di M. Alliaud
in Zetesis VIII (1988), pp. 15-26
Questa analisi del servo nelle commedie di Menandro nasce in stretto rapporto con lo studio su Plauto alla ricerca di eventuali punti di contatto e differenze nel modo in cui i due autori trattano questa figura. Dei copioni greci a cui Plauto si rifaceva conosciamo solo i titoli che si ricavano dai prologhi delle commedie e da Festo. Il confronto tra l’originale greco e il testo latino è possibile solo per una sezione molto limitata delle Bacchidi che trova riscontro nel Δὶς ἐξαπατῶν di Menandro trovato in un papiro di Ossirinco edito in parte da Handley nel 1968. Sulla base di questo raffronto non si può dimostrare l’esistenza in Menandro di uno schiavo simile a quello plautino, inventore ed esecutore della beffa, di cui il Crisalo delle Bacchidi rappresenta appunto uno degli esempi più felici. Nell’esame della figura del servo in Menandro mi limiterò alle cinque commedie ricostruibili nei momenti essenziali del loro sviluppo drammatico, e cioè l’Aspis, la Perikeiromene, il Dyscolos, gli Epitrepontes e la Samia. Se si considerano anche le commedie frammentarie si rileva che, fra gli schiavi con ruoli di una certa importanza, compaiono più volte gli stessi nomi: ciò vale soprattutto per Davo e Parmenone. Thomas Mac Gray1 giunge alla conclusione che i servi di nome Davo in genere ordiscono un intrigo, mentre i “parmenoni” (come è implicito nel nome derivato da παραμένω) assistono il padrone ascoltando i suoi discorsi moraleggianti o pronunciandoli a loro volta. Consideriamo la figura di Davo nell’Aspis, nel Dyscolos e nella Perikeiromene. Lascerei da parte gli Epitrepontes, dove Davo è il nome del pastore che ha ritrovato il figlio di Panfile, in quanto la funzione di questo personaggio nella commedia non è determinata dal suo essere schiavo. Degli altri tre “Davi” solo il Davo dell’Aspis è autore di una beffa che egli progetta a favore della sorella del padrone Cleostrato e a danno dello zio di costui, Smicrine, deciso a sposare per mero interesse la ragazza che, dopo la morte di Cleostrato, è diventata una ricca ereditiera. Davo persuade lo zio “buono” di Cleostrato, Cherestrato, a fingersi morto, di modo che Smicrine appunterà le sue mire matrimoniali sulla figlia di costui, più ricca dell’altra ragazza. Il testo è lacunoso, ma si può dedurre che, una volta svelato l’inganno, Smicrine verrà condotto in tribunale con l’accusa di appropriazione indebita. Nella Perikeiromene Davo, servo di Moschione, elabora un piano con il quale vuol dare a vedere di favorire il padrone nei suoi amori (sostiene infatti di aver convinto Glicera a recarsi in casa di Mirrine, madre di Moschione, per concedersi al giovane). Si tratta in realtà di menzogne, in accordo con il carattere di questo schiavo così come è definito da Moschione prima del dialogo in cui Davo snocciola appunto le sue bugie (vv. 77-78).
