio di Emone, fornito da Sofocle (peraltro Corneille, che pone Emone come rivale di Teseo nell’amore di Dirce, non lo presenta mai in scena: forse l’Emone greco non era personaggio sufficientemente apprezzato). L’amore fra i due è contrastato da Edipo, non è chiaro per che motivo: anche qui sembra esserci una ripresa del ben più complesso e motivato tema corneilliano. Quando Edipo apprende che Polibo è morto e che gli è offerto il trono di Corinto, rifiuta di andarvi perché teme di innamorarsi della madre: e decide repentinamente di permettere che Creonte ed Antigone si sposino e divengano sovrani di Corinto. A differenza di Seneca, infatti, Tesauro pone l’evocazione dell’ombra di Laio e il litigio fra Edipo e Creonte dopo l’annuncio della morte di Polibo: di conseguenza, quando Creonte viene imprigionato con l’accusa di aver falsificato il responso di Laio (e nel Tesauro condividono la prigionia anche Tiresia e la figlia Manto), Edipo deve cambiare le sue intenzioni e accettare di recarsi a Corinto: solo da questo secondo colloquio col messaggero emerge la verità sulla sua adozione. Nel frattempo, però, si è sviluppato un altro tema originale: Antigone, invece di essere lieta per i preparativi delle nozze, rifiuta di lasciare il padre: in un tempestoso colloquio con la figlia, Giocasta la sospetta di nutrire per Edipo un amore incestuoso, finché Antigone le rivela di avere avuto una visione in cui sosteneva il padre cieco: ruolo che assumerà alla fine della tragedia, rinunciando per sempre a Creonte (intenzionato a sua volta a seguire la sorella nel suicidio). Così il complicarsi dell’intreccio accentua la morbosità dell’antica vicenda: la duplicazione del tema dell’incesto, sfiorata anche da Corneille quando Teseo finge di essere fratello della sua innamorata, ha qui delle insistenze quasi compiaciute, non solo nel sospetto di Giocasta (bamboleggiare in grembo al padre, / che carezzar ti suol, più ch’io non soglio: IV, 21-25) ma anche nelle parole di Antigone quando rinucia a sposarsi per accompagnare Edipo: Quegli umori che piovi dalla fronte, / paion stille di sangue, a me son stelle. / Quegli sfori degli occhi, orridi e schifi / possono altrui parere: agli occhi miei / sembran dell’Eritreo purpuree conche. / Amo quel viso: e benché molta parte / manchi a lui, quell’infelice avanzo / mi è caro sì, che né per gran tesoro, / né per qualunque regno, il cangerei (V, 245-253); si insiste molto sul fatto, piuttosto grottesco, che Giocasta trovi ripugnante l’evocazione di Laio, che la porterebbe ad avere due mariti vivi; infine è più volte ribadita la possibilità che Edipo si innamori ed abbia una relazione “a rischio”: con Merope, se tornasse a Corinto; con una donna qualunque che potrebbe essere sua madre, se restasse a Tebe dopo aver scoperto di essere un trovatello: Giocasta è già matura: e io potrei / leggiermente passarne ad altre faci. / Chi sa poi di qual face amor m’incenda? / Dovrò dunque temer ogni matrona: / e fuggir tutto il sesso: e mentre certa / madre non ho, crederle tutte madri? (IV, 616-620).
Nel complesso l’amore vissuto, temuto, sperato, rifiutato sembra essere il Leitmotiv dell’opera di Tesauro, ben più che di quella senecana.  

