πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν-
θρώπου δεινότερον πέλει. ( Antigone, v. 334)
Δεινός
Δεινός è corradicale col verbo δείδω (temere), ed è un aggettivo con valore passivo (“che è temuto, terribile”), in opposizione all’aggettivo di senso attivo δειλός (“che teme, vigliacco”). Ma già in Omero l’idea di timore è connessa con l’idea di rispetto: in Il. XVIII, v. 394 incontriamo la coppia δεινή τε καὶ αἰδοίη, strettamente unita dalla congiunzione doppia, che lega l’idea di timore con il concetto forse più rilevante del mondo omerico, quello di αἰδώς (il rispetto suscitato da una persona particolarmente autorevole, che trattiene un altro dall’agire). Il termine si applica quindi a persone, sentimenti, anche oggetti, impressionanti per la loro grandezza, potenza, venerabilità: uno scudo (Il. VII, v. 245), la compassione (Soph. Trach. 298), l’amore (Soph., El. 770 e Herod. IX, 3). Nel linguaggio della retorica, il termine si specializza nel senso di “straordinariamente abile”, spesso connesso con σοφός (“capace, abile nell’agire e nel creare”): come quest’ultimo termine è però ambiguo, perché l’abilità, la capacità, l’inventiva possono essere usati per il bene o per il male, non sono cioè eticamente neutri.
In questo contesto l’ambiguità è la chiave di lettura di tutto lo stasimo: l’elogio dell’uomo in quanto artefice del progresso (uno dei pochissimi casi in cui il progresso è attribuito all’uomo in quanto tale, non a un Dio o ad un grande scopritore) si accompagna alla possibilità di agire bene o male: una possibilità che è ambigua in sé, in quanto segno di libertà (e quindi massima grandezza) ma anche limite, perché può portare alla distruzione di sé e della comunità di cui si è parte.
Come tradurre, quindi? Vediamo alcuni tentativi.
Luigi Alemanni, il primo traduttore italiano di Sofocle, scrive nel ‘500 traducendo così l’inizio dello stasimo:
Tra quanti altri animali
Creò natura mai sotto alcun clima,
Nessun (se ben s’estima)
Si trova più dell’uom nojoso e rio.
La brevità di Sofocle si allarga: πολλὰ τὰ δεινά (3 parole) diventano due versi, che a ben vedere traducono solo πολλά, per di più riducendo l’indeterminartezza del neutro plurale ai soli “animali”. La parentesi, che serve a creare la rima con “clima”, rallenta ulteriormente; e l’ambiguità dell’aggettivo è risolta decisamente in senso negativo: neppure “terribile”, ma “nojoso e rio”, una coppia che accentua la sgradevolezza del significato. Del resto soprattutto nella prima parte il progresso è visto in senso fortemente negativo, come un abuso verso la natura, se stesso e gli altri.
Nel ‘700 Francesco Angiolini così traduce:
Fra molte cose orrende
Che son su l’ampia terra,
Niuna de l’uom non è più fiera e ardita.
E’ conservato il neutro, ma è comunque appesantito il brevissimo inizio; soprattutto la traduzione di δεινά/δεινότερον appare assurda: negativo prima (orrende, forse un latinismo per “suscitatrici di terrore?), positivo poi ma nel senso di “coraggioso”, marginale rispetto al testo.
Uno dei più famosi traduttori dei tragici, Felice Bellotti, nell’800 così traduce:
Molte v’ha grandi cose,
ma più dell’uom nessuna.
E’ conservata la brevità di Sofocle e in sostanza c’è rispetto del testo: certo tradurre “grandi” è un po’ accontentarsi. Nella prima edizione, più di quarant’anni prima, aveva tentato così:
No più mirabil cosa
Non v’ha dell’uom nessuna
Aveva cioè tentato una resa meno generica dell’aggettivo, ma aveva anche escluso il contrasto molte – nessuna
Nel primo ‘900 leggiamo Ettore Romagnoli:
Molti si danno prodigi, e niuno
Meraviglioso più dell’uomo.
E Ettore Bignone, di poco posteriore:
Molti sono i prodigi, ma terribile
Quanto l’uomo non v’è nessun prodigio
Entrambi, forse l’uno imitando l’altro, scelgono il termine “prodigio” per indicare l’ampia valenza di δεινός; ma entrambi raddoppiano la traduzione, l’uno con “meraviglioso”, l’altro con “terribile”: inoltre Bignone trasforma il comparativo di maggioranza in quello di uguaglianza: “nessuno quanto l’uomo”, invece di “più dell’uomo”.
A metà del ‘900 leggiamo nella traduzione di Giuseppina Lombardo Radice:
Molte ha la vita forze
Tremende; eppure più dell’uomo nulla,
vedi, è tremendo.
