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La leggenda dei Ciclopi

by Mariapina Dragonetti

di Ignazio Concordia

da Zetesis 1989-2 e 1990-2

Le trasformazioni del mito da Omero ad Ovidio

1. Odisseo nell’antro di Polifemo (Odissea IX, 181 segg. )

Polifemo accecato da Odisseo, mosaico dalla Villa del Casale (Piazza Armerina), III-IV sec. d.C. 

La mitologia greca, come si sa, non ha carattere dogmatico, neppure nei suoi racconti più squisitamente religiosi; ciò ha consentito agli autori classici di apportare, di volta in volta, le modifiche più congeniali alla loro sensibilità artistica e ai gusti del loro tempo.

Un fenomeno di questo genere è possibile riscon­trarlo a proposito della leggenda dei Ciclopi, che è stata localizzata e riferita, dai maggiori poeti dell’antichità classica, ai tempi mitici della Sicilia.

Già Tucidide menziona Ciclopi e Lestrigoni come i più antichi abitanti dell’isola, ma li relega giustamente nel mondo del mito e dell’invenzione poetica: “si dice che ad abitare una parte dell’isola i più antichi siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni, dei quali io non so a quale razza apparten­nero, né da dove venissero, né. dove siano andati a finire: basti ciò che i poeti hanno detto e quello che ciascuno può, in qualche modo, conoscere su di loro” (Thuc. VI, 2).

Tucidide ha ragione: la leggenda dei Ciclopi appartiene più alla sfera fantastica della creazione artistica che a quella concreta del racconto storico; nella sua forma più antica essa è attestata in quello straordinario poema che si colloca agli inizi della letteratura greca e, nel contempo, della letteratura occidentale, e cioè 1’Odissea, ove l’avventura nella terra dei Ciclopi fa parte della più ampia saga dei viaggi che Odisseo compie di ritorno dalla decennale guerra combattuta a Troia.

È pur vero che nel racconto di Odissee alla cor­te di Alcinoo confluisce l’eco di viaggi e racconti di marinai greci, e forse fenici, in terre misteriose e selvagge dell’occidente mediterraneo, racconti che testimoniano i primi rapporti tra il mondo greco e i paesi di questa parte dell’antico ecumene (1), ma il poeta deliberatamente elabora un modulo espressivo che ha tutti i connotati del racconto di fiaba, caratterizzato com’è dall’indeterminatezza dei luoghi e dei tempi: Odisseo approda nella terra dei Ciclopi in seguito ad una tempesta che gli fa perdere 1’orientamento e lo trascina per nove giorni verso una meta sconosciuta.

L’espediente della tempesta rappresenta, nel linguaggio poetico, il passaggio dal mondo della realtà a quello della fiaba.

L’episodio di Polifemo (che segue quello dei Lotofagi, gli strani mangiatori del loto, la droga che dava 1’oblìo e toglieva il desiderio di ri­tornare in patria) s’inserisce in questo contesto: la figura del Ciclope, il gigante mostruoso con l’unico grande occhio rotondo in mezzo alla fronte (ciclope in greco vuoi dire “occhio rotondo”),  violento e bestiale,  divoratore di carne umana, appartiene senz’altro al mondo della fiaba, anche se questa viene depurata (dal poeta) degli aspetti più propriamente magici (che si riscontrano tuttavia nell’episodio successivo della maga Circe) in modo tale che Polifemo, nonostante abbia connotati riscontrabili nei miti orientali, ove, come è stato di recente riconosciuto, è pure presente la figura di un demone dedito all’antropofagia e caratterizzato dall’enorme occhio rotondo, non si può identificare del tutto con l’Orco delle Mille e una notte.