Quale spazio ha la problematica della libertà, quando non solo il Fato, ma anche l’amore sembrano forze invincibili? Il commentatore sottolinea l’importanza del dialogo fra Edipo e Giocasta nella II scena del I atto, ripresa in parte da Seneca nella cupa consapevolezza di Edipo d’essere responsabile della peste (consapevolezza assente in Sofocle), ma con insistenze “moliniste” nelle battute di Giocasta11:

Gioc.: Lungi un folle pensier da un cor sì saggio.
Tutti i morbi vulgari (il dèi sapere
meglio di noi) sono impensati errori
d’imperfetta natura, che sovente
nella terra, nell’aure, nell’Egeo
della mediocrità le leggi usate
or col difetto, or col soverchio eccede.
Onde, come fra i miseri mortali
nuoce a’ privati un sol privato fallo;
così della natura un fallo insigne
abbatte le città, spopola i regni,
nuda le selve, e gli animanti ancide.
Non recasti tu dunque i mali in Tebe,
ma da’ mali di Tebe il tuo dipende.
Poiché il Fato comun regge il privato;
e da’ bassi accidenti, e singolari
la gran ruota del ciel non prende il moto. (vv.145 segg.)

Risulta quindi esserci un Fato generale (peraltro legato a spiegazioni scientifiche), che influisce sui singoli senza però determinarli.
In realtà, però, essendo tali parole contraddette dai fatti successivi, resta l’aporia: e il commentatore stesso giunge a reputare la pazienza cristiana in fondo non lontana dal fatalismo di Seneca12. Tuttavia va considerata anche (ed è forse l’unica possibile risposta alla questione) la discussione fra il messaggero di Corinto (“Oratore”) e Tiresia dopo l’accecamento di Edipo:

Oratore: Or con qual fronte porterò a Corinto
alla misera donna un tal messaggio,
ch’ Edipo, non più suo, benché innocente,
da’ fieri numi a tal supplicio è spinto?
Tiresia: Ospite, tu t’inganni: un innocente
mai dal ciel fu punito. Il re che piangi,
contaminò le nozze e ‘l padre uccise.
Or.: Ma in buona fede.
Tir.:   E come in buona fede
dopo un delfico avviso?
Or.:   Incontanente
di Corinto fuggì.
Tir.:   Non dalle nozze.
Or.: E chi le avria credute incestuose?
Tir.: Dovea sempre temer ciò ch’era incerto. (vv. 155 segg.)

Nei versi successivi Tiresia esplicita il suo pensiero, rispondendo a distanza alle parole di Edipo citate in precedenza: Edipo avrebbe dovuto evitare di uccidere e di sposarsi, se non voleva rischiare di far avvenire l’oracolo. Forse significativamente questo invito alla castità e alla prudenza non è commentato in nota (si opporrebbe all’accusa di pedagogia cristiana fatalista avanzata prima). Va però ribadito che l’insistenza quasi morbosa sull’amore e sulla sua inevitabilità rende assai precario il suggerimento – questo sì pedagogico – di Tiresia.

