da «Nuovo Areopago», anno 1 numero 3, autunno 1982; ripubblicato in «Zetesis» 1991-1*
Ripubblichiamo qui l’articolo di M. Morani apparso prima nella rivista Nuovo Areopago (1982) e poi in Zetesis (1-1991). Il contributo viene ripubblicato così come era apparso nel 1982 (fatti salvi naturalmente i necessari ritocchi per l’eliminazione di piccole sviste o errori di stampa). Di conseguenza la nota bibliografica può apparire lacunosa e monca, poiché non tiene conto di importanti contributi apparsi dopo di allora (primo fra tutti il saggio di G. Steiner Le Antigoni). Ma, trattandosi di una proposta di lettura che semplicemente mirava a offrire spunti di riflessione e di lavoro, preferiamo riportare qui il testo originario dell’articolo, riservandoci eventualmente di integrarlo (non appena possibile) con ulteriore materiale e con più puntuali riferimenti agli autori citati o semplicemente richiamati.
La tua legge, Signore,
scritta nel cuore
degli uomini
(S. Agostino, Confessioni II, 4)
L’origine del mito
La figura di Antigone è originale creazione di Sofocle. Il mito tebano, nella parte che accenna al divieto posto dal nuovo re Creonte di seppellire le spoglie di Polinice, colpevole di aver tradito la patria scatenando contro di essa una guerra che. ha visto alleati i più famosi guerrieri del tempo, non sembra ancora fissato in maniera definitiva, ed è probabile che, nel momento in cui Sofocle faceva rappresentare la sua tragedia, il pubblico ateniese ne avesse una conoscenza molto vaga. Alcuni critici hanno voluto vedere in certe incoerenze della tragedia sofoclea il riflesso della sua impossibilità di appoggiarsi a una tradizione mitica saldamente fissata (1). Ancora, le notevoli differenze tra la versione accettata da Sofocle e quelle successive fanno pensare che anche dopo l’intervento sofocleo sia proseguita l’evoluzione del mito.
Le fonti più antiche ignorano la vicenda narrata nell’Antigone. Omero accenna in un luogo dell’Odissea (2)all’incesto di Edipo con Giocasta (o meglio, seguendo la denominazione omerica, Epicasta), ma sembra dalle sue parole che non siano nati figli da queste nozze: subito dopo l’incesto, infatti, Giocasta si sarebbe uccisa ed Edipo, accecato, avrebbe continuato a regnare su Tebe. Questa parte del mito è arricchita di ulteriori particolari nei ciclici. Secondo l’Edipodia i quattro figli (Eteocle Polinice Ismene Antigone) sarebbero nati dalle nuove nozze di Edipo con Eurigamia (3); lo storico Ferecide, raccogliendo questa tradizione, aggiunge che Antigone e Ismene furono uccise da Tideo presso una fonte che prese da allora il nome di Ismene (4). L’aver fatto dei figli di Edipo il frutto colpevole dell’unione incestuosa con Giocasta sembra un’ulteriore rielaborazione della vicenda mitica, che sarà ripresa dai tragici con intensi effetti drammatici. Nell’argomento del dramma sofocleo compilato dal grammatico Salustio si afferma che il mito di Antigone era stato trattato nei ditirambi di Ione(5), secondo cui le due sorelle furono bruciate nel tempio di Era da Laodamante, figlio di Eteocle; invece, secondo il poeta Mimnermo (6) Ismene fu uccisa da Tideo per ordine di Era, dopo che si era unita con Teoclimeno. La tradizione generalmente accolta dai tragici riferiva che dopo l’accecamento di Edipo le due figlie seguivano il padre nel suo volontario esilio, mentre in Tebe divampava la lotta per il trono fra Eteocle e Polinice; ma la morte dei due fratelli sembrava segnare la fine della parte più importante della vicenda, e il racconto si occupava dell’ulteriore sorte di Antigone e Ismene in modo molto superficiale e vago. Un solo testo, fra quelli cronologicamente anteriori a Sofocle, introduce Antigone e Ismene a lamentare la sorte dei due fratelli uccisi in duello e accenna alla decisione presa da Antigone di violare il bando di Creante seppellendo il fratello: si tratta del finale dei Sette a Tebe di Eschilo, che i critici ritengono quasi concordemente un brano spurio, che ha eliminato il finale originario di questa tragedia e che doveva servire solamente a saldare il finale dei Sette con l’Antigone sofoclea in qualche tarda ripresa di queste tragedie: motivi linguistici e storici conducono con quasi assoluta certezza a questa conclusione (7).