La stessa terra dove vivono i Ciclopi ha caratteristiche favolose e tipiche della mitica età dell’oro, come ad esempio quella dei frutti che spontaneamente crescono dal suolo, sicché risulterebbe vano, oltre che senza significato, ogni tentativo d’identificarla con questo o quel paese. Eppure Tucidide, e con lui i principali autori  greci e latini,  identificarono questo paese con la Sicilia (cfr. Euripide, Teocrito, Callimaco, Virgilio, Ovidio, etc.) e pervennero a tale convinzione fondamentalmente per il fatto che il paese dei Ciclopi era ritenuto un luogo reale, data l’autorità indiscussa di Omero persino come maestro di geografia; tuttavia di recente storici e paleontologi (si veda ad es. A. Mayer, The First Fossil Hunters, 2000; Nikos Solounias, The fossils from Samos, 1994) hanno avanzato la teoria che antichi ritrovamenti di resti fossili di dinosauri e di altre specie estinte abbiano influenzato l’elaborazione fantastica di mitiche creature, ipotizzando quindi che giganti e mostri della mitologia greca non siano frutto della sola immaginazione, ma della realtà storica, in quanto collegabili all’esistenza degli animali preistorici. In particolare la credenza che la Sicilia sia stata la terra dei Ciclopi sarebbe dovuta al ritrovamento, da parte degli antichi, dei resti fossili di elefanti nani: il cranio di questi animali, più grande di quello umano, provvisto al centro di un foro nasale o meglio proboscidale, sarebbe stato scambiato per una cavità orbitale e attribuito pertanto ad esseri giganteschi con un solo occhio in fronte: un esemplare di questo genere, classificato come elephas mnaidriensis, è custodito nel museo dell’Istituto di geologia di Palermo. Non bisogna dimenticare del resto che l’elefante è il simbolo ufficiale della città di Catania, e questo dato si ricollega con tutta probabilità al fatto storico che la Sicilia, nel paleolitico superiore, possedeva tra la sua fauna originaria anche l’elefante. Infine è probabile che fenomeni naturali, come quelli eruttivi e sismici, propri dei crateri vulcanici, presenti numerosi nell’isola, siano stati visti come l’effetto delle attività tipiche di questi esseri giganteschi.
Comunque siano andate le cose, sappiamo in ogni caso che già presso Esiodo (Theog., 139 segg.) i Ciclopi, figli della Terra, ed in numero di tre (Bronte il “Tonante”; Sterope, il “Lampo”; Arge, lo”Scintillante” ) fornivano a Zeus il tuono e il lampo: la stessa prerogativa di provetti lavoratori dei metalli venne loro riconosciuta nella tradizione successiva (vedi infra Callimaco, Inno ad Artemide, ove la dea ricorre alla loro opera per ottenere l’arco e le frecce).

Nulla di più semplice quindi che pensare all’eruzione vulcanica come all’effetto della lavorazione in una gigantesca officina di fabbri divini: così gli antichi collocarono il paese dei Ciclopi ai piedi dell’Etna, il maestoso vulcano tutt’ora attivo che domina la Sicilia orientale, ed immaginarono che in quella zona fosse sbarcato Odisseo che, spinto dalla sua innata curiositas, andò a cacciarsi nella tana del mostro:

L’elefante, immagine ufficiale di Catania (sullo sfondo, l’Università)

Quando dunque arrivammo alla terra vicina,
qui sull’estrema punta una grotta vedemmo, sul mare,
eccelsa, ombreggiata da lauri; qui molte greggi,
pecore e capre, avevano stalla; intorno un recinto
alto correva, fatto di blocchi di pietra,
e lunghi tronchi di pino, e querce alta chioma.
Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi
pasceva, solo, in disparte, e con gli altri
non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto.

 (Od. IX, vv. 181-189; trad. di Rosa Calzecchi Onesti)

Polifemo ha quindi la doppia natura, presente in tanti altri esseri mitologici (sirene, sfinge, satiri, per citarne qualcuno), di uomo e di bestia (ἀνὴρ πελώριος) e come tale irride gli dèi e dispregia la sacra legge dell’ospitalità, conducendo vita appartata e isolata, in un’orgogliosa e superba autosufficienza: per questo motivo sarà orribilmente punito e sconterà quell’unico peccato che gli dei non perdonano, la ὕβρις appunto, che definisce come un Leitmotiv il rapporto uomo-dio in tutta la letteratura greca :

Ciclope, non d’un imbelle sbranavi i compagni
nella caverna profonda con la tua forza violenta,
ma su di te doveva tornare il delitto,
pazzo, che gli ospiti osasti mangiare nella tua casa;
così t’ha punito Zeus e gli altri dèi.