L’incipit è suggestivo, ma aggiunge parole rilevanti (vita, forze) al testo, una caratteristica dei traduttori a partire da metà del secolo. Per contro la traduzione “tremende” è un po’ rinunciataria, in quanto utilizza il significato più ovvio dell’aggettivo. L’inciso “vedi”, oltre tutto messo in bocca al Coro che non è chiaro a chi dovrebbe rivolgersi, è decisamente fuori posto.
Tutte queste sono traduzioni poetiche. Per la prosa, scegliamo una delle ultime, quella di Guido Paduano per i Classici UTET:
Molte cose nel mondo ispirano sgomento; nessuna più dell’uomo.
E’ evitata la ripetizione dell’aggettivo, ma in questo modo, anche per l’aggiunta inutile di “nel mondo”, la prima frase prevale sulla seconda, abbreviata al massimo. “Sgomento” appartiene alla sfera della paura, senza l’aspetto del rispetto, quindi è discutibile.
Migliore la scelta di Lorenzo Rocci (l’autore del vocabolario) che in un’edizione scolastica traduce:
Molte sono le cose portentose, ma niente è più portentoso dell’uomo.
Molto letterale, dato lo scopo del testo, ma con una scelta lessicale interessante. Potrebbe essere accettabile anche “stupende” o “stupefacenti”.
σοφόν τι τὸ μηχανόεν
τέχνας ὑπὲρ ἐλπίδ᾽ ἔχων
τοτὲ μὲν κακόν, ἄλλοτ᾽ ἐπ᾽ ἐσθλὸν ἕρπει. ( Antigone, vv. 365 ss.)
σοφός
Come si diceva, spesso a δεινός è associato σοφός. La parola ha un significato complesso: indica l’intelligenza pratica, capace di agire sulla realtà e trasformarla, e sulle persone trasformandone volontà e pensiero: è la qualità dello scopritore, dell’inventore, del parlatore che convince e affascina; il massimo livello di σοφìα è la magia, che trasforma operativamente la realtà. Sostantivo e aggettivo sono ambigui, come già si diceva, mentre loro derivati, come σοφιστής e il verbo σοφίζομαι, sono negativi: il primo indica chi utilizza l’abilità per avere la meglio, prescindendo dalla verità e dalla giustizia, mentre il verbo indica un uso della ragione che critica i dati della tradizione etico – religiosa in un nome di uno scetticismo nichilista.
Al verso 365 l’ambiguità è riferita alla straordinaria inventiva artistico – tecnica dell’uomo, l’ultima delle sue qualità prima della svolta che ne mette in luce il rischio: questa inventiva è definita σοφόν τι. Come tradurla?
Alemanni praticamente l’elimina, così come abbrevia tutta la parte finale, fra l’altro eliminando il rapporto fra le leggi divine e quelle umane e introducendo l’idea di un distacco dai beni materiali del tutto estranea. Resta solo, del passo, l’espressione: Questo intelletto. Lo riprende Angiolini:
Ma questo spirto altero,
ch’è tanto saggio e accorto,
(chi ‘l crederà?)
A parte la parentesi insensata e retorica, la traduzione liberissima sembra rendere σοφόν τι con l’idea di saggio e accorto, accettabile il secondo ma non il primo che ha in sé una valenza morale positiva.
Bellotti così rende:
Ma chi sovran possiede
Ingegno e arte,…
La sintassi un po’ complessa è qui, semplificata: sovran sembra voler tradurre ὑπὲρ ἐλπίδ᾿ = al di sopra di ogni aspettativa; ingegno traduce forse l’idea di σοφόν,
Così la Lombardo Radice:
Con ingegno che supera
Sempre l’immaginabile, ad ogni arte
Vigile, industre…
Anche questa molto libera: non è chiaro che cosa renda σοφόν (ingegno? industre?)
In prosa Paduano traduce:
Padrone della scienza e del pensiero, padrone delle tecniche oltre ogni speranza…
Anche questa liberissima (grave in prosa!) con la ripetizione di “padrone” e quindi la trasformazione di un unico concetto in tre (scienza, pensiero e tecnica), senza tradurre σοφόν τι.
Ε Rocci?
Avendo, oltre speranza, il potere dell’arte inventiva, ch’è qualche cosa di ben saggio…
Come si è detto, saggio non è esatto: in greco sarebbe ad esempio σώφρων, o φρόνιμος, cioè un termine legato ai precordi, al cuore, o alla ragione eticamente orientata, non all’abilità.
Come si è visto, quasi tutti evitano di tradurre un aggettivo dall’ampia valenza, in realtà intraducibile. Tuttavia potrebbe rendersi “ingegnoso, abile”.