Il contenuto etico di Antigone
L’Antigone di Sofocle fu rappresentata nel 442-1 (8), a distanza dunque di pochi anni dall’Aiace, la più antica tragedia sofoclea rimastaci, e in un periodo nel quale il poeta, partito dalle conclusioni eschilee, andava maturando una sua originale visione religiosa. Di fatto l’Antigone riprende, ponendolo al centro dell’azione, un problema già posto nella parte finale dell’Aiace:la liceità morale di lasciare insepolto il cadavere dì un nemico ucciso. Le due tragedie mostrano più di un’analogia: anche nell’Aiace l’ordine di lasciare Aiace insepolto è emanato dai due capì dell’esercito, o in nome di un meschino desiderio di vendetta di fronte a un nemico che finalmente si vede alla propria mercè (vv. 1068-9) o nel timore di non apparire abbastanza fermi e incapaci di punire con la dovuta energia chi ha osato ribellarsi (v. 1362). La situazione è risolta dall’intervento di Odisseo, il quale non rinnega la propria rivalità nei confronti dell’eroe morto, riconoscendo anzi che Aiace era per lui la persona più ostile di tutto l’esercito (v. 1336). Ma in un cosmo ben regolato, in cui ogni passione e sentimento, anche negativo, deve avere il suo spazio, esiste un limite anche per l’odio: Odisseo ha odiato Aiace finché poteva essere motivo di nobiltà, nel contesto eroico in cui l’azione si svolge, spingere la propria rivalità fino ai limiti dell’odio (v. 1347): dopo la morte tali sentimenti non hanno più ragion d’essere, e la stessa divisione fra bene e male assume contorni sfuggenti. Nel sottolineare il valore dell’eroe morto, Odisseo dissuade Agamennone dallo spingere la vendetta a un eccesso che farebbe «calpestare la giustizia» (v. 1335); lasciare insepolto Aiace «non costituisce un affronto a quest’uomo, bensì alle leggi degli dèi» (v,. 1343-4).
Semplice e lineare è il nucleo drammatico intorno a cui s’incentra la vicenda dell’Antigone. Il bando di Creante è all’inizio della vicenda una discriminante, uno spartiacque quasi, che obbliga i diversi personaggi a regalare il proprio comportamento su di esso; nel procedere della vicenda il vero punto di divisione non sarà più il bando, bensì Antigone stessa, e gli altri personaggi saranno giudicati in base al diverso comportamento nei confronti di lei. Sofocle ha conferito all’azione una serie di implicazioni e riferimenti morali, religiosi, politici, che, riassumendosi nella figura della protagonista, le offrono uno spessore e un rilievo tali da giustificare la varietà di letture e di interpretazioni a cui tragedia e protagonista sono state sottoposte. Né va dimenticato quanto ha mostrato V. Ehrenberg nel suo libro sui rapporti tra Sofocle e Pericle: nell’età periclea Atene raggiunge la sua acme politica, artistica ed economica, ma già s’intravedono in questa fioritura le prime ambiguità e contraddizioni, che sono le stesse del suo personaggio più rappresentativo. Accanto a un problematico persistere di certezze e valori propri della generazione passata, prendono piede visioni del mondo diverse, che facendo dell’uomo la misura di tutte le cose vanificano la precedente esperienza religiosa in un razionalismo e relativismo quasi assoluto: Pericle stesso concede ampio spazio a queste nuove tendenze. Legato ai più vivi intellettuali del tempo, Sofocle conosce profondamente le nuove dottrine e nello stesso tempo sente il pericolo che vi è insito, e nell’Antigone, più che in ogni altra tragedia, ne mette in luce i rischi, Nel primo stasano (vv. 332-375), un brano che difficilmente si può collegare all’azione del dramma e che assai più probabilmente va visto come un intervento .diretto del poeta nella vicenda, Sofocle proclama la grandezza dell’uomo, quest’essere meraviglioso e tremendo che ha valorizzato fino all’incredibile le risorse del proprio ingegno, ma ne sottolinea in modo vigoroso i limiti, e, contro la nuova visione antropocentrica e il relativismo morale ad essa inerente, afferma la necessità di «seguire le leggi della terra e la giustizia giurata degli dèi», se si vuole far parte dì una grande città (9). Fin dall’inizio della tragedia il poeta, dando a Creonte l’appellativo di stratega (v. 8), in luogo del più usuale «re» o «tiranno», fa forse un implicito riferimento a Pericle e invita quindi il pubblico, con questo segnale, a rapportate le vicende del dramma alla situazione attuale (10).