                                    (ivi, 475-479)

2. Il Ciclope di Euripide

Una vicenda mitica così ricca di elementi favolosi e di spunti narrativi divenne ben presto materia di ulteriore rielaborazione da parte dei poeti posteriori; tra i primi ad appropriarsi della leggenda furono i poeti comici, che ripresero soprattutto gli aspetti paradossali del mostruoso protagonista, in bilico, come si è visto, tra istinto bestiale e sentimento umano. Sappiamo che il poeta siceliota Epicarmo (530-435 circa a.C.), considerato il padre della commedia antica, scrisse un’opera dal titolo Ciclope, e che lo stesso titolo compare in un ditirambo di Filòsseno di Citera (435-380 a.C.) di cui rimane qualche frammento. Pare che questo poeta, che soggiornò a lungo in Sicilia, alla corte del tiranno siracusano Dionisio il Vecchio, abbia voluto fare del Ciclope una caricatura di Dionisio stesso, che lo aveva fatto rinchiudere nelle latomie. Comunque stiano le cose, il fr. 8 Page, ove si legge:

O Galatea dal bel viso, dai riccioli d’oro
dalla voce seducente, germoglio degli Amori…

introduce, per la prima volta, nella tradizione letteraria, la figura di Polifemo cantore innamorato e capace di esprimersi in teneri accenti (2).

Ma l’opera più significativa di questa fase del mito resta per noi il Ciclope di Euripide: si tratta di un dramma satiresco, l’unico che, com’è noto, ci è pervenuto, integro, di tutta la produzione antica di questo genere. In esso 1’identificazione della terra dei Ciclopi con la Sicilia è un fatto ormai assodato: 1’azione scenica si svolge infatti in uno spazio roccioso ai piedi dell’Etna, ove si apre l’antro di Polifemo che, non più solitario, vive in compagnia dei satiri e del loro padre Sileno, i quali costituiscono il coro del dramma.

Polifemo li ha catturati e ridotti in schiavitù quando essi, partiti alla ricerca di Dioniso, erano stati sospinti dal vento fino ai piedi dell’Etna. I satiri rappresentano, nella rielaborazione euripidea, lo strumento di cui il poeta si serve per dissacrare il mito e ridicolizzare la figura stessa di Polifemo; apre il prologo Sileno, costretto ad umili lavori ed intento a spazzare la grotta del mostro: arriva Odisseo per fare provviste e, in cambio del vino (che i satiri non assaggiano ormai da gran tempo, ignoto com’è ai Ciclopi ), sta per ottenere da loro agnelli e formaggio, quando sopraggiunge Polifemo in persona che chiede conto di ciò che sta succedendo. Sileno allora, per cavarsi d’impiccio, gli risponde di aver colto gli stranieri in atto di rubare, per cui il Ciclope, adirato, uccide e divora due uomini di Odisseo; ma 1’astuto eroe, con la complicità dei satiri, si vendica ubriacandolo con il vino e poi accecandolo del suo unico occhio. Così la punizione del mostro non serve ad uscire dalla grotta, ma a vendicare semplicemente la morte dei compagni. Questa però non è la sola novità che il dramma presenta rispetto al modello omerico: va segnalato anche il sottile ragionamento con cui il Ciclope, vero allievo della sofistica, espone la sua filosofia esistenziale (la filosofia della “pancia” ):

Il denaro, omiciattolo, è il dio dei saggi. Tutto il resto sono chiacchiere e belle parole. Ai promontori in cui sta mio padre, tanti saluti. Perché mi tiri in ballo questi argomenti? Io non temo il fulmine di Zeus, straniero, né so in che cosa Zeus sia più potente di me. Del resto non me ne frega niente. E sta a sentire perché me ne frego. Quando dall’alto manda giù la pioggia, mi riparo in questa caverna, mangio un vitello arrosto o qualche ani­male selvaggio, mi innaffio per bene la pancia sdraiato, ingurgitando un’anfora di latte, e tiro delle scorregge da gareggiare coi tuoni di Zeus… faccio sacrifici d’animali solo a me, non agli dèi, e alla più grande delle divinità: la mia pancia. Mangiare e bere giorno per giorno: questo è il mio sommo dio.                                                                                    (vv. 316-337; trad. di Olimpio Musso).

In questo modo lo spunto della ὕβρις di Polifemo, offerto dal testo omerico, è servito ad Euripide per portare un altro dei suoi attacchi alla religione tradizionale.