Davo agisce così per conquistare la libertà, come si ricava dall’inizio del II atto (v. 80 segg.); dall’espressione di questo suo desiderio nasce un dialogo comico con Moschione incentrato sul motivo dell’ ἄριστος βίος. Benché il testo sia lacunoso e incerta l’attribuzione delle battute, si notano alcuni elementi che saranno tipici del servo nelle commedie plautine come il timore del mulino (v. 87) e il rapporto tra il servo e il cibo (v. 98 τὸ γαστρίζεσθ᾿ ἀρέσκει “mi piace riempirmi la pancia”). Più avanti Davo scambia insulti con Sosia, il servo del soldato Polemone, un personaggio che, ben più del suo padrone, incarna le caratteristiche del miles spaccone, esibizionista e volgare (sono posti in bocca a lui alcuni dei rarissimi doppi sensi a sfondo sessuale che si trovano in Menandro). Menandro, con la sua attenzione ai caratteri e ai fattori etico-comportamentali, ha sottratto il personaggio di Polemone alla tipizzazione del miles, attribuendogli un amore profondo per Glicera espresso con forte rilievo patetico (v. 56 Γλυκέρα με καταλέλοιπε, καταλέλοιπέ με Γλυκέρα “Glicera mi ha lasciato, mi ha lasciato Glicera”: si noti il chiasmo), nonché la capacità di pentirsi dei suoi torti nei confronti della donna e soprattutto della sua gelosia e della sua precipitazione. Le caratteristiche proprie del miles si trovano invece nel suo servo. Per ritornare ora a Davo, egli compare in scene che in senso molto lato si potrebbero definire plautine; vi compaiono infatti il litigio tra servi o lo scambio di battute ironico-comiche e l’accenno a topoi della condizione servile come la punizione e l’amore per il cibo; in senso molto lato in quanto manca la ricchezza di linguaggio che rende gustose scene simili in Plauto. Davo ha la funzione di aumentare l’equivoco su cui si basa la commedia, ma agisce per uno scopo personale che non riesce a raggiungere. Certo è ben diverso dal Davo dell’Aspis sia per la funzione che per la caratterizzazione. Della funzione si è già parlato: il Davo dell’Aspis è vicino all’inventiva aristofanesca nel solitario lavorio dell’ingegno al quale gli altri restano estranei non riuscendo ad entrare nello spirito del piano. La beffa nei confronti di Smicrine si realizza anche verbalmente (vv. 399 segg.) con una serie di citazioni tragiche relative alle sventure umane attraverso le quali l’avaro dovrebbe capire che una disgrazia sta per toccarlo da vicino, ma non comprende proprio a causa dell’avidità che lo possiede in modo ossessivo. Davo cita le sue fonti e tra una citazione e l’altra si ascolta e si approva, mostrando così che sta fingendo. Forse è già presente in questo schema dialogico all’interno del personaggio la tipica situazione plautina in cui il personaggio che finge è chiosato dai commenti dell’ingannatore-protagonista (si veda ad es. nello Pseudolo il rapporto tra Pseudolo e Scimmia, atto IV, scena II).
Gli atti IV e V dell’Aspis sono estremamente lacunosi; sappiamo però che nel IV atto avveniva il ritorno di Cleostrato, creduto morto per errore, e questo fatto avrebbe risolto di per sé la situazione eliminando l’ostacolo alle nozze tra la sorella del giovane e Cherea.
Se è così, il piano così ben architettato da Davo si rivelerebbe inutile.
Anche nelle altre commedie le difficoltà non si risolvono con l’astuzia e con l’ingegno. Nel Dyscolos il tentativo di Sostrato di incontrare il vecchio Cnemone travestendosi e lavorando da contadino fallisce e Sostrato raggiunge il proprio scopo perché il suo interlocutore non è più Cnemone ma Gorgia. Negli Epitrepontes la trovata di Abrotono, che finge di essere la ragazza violentata da Carisio, ritarda il raggiungimento della verità e quindi la riconciliazione tra Carisio e Panfile. La beffa gratuita e trionfante che si accampa in Plauto con il compiacimento della propria inventiva non trova spazio in Menandro, dove spesso gli uomini falliscono nel tentativo di determinare l’esito della propria azione che è nelle mani di Tyche, e si affermano invece nell’esprimere i propri valori. Non esiste più l’eroe comico di Aristofane che subordina a sé ogni altro personaggio e funzione e con il quale il pubblico poteva identificarsi totalmente in un mondo in cui valori e disvalori si opponevano in gruppi distinti di personaggi. L’erede di questa funzione è, come dice Moschione nella Samia, uno dei tanti, un uomo come tutti2. Disgregatosi quel quadro di riferimento che era la polis, il rapporto tra valori e