Il bando di Creonte nasce da un’intenzione almeno inizialmente accettabile: egli vuole mostrare il diverso trattamento che amici e nemici della patria avranno sotto il suo regno (vv. 207-210), Egli si richiama a Zeus che tutto vede per affermare la sua determinazione a governare lo stato nel rispetto della giustizia (v. 187), convinto che il signore della città debba eliminare i favoritismi personali e attenersi alle decisioni migliori (vv. 178-9). Il suo provvedimento non è del tutto privo di giustificazioni: anche il diritto attico del V sec. negava ai traditori la sepoltura nei confini della patria, permettendo però ai congiunti di seppellirne le spoglie in terra straniera (11); Creonte porta quindi agli estremi, valicando i limiti della giustizia, una prassi consolidata, commettendo l’errore di arrogare alla propria psyché, phronēma, gnómē (v. 176) la fissazione dei criteri assoluti che dividono il bene dal male in modo definitivo. Ma l’errore più grave di Creonte non è tanto quello di aver travalicato, commettendo così una hýbris e dimenticando l’euboulía, la saggezza (vv. 1050, 1098); più grave è il fatto che difenda la sua decisione, rendendo il suo errore irrimediabile, quando gli viene offerta la possibilità di riflettere sui suo comportamento.
Di fronte alle parole di Creonte il Coro mostra una rassegnata ubbidienza. I vecchi di Tebe, che lo formano, hanno mostrato un’ammirevole fedeltà ai vari re che si sono alternati sul trono di Tebe: è mutato il colore dei loro capelli, ma non il loro rispetto per il potere (vv. 164 ss.). Creonte ha preso una decisione perché poteva prenderla: «Così ti piace: tu puoi tutto sia su chi vive sia sui morti» (vv. 211-4). Certo il Coro esprime una profonda devozione alla divinità: ha visto, nello schianto con cui sono stati travolti gli empi assalitori di Tebe, la fine miseranda cui va incontro l’uomo che presume troppo di sé. «Zeus detesta i vanti di una lingua superba» (v. 127). Nel decreto di Creonte percepisce un’oscura violazione della norma religiosa: quando la guardia affermerà di aver trovalo il Cadavere ricoperto da un leggero strato di terra, una domanda si affaccia al suo animo: «Sire, a me, il pensiero da tempo mi convince che forse questa è un’opera degli dèi» (vv. 278-9). Eppure per tutta la prima parte della tragedia questa percezione non sfocia in una consapevolezza. Conosce un’unica parola: obbedienza assoluta alle leggi della città, e non ammette che queste possano essere in disaccordo con la legge divina: il comportamento di Antigone è, agli occhi del Coro, più colpevole di quello di Creonte!
Ben diversa è la statura di Antigone. La sua vita è trascorsa nel dolore: non esiste disgrazia che lei non abbia visto (vv. 2-6), e questa sua esperienza della vita, colta nei suoi aspetti più tristi, ha fatto nascere in lei un’esperienza estremamente lucida. Non ha tratto dalla sua genialità l’acuta percezione del bene e del male, bensì da una sofferta maturazione, al termine della quale sente le leggi di Dike come l’unica verità che possa guidare il cammino dell’uomo. La legge della giustizia è eterna: ogni uomo la trova scritta dentro di sé, ed abbraccia ogni parte del cosmo, il mondo dei vivi come quello dei morti (vv. 450-1). La consistenza del suo vivere è ora soltanto nel mettere in pratica queste leggi, fosse pure a rischio della propria vita (v. 72). Nel mondo che la circonda, il valore vero è continuamente velato da tanti valori apparenti: in un tragico rovesciamento di posizioni, la verità risulta follia, e Antigone è continuamente trattata come folle: anche le persone più care danno questo giudizio della sua azione. Ismene la invita a riflettere, la chiama più volte «misera, disgraziata» (vv. 39, 82), «insensata» (v. 99). Che Creonte la consideri pazza è del tutto naturale (vv. 561-2); ma anche il Coro vede in lei «la cruda stirpe di un crudo padre, incapace di adattarsi alla disgrazia» (w. 471-2), una persona «che ha proceduto fino all’estremo limite dell’audacia» (v. 853), e le riconosce solamente il merito di aver accettato eroicamente la morte, dopo essersela procurata senza un motivo apprezzabile (vv. 821-2), anzi, dimentica della sua natura di essere umano: «Noi siamo uomini e di stirpe mortale» (vv. 834-5). Antigone sa di apparire insensata, anche se il vero folle è Creonte (vv. 469-470), che pure lancia contro di lei la duplice accusa di tracotanza, nella violazione del bando e nella successiva apologia del reato (vv. 480-3). Ma Antigone non è toccata da questa illusione ottica che sanziona un rovesciamento dei valori. Antigone ha scelto tra il tempo e l’eternità; vuole essere gradita a coloro coi quali dovrà stare per sempre (v. 89), tanto da apparire agli occhi di Ismene una «innamorata dei morti» (v. 88). Ma, a differenza di un’altra innamorata dei morti sofoclea, Elettra, in cui l’attaccamento ai defunti e al dovere si è trasformato in una visione della vita aspra e piena di rancore, in Antigone l’affetto per i cari conduce a un’apertura di amore; «Non per condividere l’odio, ma per condividere l’amore io sono nata» (12).