3. La fucina dei Ciclopi (Callimaco,  Inno ad Artemide)

Spiritualmente lontana dalla tragicità dell’epos, la poesia ellenistica, nella rivisitazione di motivi e personaggi leggendari, opera una profonda trasformazione dei dati tradizionali, non solo mediante una nuova forma espositiva che privilegia 1’erudizione e 1’ironia, ma anche attraverso la dissacrazione e laicizzazione del mito. È il caso degli Inni di Callimaco, l’esponente più rappresentativo della poesia alessandrina, banditore di una nuova poetica che unisce al gusto per 1’arte raffinata ed erudita un vivo senso dell’umorismo con cui un disincantato poeta svuotava del suo spirito religioso il genere innodico: così gli dèi omerici, ritratti in scene di vita quotidiana, sono presentati come figure fortemente umanizzate, portatori di valori piccolo-borghesi, mentre il ritmo narrativo dell’epica si spezza in singoli quadri di rara efficacia descrittiva e dai tratti realistici.

All’inizio dell’inno, Artemide è rappresentata come una dea-bambina seduta sulle ginocchia del genitore-Zeus, il quale, simile in tutto ad un nonno terrestre tranne che nelle sue prerogative di essere divino, accontenta, con un atteggiamento tra il bonario e il divertito, le numerose richieste che la figlia gli rivolge, riguardo ai suoi attributi di dea, con modi infantili ma con animo adulto e battagliero. Ottenuto il consenso del padre, dopo averne provocato il riso con un gesto che voleva essere quello del supplice che tocca le ginocchia della persona pregata, la dea-bambina, scortata dal suo seguito di ninfe oceanine sue coetanee, va alla ricerca dei Ciclopi perché le fabbrichino l’arco e le frecce. Li trova nell’isola di Lipari (ma è evidente che essi non hanno qui la loro unica dimora, per lo stesso fatto che Artemide li deve cercare prima di trovarli), ove stanno intorno ad una gran massa incandescente presso le incudini di Efesto (il dio del fuoco, qui per la prima volta associato ai Ciclopi nella sua attività di fabbro degli dèi). La vista di quei giganti mostruosi, che lanciano sguardi terrificanti dall’unico occhio posto sotto il sopracciglio e grande come uno scudo ricavato da quattro pelli di bue, atterrisce le compagne, ma non la piccola dea che coraggiosamente avanza per fare le sue richieste nell’antro fumoso, rischiarato dalle scintille del fuoco e reso più spaventoso dal suono cupo dei martelli sopra le incudini, dal gran soffio dei mantici e dal pesante ansimare degli stessi Ciclopi :

Busto di Polifemo (Parigi, Louvre) 

Ne risonava l’Etna, la Trinacria
ne  risonava, sede  dei Sicani,
ne risonava la vicina Italia
e un gran rimbombo rimandava Cirno,
quando i martelli alzando sulle spalle
e battendo con ritmo ininterrotto,
dalla fornace, il rame che bolliva
o il ferro, con gran forza sospiravano.
Perciò mancò il coraggio alle Oceanine
di vederli di fronte e di ascoltare
il cupo suono, senza aver timore.

                (vv. 56-63, trad. V.G. Lanzara)

Fa da contrasto con la terribile scena il delizioso quadretto successivo, in cui s’immagina che le dee, quando vogliono far stare buone le loro figlie che fanno i capricci, le spaventano con la vista di Ermes che si camuffa da Ciclope cospargendosi il viso di cenere:

Ma quando una bambina con la mamma
si mostra poco docile, la madre
va a chiamare i Ciclopi per la figlia,
Arge e Sterope. E allora viene avanti
dal fondo della casa Ermes spalmato
col nero della cenere. All’istante
si nasconde impaurita la bambina
nel seno della mamma, con le mani
davanti agli occhi…

            (vv. 66-71)

Diego Velázquez, La fragua de Vulcano, olio su tela, 1630 (Madrid, Museo del Prado)

È evidente che qui i Ciclopi hanno la stessa funzione che le nostre mamme attribuivano all’Orco cattivo quando minacciavano i loro bambini per farli stare buoni. Solo Artemide non ha paura di loro, anzi, quando ad appena tre anni la madre la portò in braccio per la prima volta da Efesto, e Bronte se la mise a sedere sulle ginocchia come un gigante buono, la terribile bambina gli tirò con forza un gran ciuffo di peli dal petto lasciandogli al loro posto una macchia bianca:

        … tu, bambina, invece,
anche la prima volta, benché avessi
solo tre anni, quando con te in braccio
giunse Letò (per presentarle i doni
Efesto l’invitava), poiché Bronte
sopra le sue ginocchia vigorose
a sedere ti mise, gli afferrasti
sul vasto petto un gran ciuffo di peli
e tirasti con forza. E ancora adesso,
proprio al centro del petto, gli rimane
senza peli una zona, come quando
s’insedia sulla testa l’alopecia
e devasta la chioma di qualcuno.