disvalori è meno netto, più sfumato, in quanto essi possono coesistere in una stessa persona; i valori inoltre non sono quelli di una ristretta comunità sociale ma quelli generali in cui può riconoscersi tutta l’umanità. L’humanitas menandrea lascia il segno anche nel rapporto tra servo e padrone, che è per lo più improntato ad affettuosa devozione e fedeltà, mentre nel servus callidus di Plauto esiste sì un rapporto di fiducia, ma ciò non esclude la furfanteria del servo e la captatio benevolentiae del padrone quando gli si rivolge con appellativi come salus o patronus, perché solo lui può liberarlo da una situazione apparentemente senza via d’uscita. Inoltre in Plauto il tema della punizione è sempre presente in modo quasi ossessivo sia nel servus callidus sia in quello che si può definire “buono”: il primo talora ostenta superiorità nei confronti della punizione stessa, l’altro compie il proprio dovere per evitarla. In Menandro il servo fa parte a pieno titolo della comunità familiare e questa sua condizione viene sottolineata nel momento in cui gli si chiede consiglio (Aspis vv. 188-189) o in cui lo si rimprovera non per non aver spalleggiato il giovane padrone nelle sue imprese amorose, ma per non essersi preso abbastanza a cuore la situazione di un membro della famiglia stessa (è ciò che capita a Davo nel Dyscolos per non essersi informato sull’identità di Sostrato colpevole di eccessivo interesse nei confronti della fig1ia di Cnemone). L’humanitas nei rapporti tra servo e padrone è messa in particolare rilievo nell’Aspis e nel Dyscolos. La prima di queste due commedie si apre con un monologo informativo di Davo che lamenta la morte di Cleostrato; la funzione del servo qui è quella dell’ἄγγελος della tragedia, ma senza alcuna intenzione parodistica come avviene invece in Plauto (si confronti il racconto che Sosia fa della battaglia vinta da Anfitrione). Il discorso di Davo, che si inserisce nella tradizione del compianto funebre, presenta un lessico e dei topoi tragici. Davo si rammarica perché, se il padrone fosse rimasto in vita, avrebbe ottenuto la ricompensa della sua devozione, ma il punto chiave del monologo non è questo, bensì il dolore sincero che il servo mostra di condividere affettuosamente con le donne della famiglia (v. 164). Davo non ha approfittato della morte del padrone per impadronirsi del bottino; la sua onestà e nobiltà sono messe in rilievo dal dialogo con il cuoco, figura volgare e buffonesca a cui viene attribuito un tratto del servus callidus plautino: il vanto della propria birboneria. La comicità che deriva dalla beffa brillante, dalla buffoneria e dalla ritorsione, che in Plauto è appannaggio del servo, in Menandro ha come protagonista anche il cuoco: lo scintillante finale del Dyscolos con la ritorsione nei confronti di Cnemone è opera del servo Geta alleato con il cuoco Sicone. Resta da esaminare più da vicino il terzo Davo, quello del Dyscolos. Del suo inserimento nella famiglia si è già detto: è il servo fedelissimo annunciato da Pan nel prologo. La sua funzione è quella di mettere in contatto Sostrato con Gorgia; una volta esaurita questa Davo scompare. Dando prova di una consumata abilità drammaturgica, Menandro lo fa uscire di scena prima del salvataggio di Cnemone da parte di Gorgia e di Sostrato, che acquista in efficacia proprio perché operato solo da questi due. L’informazione data da Davo in buona fede è falsa e inutili sono le sue preoccupazioni sulle intenzioni di Sostrato: egli genera così un equivoco, frapponendo una difficoltà al lieto fine della commedia.
Considerati i tre servi di nome Davo, si possono trarre le seguenti conclusioni:
l) L’unico tratto che li accomuna è l’inutilità della loro azione (Aspis) o il provocare una complicazione attraverso un equivoco (Dyscolos e Perikeiromene), equivoco dovuto nel caso del Dyscolos a una preoccupazione morale nei confronti della famiglia, nel secondo caso al perseguimento di un piano autonomo che il servo cerca di conciliare con quello del padrone senza riuscirci. In nessun caso quindi si può parlare di protagonismo del servo in senso plautino, anzi in Menandro si tratta di azioni vane o fallimentari. Si avverte nelle commedie di Menandro il peso di tyche, mentre in Plauto la fortuna si identifica con le occasioni che si presentano quasi ad illuminare la capacità umana di sfruttarle e di dominarle e prevale quindi il concetto tipicamente romano dell’homo faber.