  1.  Il testo di Corneille e le indicazioni biografiche e critiche sono tratti da Théâtre complet de Corneille, a cura di M.Rat, 3 voll. (l’Oedipe in particolare è nel III), Paris 1971. Cfr. anche Corneille, Trois discours sur le poème dramatique, Paris 1999. Da notare come letterature e storie del teatro diano scarsissimo rilievo all’Oedipe: si veda nella Storia della letteratura francese Garzanti la voce Pierre Corneille curata da R. Mantéro (vol. I, pag. 540-567), in cui il curatore, molto attento alle problematiche corneilliane, sbriga in due righe l’Oedipe, come estraneo all’autore; nella Storia del teatro Garzanti a cura di F.Doglio (vol. III, pagg. 528-576) si cita l’Oedipe solo per rilevare l’eleganza formale e la cura di non mostrare in scena Edipo dopo l’accecamento, per non turbare il pubblico. Un interessante confronto fra Corneille e Sofocle, utile anche se riguarda opere diverse dall’Edipo, troviamo in Dosmond, D’Antigone à Polyeucte-Famille et trasgression, Bulletin Budé 4/99, pagg. 424-434. ↩︎
  2. Corneille, Polyeucte, commentata nel testo e nelle varianti da Luigi Sorrento. Con un saggio sull’ideale e l’arte di Corneille, Firenze 1943. ↩︎
  3. Op. cit. p. XXIV e segg. Il Sorrento in particolare confronta il v.1165 con un passo dell’opera di L.Molina Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis (quaest.XIV, art.XIII, disp.II): «Illud agens liberum dicitur, quod, positis omnibus requisitis ad agendum, potest agere (cherche) et non agere (évite), aut ita agere (aime) unum, ut contrarium etiam agere possit (hait)». ↩︎
  4. G. Regoliosi, La crisi religiosa di Sofocle nell’Edipo Re, in Zetesis 1/89, pagg. 41-51; l’articolo è ripreso e completato in Il “dio giusto” nell’Edipo a ColonoLeggere la tragedia, Zetesis 1/2-95, pagg.76-79. ↩︎
  5. Sarebbe un caso analogo all’Eracle di Euripide, in cui Eracle, che è stato costretto da Era a uccidere i suoi familiari, respinge la consolazione di Teseo, fondata sulla concezione di divinità adultere e prevaricatrici: «Ahimé: queste tue parole non c’entrano con le mie sventure, e io non penso che gli dèi amino i letti che non sono leciti, né ho mai creduto vero né mi persuaderò che avvincano le mani con catene, né che si facciano padroni l’uno dell’altro. Dio, se è veramente Dio, non ha bisogno di nulla: queste sono infelici storie di poeti» (vv. 1340-1347): un caso di metateatro che si oppone alla stessa vicenda della tragedia. Qualche analogia presenta anche Eur., Iph. Taur. 385-391. ↩︎
  6. Si veda E. Tesauro, Edipo, a cura di C. Ossola, Commento e note di P. Getrevi, ed. Marsilio, Venezia 1992, con relativa bibliografia cui si rimanda. Molto curate le note che propongono a confronto i corrispondenti passi di Seneca. Per una generale introduzione al ruolo dei Gesuiti nel teatro secentesco (interessante comunque anche per Corneille e Tesauro, benché non esplicitamente citati) v. F. Doglio, Storia del teatro, vol. II, pagg. 219-232, ed. Garzanti. In genere il ruolo di Tesauro come autore di teatro non è preso in considerazione dai testi specifici (oltre alla già citata Storia Garzanti cfr. pure V. Pandolfi, Storia del teatro, 2 voll. UTET 1964 e La tragedia classica a cura di G. Gasparini, Classici UTET 1976, che pure esamina il teatro italiano di origine classica nei secc. XVI-XVIII con un’introduzione che può essere comunque utile). ↩︎
  7. È possibile che Tesauro intendesse con quest’opera contrapporsi all’omonima tragedia di F.Negri (1538), ex frate passato al protestantesimo. ↩︎
  8. L’opera (ispirata all’Edipo a Colono, ma cupamente pessimista e conclusa col suicidio del protagonista) è stata presentata in occasione del bicentenario foscoliano in un congresso svoltosi a Venezia nel 1978. Lo scopritore e curatore, M. Scotti, ha sostenuto con buone argomentazioni la paternità foscoliana, nonostante il manoscritto si trovasse fra le carte di S. Pellico. E’interessante il fatto che fra le motivazioni tendenti a togliere la paternità a Pellico vi siano proprio le posizioni contraddittorie rispetto alla fede dell’autore. Si può leggere in U. Foscolo, Edippo, Rizzoli 1983. ↩︎
  9. Ai rifacimenti dal teatro classico Zetesis ha dedicato un convegno (27 novembre 1988) le cui relazioni sono state pubblicate sul n. 3/88. Le ricordiamo perché possono essere illuminanti sulle modalità di affronto delle tragedie antiche: A. Porro, Il ritorno al teatro euripideo nel Cinquecento italiano, pagg. 15-24, e M.Perego, I rifacimenti euripidei di Lodovico Dolce, pagg. 25-48. ↩︎
  10. Altre modificazioni sono meno rilevanti: citiamo soltanto la Protasi cantata da Anfione redivivo, che lamenta la sofferenza della peste nella città da lui costruita a suon di cetra. ↩︎
  11. Nota ai vv. 159-61, pag.175. ↩︎
  12. Si veda la nota conclusiva dell’Atto quarto, pag. 192. ↩︎