                (vv. 72-79)

In questo modo Callimaco, col trasformare i mostri bestiali della tradizione omerica in esseri più umani, capaci di sentimenti buoni, apriva anche lui la strada alla raffigurazione di un Polifemo pastore innamorato (Teocrito) e geloso (Ovidio).

4. Polifemo innamorato (Teocrito, Idillio XI )

Sull’esempio della parodia mitologica di Epicarmo e sulla scia di Filòsseno di Citera che, come si è visto, col ditirambo Ciclope aveva introdotto, all’interno dell’avventura omerica di Odisseo, il suggestivo motivo di Polifemo innamorato della bella nereide Galatea (grazie a cui l’eroe poteva mettersi in salvo), Teocrito, il dotto poeta di Siracusa, raffinato compositore di carmi bucolici in cui i protagonisti, quasi sempre pastori idealizzati, cantano storie d’amore in mezzo ad una natura serenatrice e radiosa, porta alle estreme conseguenze il lusus letterario di una creatura bestiale trasformata in tenero ed appassionato amante dalla forza irresistibile e sconvolgente dell’amore, ma anche dalla dolcezza di un paesaggio agreste e pastorale capace di propiziare sentimenti teneri e delicati: Polifemo, l’orrendo mostro divoratore di carne umana, diventa un gentile pastore che soffre per le pene di un amore non corrisposto e trova, nella poesia e nel canto, un rimedio efficace contro il suo dolore:

Contro l’amore, mio Nicia, non vi è rimedio nessuno,
d’erbe o d’unguenti, ch’io sappia, ma sol le Pieridi Muse;
ed è, gentile e soave, fra gli uomini questo conforto,
ma ritrovarlo tutti non possono, e, credo, lo sai
mirabilmente, tu, medico, e a tutte le Muse diletto
come nessuno. Viveva di questo divino conforto
il nostro amico Ciclope, il pastor Polifemo, che amava
Galatea, quando ancora, d’intorno a le labbra e le tempia,
a lui fioriva la prima gentile lanugine. Il suo
un amoruccio non era da rose, da riccioli o mele,
ma una vera follia! Né mai si curava più d’altro.

                                             (Id. XI, vv. 1-11, trad. di Ettore Bignone)

Al pari di Odisseo (e in ciò l’imitazione dissacratoria di Omero mi sembra evidente) che, prigioniero nell’isola di Calipso, se ne va ogni giorno sulla riva del mare a piangere sul suo amore infelice per la moglie e la patria lontana, o di Achille, che, dopo il litigio con Agamennone, dà sfogo, sempre sulla riva del mare, al suo impotente dolore, il Ciclope di Teocrito, sedendo sull’alta scogliera e stendendo lo sguardo sul mare infinito, canta per addolcire il suo tormento amoroso:

Spesso le agnelle al presepe tornavan dai pascoli verdi
sole solette, mentr’egli, cantando la sua Galatea,
sovra la proda algosa struggevasi tutto d’amore,
sin da l’alba, e nel petto gli ardeva la rude ferita
della divina Afrodite, ne l’intimo cuore confìtta.
Pure alleggiarla sapeva, e seduto su l’alte scogliere,
così cantava, stendendo sul mare infinito lo sguardo.

                                                                (ivi, vv. 12-21).

Ma neanche in questa patetica situazione il poeta sa rinunciare alla sua sottile ironia, e ridicolizza il gigante brutto e deforme che vanta le sue qualità di pastore e di musico, o la bellezza della campagna, come se tutto ciò valesse a compensare e vincere, agli occhi della ninfa, il senso di ripulsa che la vista del mostro le suscita e che la fa fuggire come un’agnella quando vede il lupo:

Spesso furtiva tu giungi, che il sonno soave mi tiene;
tosto che il sonno soave mi lascia, tu fuggi veloce:
come un agnello, che scorse il lupo bigiastro, mi fuggi.
Innamorato di te, fanciulla, mi sono quel giorno
che con mia madre venisti a ricogliere fior di giacinti
su la montagna mentr’io per gli alpestri sentier vi guidava.
E più riposo non ho, d’allor che ti vidi, più mai,
sin da quel giorno: ed a te, Galatèa, per nulla t’importa!
Oh! lo so ben, graziosa fanciulla, perché tu mi fuggi:
perché la fronte m’invade l’irsuto mio ciglio villoso,
da l’un’orecchia a l’altra, marchiano, ed un occhio soletto
sotto si schiude, ed il naso ho petonciano sul labbro.
Pure, così come sono, io pascolo mille agnelline
ed il più dolce latte ne mungo e lo bevo: di cacio
mai penuria non ho, a tempo d’estate o d’autunno,
o nel più fitto d’inverno; ma sempre ricolmi i graticci.
E zufolar la zampogna so, come nessun dei Ciclopi,
te, mio dolcissimo pomo, cantando, e cantando me pure,
spesso, a notte profonda. Ed undici caprioletti,
io t’allevo, che in fronte han di luna un gentile crescente,
quattro orsattini pure; ma vieni, oh vieni, fanciulla,
non sarà meno soave, qui, presso di me, la tua vita!
Lascia che il mare turchino si franga a la riva ansimando;
come più dolce la notte con me passerai qui nell’antro!
Qui sono allori, qui svettano i bei cipressetti slanciati,
d’ellera brune volute, qui vite da grappoli dolci:
spiccia qui gelida l’acqua che l’Etna selvosa m’invia,
da le sue candide nevi, ambrosia bevanda a la sete;
queste dolcezze chi mai, per il mare ed i flutti, darebbe?

                                            (ivi, vv. 22-50).

5. Aci e Galatèa (Ovidio, Metamorfosi , XIII)

La figura di Polifemo innamorato ritorna nelle Metamorfosi di Ovidio, ove per la prima volta, in una nuova versione del mito anch’essa risalente alla poesia alessandrina, si presenta associata a quella del pastorello Aci, il giovinetto amato da Galatèa e, per questo motivo, ucciso dal geloso ciclope, ma trasformato dagli dèi nel fiume che da allora prese il suo nome. Si tratta di una delle più suggestive leggende siciliane, quasi sicuramente di origine locale, diffusa nella zona dell’Etna, ove parecchie città richiamano, nel loro nome, quello dello sventurato ragazzo (ad es. Aci Castello, Aci Trezza e, più importante di tutte, Acireale che ha dedicato a Galatèa una via e, nel giardino pubblico, un gruppo marmoreo in cui la ninfa, davanti al corpo straziato di Aci, invoca dagli dèi il miracolo della metamorfosi del pastorello in fiume): la leggenda rappresenta, nella sua trasfigurazione mitica, un fenomeno naturale spesso verificatosi nella zona del vulcano, e cioè una colata di lava che ha sepolto, nella sua corsa verso il piano, un corso d’acqua.

La metamorfosi di Aci è inserita nel libro XIII del poema, in una digressione sul viaggio di Enea che, per giungere in Italia, evita lo stretto di Messina ove sono in agguato Scilla e Cariddi. Parlando di Scilla, il poeta afferma che in origine essa era una vergine fanciulla che amava trascorrere il suo tempo in compagnia delle ninfe marine: fu così che un giorno – ed è sempre il poeta ad immaginarlo – Galatèa raccontò a Scilla la triste storia del pastorello:

Aci era nato da Fauno e Simeta, la ninfa fluviale,
grande delizia de’ suoi genitori, ma a me più diletto,
perché s’unì con me sola. Avvenente e di sedici anni,
molli le guance d’incerta lanugine a pena copriva.
Lui io volevo, me senza mai tregua voleva il Ciclope.

                    (Metam. XIII, vv. 749-753, trad. di F. Bernini).