2) Vi è una humanitas nel rapporto padrone-servo che non si riscontra in Plauto, con una ripercussione anche sul registro stilistico. In Plauto è impensabile l’attribuzione al servo di un registro tragico se non a fini parodistici. Dei tre servi considerati l’unico che mostri qualche carattere plautino (menzogna, timore della punizione, cfr. vv. 295-296) è il Davo della Perikeiromene. Purtroppo non è possibile ipotizzare un’evoluzione nel modo di caratterizzare il servo (anche se sarebbe allettante pensare a una progressiva perdita della funzione protagonista e creativa) in quanto solo del Dyscolos abbiamo una datazione precisa (316 a.C.).
Possiamo ora chiederci se queste conclusioni possono valere anche per gli altri due servi che rivestono parti importantl nelle commedie prese in considerazione, cioè per Onesimo negli Epitrepontese per Parmenone nella Samia. Né all’uno né all’altro spetta il ruolo del servo creativo e intraprendente che mette in atto un piano.
Onesimo riconosce l’anello di Carisio, ma non osa mostrarglielo perché è già incorso precedentemente nella sua ira avendogli rilevato che Panfile ha avuto un bambino: è deciso perciò a non darsi più da fare per nessuno per evitare guai (vv. 398 segg.). Del resto negli Epitrepontes è Abrotono che escogita il piano per appurare che Carisio è il padre del bambino. Onesimo teme le ire del padrone (vv. 582 segg.) e aspira alla libertà, ma ritiene che il suo sogno sia destinato a non avverarsi per la sua sciocchezza e imprevidenza; Abrotono sì che otterrà come ricompensa la libertà. Onesimo è il servo fedele che non partecipa all’intrigo, pur essendo al corrente. Nel V atto Onesimo è protagonista insieme a Smicrine di una scena comica la cui efficacia deriva dal contrasto tra l’eloquenza del servo che ostenta cultura filosofica e teatrale (cita l’Auge di Euripide) e l’impacciata laconicità del vecchio.
Parmenone, nella Samia, non contribuisce allo sviluppo dell’azione, se mai rafforza nell’equivoco Demea, che crede figlio di Moschione il bambino che Criside fa passare per suo. Il dialogo tra Demea e Parmenone (v. 295 segg.) si colloca significativamente tra due monologhi di Demea ed è immediatamente preceduto da una pausa burlesca dovuta all’entrata del cuoco; presenta all’inizio un tratto comico costituito dalla serie di giuramenti del servo, poi il tono si fa serio e Parmenone, sotto minaccia della marchiatura, confessa che il bambino è di Moschione. Si sfiora la rivelazione della verità (v. 320), ma Demea non lascia parlare il servo; una situa- zione simile si era verificata nel dialogo tra lo stesso Demea e Moschione nel II atto. Un altro equivoco nasce tra Parmenone e Moschione, quando il primo insiste quasi ossessivamente sul fatto che i preparativi per le nozze sono terminati, mentre Moschione vuol fingere di partire per spaventare il padre e richiede quindi con insi- stenza clamide e spada. Parmenone partecipa del carattere di tutta la commedia in cui gli equivoci permangono e si alimentano perché gli uomini, seguendo ciascuno un’immagine fittizia di realtà, non si comprendono nonostante l’atteggiamento di reciproca benevolenza. Parmenone compare anche come risoluto consigliere di Moschione, richiamandolo con forza al dovere morale di sposare la fanciulla sedotta. Non appena sulla scena compare anche Criside, per delicatezza nei confronti del padrone, egli alleggerisce la predica con tratti comici, mimando la parte del servo ghiottone a cui le nozze interessano solo per il banchetto.
Dopo aver analizzato queste altre due figure di servi possiamo ribadire le conclusioni già raggiunte a proposito dei “Davi”.
l) Il servo non prende l’iniziativa nell’intrigo o, se la prende, questa si rivela inutile; in altri casi alimenta l’equivoco.
2) Il servo è generalmente fedele (delle figure esaminate solo il Davo della Perikeiromene è πανοῦργος e, se si attira i rimproveri del padrone, questo avviene per un equivoco (questo vale per Parmenone, che infatti nel V atto rivendica la sua innocenza, per Onesimo e per il Davo del Dyscolos che provocano involontariamente l’ira del padrone).