Nel rifarsi al modello teocriteo, Ovidio non rinuncia ai tratti bestiali che, nella saga di Odisseo, caratterizzavano la figura del Ciclope, il quale pertanto non risulta affatto ingentilito dal sentimento d’amore, ma conserva l’originaria ferocia del personaggio omerico, anche nella scena, ormai diventa un topos letterario, di Polifemo che canta il suo amore sulla riva del mare:

Sporge nel mare con forma di cuneo un’aguzza collina
cinta dall’onde nei fianchi. Il feroce Ciclope vi sale
sopra e si sdraia nel mezzo: lo segue la gregge lanosa
senza la guida. Poiché presso i piedi si pose quel pino,
che gli suoi far da bastone, e potrebbe pur reggere antenne,
ed alla bocca accostò la zampogna di cento cannucce,


per tutti i monti s’udirono i zufoli di Polifemo,
per tutto il mare. Io stavo nascosta di sotto una rupe,
d’Aci nel grembo, e da lungi sentii e notai questi detti:
“Galatèa, del niveo ligustro più candida sei
e più fiorente dei prati, più snella dell’alno, lucente
più del cristallo; tu sei più lasciva del tenero capro,
delle conchiglie più liscia sfregate dall’onde insistenti;
sei più gradita dell’ombra d’estate e del sole d’inverno;
meglio dei pomi, tu sei più vistosa del platano eccelso,
più trasparente del ghiaccio, più dolce dell’uva matura;
molle anche più delle piume del cigno e del latte rappreso;
e se tu non mi fuggissi, più bella dell’orto innaffiato.”

                                (ivi, vv. 774-791).

Aci e Galatea (gruppo marmoreo, Acireale, Giardino del Belvedere. Si tratta di una copia: l’originale del pittore e scultore acirealese Rosario Anastasi (1806-1876), Aci e Galatea, 1846 si trova nella Pinacoteca Zelantea di Acireale:

Il canto amoroso di Polifemo si articola altresì in più numerosi particolari realistici con cui il poeta si dilunga, con rara maestria artistica e raffinato senso pittorico, a descrivere l’attraente paesaggio pastorale nel quale vive quell’essere mostruoso che, ridicolmente, trova piacente la sua immagine riflessa nell’acqua e persino il corpo ricoperto di peli irsuti:

Bene se mi conoscessi, ti rincrescerebbe fuggire,
condanneresti quel tempo che perdi e faresti di tutto
per ritenermi. Posseggo la parte d’un monte, una grotta
vasta scavata con vòlta nel vivo macigno: non v’entra
a mezza estate mai sole né mai vi si sente l’inverno.
Pomi vi sono che incurvano i rami, e nei lunghi filari
l’uva vermiglia e la simile all’oro: per te l’una e l’altra.
Con le tue mani tu stessa le fragole molli corrai
nate nell’ombra silvestre e le cornie autunnali e le prugne,
non solo quelle di succo nerastro, ma l’altre migliori
con il color della vergine cera. Se meco ti sposi,
avrai castagne ed altre frutta e saranno per te quelle piante.
Sono padrone di tutte le mandre che vedi; molt’altre
errano giù per le valli e ve n’ha non vedute nei boschi
e nelle stalle dell’antro, né dir quante sono saprei,
se me lo chiedi: da povera gente è contare la gregge….
Non avrai solo balocchi comuni e volgari regali,
come camozze, caprette, leprotti o due belle colombe
o qualche nido d’uccelli levato di cima a una pianta.
Due orsacchini gemelli d’un orsa pelosa ho trovati
sopra le vette dei monti, che possono teco giocare,
simili tanto tra loro che a pena distinguerli puoi.
Quando li vidi, esclamai: “questi orsatti saranno per lei!”
O Galatèa, su via, solleva il bel capo dall’onda,
esci dal mare ceruleo e non disprezzare i miei doni.
Ben mi conosco e poc’anzi mi son specchiato nell’acqua
e m’è piaciuta l’immagine vista riflessa nel mare.
Guardami quanto son grande! Non Giove ha maggiore statura
di questa mia nel cielo (poiché siete soliti dire
non so che Giove vi regni!); mi scende foltissimo il crine
sopra la fronte severa e m’adombra qual bosco le spalle.
Cosa non creder brutta, perché le mie membra son irte
d’ispidi peli: brutta è quella pianta che manca di fronde,
brutto il cavallo, se il crin non gli copre la bionda cervice.
Copron le piume gli uccelli, la lana le pecore adorna,
gli ispidi peli e la barba s’addicono al corpo dell’uomo.
Ho nella fronte un sol occhio, ma grande che pare uno scudo:
che? Forse il sole non vede dal cielo infinito le cose
tutte che sono quaggiù? Pur il sole non ha che un sol occhio.
Domina nella vostre acque per giunta mio padre: te l’offro
suocero. Tu mi concedi pietà solamente, esaudisci
le mie preghiere: tu sai, Galatèa, che cedo a te sola.