Resta ora da vedere il rapporto tra la figura del servo e la comicità. I giochi di parole, i doppi sensi, le figure etimologiche, i paragoni, le metafore, i proverbi che rendono vivace e scoppiettante il linguaggio del servo p1autino non si riscontrano in Menandro, il cui linguaggio punta più alla pura comunicazione che alla connotazione e tende quindi ad evitare qualsiasi ambiguità. Di alcune scene comiche già si è parlato: esse hanno come protagonisti Davo e Sosia nella Perikeiromene e Geta, un servo di importanza minore, insieme al cuoco Sicone nel finale del Dyscolos. Questa scena, la cui comicità è basata sulla ripetizione, sulla ritorsione e sul burlesco autoritarismo dei servi che rovesciano le parti rispetto al padrone, è la più lontana, con la sua vìolenza che la fa quasi sconfinare in un balletto surreale, dalla medietà quotidiana di Menandro e la più vicina all’ἀρχαία. Geta compare sempre in scene burlesche, nell’atto II ancora una volta associato al cuoco nei preparativi per il sacrificio ordinato dalla madre di Sostrato e nel III nel corso dello stesso sacrificio mentre lancia improperi contro le serve e si lamenta che per lui del ricco banchetto sacrificale non rimarrà nulla.
Vi sono quindi due livelli di comicità legati al servo nelle commedie di Menandro:
l) il burlesco, per la verità raro, che si manifesta nella ritorsione, nell’inversione dei ruoli, nello scambio di insulti, nel sottolineare il rapporto del servo con il cibo e il timore della punizione. Spesso in queste scene il servo è associato al cuoco. Sono temi e meccanismi generatori di comicità che compaiono in Plauto con sviluppo ben maggiore e soprattutto con una ricchezza di linguaggio che in Menandro manca. Plauto ritarda talora la comunicazione o l’azione con una serie di battute comiche, costruendo il maggior numero possibile di variazioni su uno stesso tema.
2) la comicità che deriva da citazioni filosofiche o tragiche. Ne sono portatori Davo nell’Aspis e Onesimo negli Epitrepontes. Menandro non irride il contenuto di tali citazioni, ma fa sgorgare la comicità dal contrasto con un personaggio che non le comprende. Resta un tipo particolare di servo da esaminare per vedere se esistano rapporti con la commedia latina: il servus currens, cioè quella figura di servo comune nelle commedie plautine che arriva correndo dal padrone, ansimante, dopo aver scostato la folla che intralcia il suo passaggio, per portargli notizie. Vi è un sicuro precedente di servus currens in Menandro, e precisamente Pirria che nel Dyscolos torna di corsa da Sostrato dopo esser stato cacciato e colpito con zolle e pietre da Cnemone. Handley3 ha notato come l’entrata in scena di Pirria porti un cambiamento drammatico, che colpisce Sostrato come uno shock; egli apprende che il suo amore trova un ostacolo insormontabile in Cnemone. Vi sono però alcune differenze rispetto al servus currens plautino4 (nota 4); in primo luogo la diversità di ambientazione (nel Dyscolos non essendo in città non troviamo la strada affollata), ma soprattutto il fatto che il servus currens in Plauto si comporta così di propria volontà , mentre Pirria fugge perché è inseguito e solo incidentalmente porta notizie. Come si è riscontrato per la comicità abbiamo quindi in Menandro una maggiore economia drammatica rispetto alla tecnica di espansione tipica di Plauto.
Note
- W.T. Mac Cary, Menander’s slaves: their names, roles and masks, “TAPHA” C, 1969, p. 277-294. ↩︎
- Proprio perché l’eroe non é più tale ma è diventato uno dei tanti, è spesso difficile individuare il protagonista nelle commedie menandree: ad esempio nell’Aspis dal punto di vista del carattere e della funzione sembrerebbe Smicrine, ma la creatività è dalla parte di Davo, suo oppositore. Cfr. l’introduzione a Menandro, Commedie a cura di Guido Paduano, Milano 1980. ↩︎
- E.W.Handley, The Dyscolos of Menander, Londra 1965, e W.S. Anderson, A new Menandrian Prototype of the Servus Currens of Roman Comedy, “Phoenix”, vol. 24 (1970) 3, pp. 229-236. ↩︎
- W.S.Anderson, A new Menandrian Prototype of the Servus Currens of Roman Comedy, “Phoenix”, vol. 24 (1970) 3, pp. 229-236. ↩︎