(ivi, vv. 801-816; 822-847)

Gustave Moreau (1826-1898), Galatea, 1880 (Parigi, collezione privata) 

  Ma la vera novità presente nel personaggio ovidiano è il motivo della gelosia, per cui alla fine il giovinetto Aci fa le spese della ferocia del suo mostruoso rivale, caratterizzato altresì dalla ormai ben nota ἀσέβεια:

Io, che Giove disprezzo ed il cielo e la folgore acuta,
temo, Nereide, il tuo sdegno, ch’è peggio del fuoco celeste.
Avrei sofferto il tuo sprezzo piuttosto, se tutti fuggissi;
ma perché tu Polifemo rifiuti per Aci ch’adori,
che preferisci a’ miei baci? Ma piaccia a se stesso e diletto
pure a te sia, ciò che non vorrei; solo che lo ghermisca,
e sentirà quali forze posseggo secondo il mio corpo!
Gli trarrò i visceri vivi e di lui spargerò le sbranate
membra pei campi e pel mare tuo nativo (così ti si mesca!).
Brucio, e più ardente ribolle l’offeso mio cuore: mi pare
ch’abbia nell’animo l’Etna con tutte le forze del fuoco:
o Galatèa, non t’intenerisci?” Lagnatοsi invano,
sorge (io vedevo) e qual toro furente che perse la vacca
non può star fermo e va errando pei monti selvosi ben noti.
Quando il feroce scoperse me ed Aci che, ignari, mai cosa
simile ci aspettavamo, “ Vi vedo, gridò, ma codesto
farò che l’ultimo sia de’ vostri convegni d’amore!”
Fu quella voce così come averla doveva un Ciclope
fuori di sé dallo sdegno, e a quel grido tremò tutto l’Etna.
Esterrefatta mi tuffo nel mare vicino; le spalle
Aci rivolte fuggiva gridando: “Soccorso, ti prego,
o Galatèa; deh voi, genitori, porgetemi aiuto;
nel vostro regno accogliete il figliuolo che sta per perire!”
Ma Polifemo l’insegue e staccato un gran pezzo di monte
glielo scagliò: con lo spigolo estremo del masso lo colse,
ma lo schiacciò tuttavia. Noi quello si fece che il fato
ci concedeva, perché riprendesse le forze dell’avo.
Sangue vermiglio colava dal masso, e il rossor poco dopo
incominciò a dileguare mostrando il colore d’un fiume
torbo da prima pel nembo, che poi lentamente si schiara.
Spaccasi il masso con crepe, onde spuntano in fretta cannucce
vive e la bocca del sasso scavato risuona di spruzzi.
Oh meraviglia! N’uscì d’improvviso su fino all’addome
un giovinetto con cinte le corna di lente cannucce,
ch’Aci pareva, fuorché per l’altezza e il colore marino.
Aci, qual era, si serba così pur mutato nel fiume,
che l’antichissimo nome ora porta che prima aveva Aci.

                (ivi, vv. 848-884).

Polifemo e Galatea (Polifemo intona un canto alla ninfa Galatea accompagnandosi con una siringa; sullo sfondo il pastore Aci), affresco di età romana (I sec. d.C.) proveniente dalla Villa Imperiale di Boscotrecase (New York, Metropolitan Museum).

Anche Luciano, il famoso neosofista del II secolo d. C., intervenne da par suo nel mito di Polifemo, con lo spirito scettico e sarcastico che caratterizza tutta la sua produzione, ma senza arrecare ulteriori modifiche agli elementi tradizionali. Tuttavia lo scrittore porta alle estreme conseguenze il processo dissacratorio della religione e del mito, svuotando i personaggi della residua loro dignità. Nel primo dei suoi dialoghi marini infatti, Doride e Galatèa si punzecchiano alla stregua di comari pettegole, mentre nel secondo Polifemo fa la figura del figlio grosso e scemo che racconta la disavventura che gli è capitata e la beffa di Odisseο ad un padre (Poseidone) impotente a restituirgli la vista ma che medita vendetta contro l’aggressore.

Note

(1) Così J. Bérard, in La Magna Grecia, Einaudi 1963

(2) G. Monaco, in Sikanie, Garzanti 1986