Antigone dunque è mossa dal desiderio di testimoniare e affermare le leggi detta giustizia, anche a rischio della vita (vv. 96-7); dove la verità è follia, anche la vita assume le fattezze della morte: «La mia anima da tempo è morta» (vv. 559-560), afferma poco prima di affrontare l’ultimo viaggio, quando si rende conto della sua solitudine e, umanamente e tristemente, lamenta la giovinezza perduta e le gioie di amore mai godute. L’esatto negativo di Antigone è Ismene, che confusamente avverte quanto sia motivata la posizione della sorella, ma non accetta di seguirla, per una debolezza che non è dovuta solamente alla sua natura di donna, incapace di opporsi ai voleri degli uomini (vv. 61-2), ma pesca più profondamente nell’inerzia di chi non vuole assumersi responsabilità nei confronti del potere, fino a considerare insensato o addirittura colpevole («commettere eccessi non ha nessun senso» v. 68) chi queste responsabilità si sente di assumere. Ma la condotta di Antigone ha anche la capacità di mutare chi le sta vicino: il profeta muore in solitudine, ma la sua testimonianza non è vana per chi non ha del tutto chiuso il suo cuore. Dopo aver rifiutato di seguirla, Ismene vorrebbe morire con lei; anche se in modo tardivo, Ismene riconosce quale sia la giustizia e vorrebbe condividere la sorte di chi per questa giustizia si sta immolando. Analoga la posizione di Emone, il fidanzato di Antigone: questi forse non percepisce fino in fondo le motivazioni che hanno spinto la donna al suo gesto, ma intuisce la grandezza umana di Antigone e vorrebbe anche lui condividerne la sorte. Anche il Coro intuisce questa grandezza umana, ma, chiuso nella sua miope affermazione di una religiosità puramente formale (vv. 872-3) e fondamentalmente convinto della colpevolezza della donna, uccisa dalla sua «ira spontanea» (v. 875), si lascia trasportare a una serie di parole che suonano sinistra e involontaria irrisione di lei (v. 838). Tuttavia anche il Coro e Creonte cambieranno, quando la verità testimoniata da Antigone troverà il conforto e il sostegno di Tiresia, l’anziano vate di Tebe, la cui autorevolezza e la cui dimestichezza col divino non può essere negata. Tiresia accusa esplicitamente la colpa (authadìa)di Creonte (v. 1028), che si è voluto ergere a giudice supremo del bene e del male, calpestando Dike. Subito dopo la più superba delle sue affermazioni («neppure se le aquile di Zeus volessero rapire i suoi resti e portarli ai troni di Zeus, neppure così… io permetterò di seppellire quell’uomo», vv. 1040-3), in cui si risentono le nuove mode razionaliste della sofistica («io se bene che nessun uomo ha il potere di contaminare gli dèi», vv. 1043-4), Creonte crolla di schianto: avverte il peso delle parole di Tiresia e balbetta: «ne sono sconvolto» (v. 1097). Prima ordinava e minacciava e rifiutava di ascoltare, ora si rivolge al Coro in una disperata richiesta di consiglio: «Che si deve fare? Parla, e io ubbidirò» (v. 1099). Ma ora è troppo tardi: la morte del figlio e della moglie, sommandosi a quella d’Antigone, mostrano l’inconsistenza umana della sua posizione: Creonte non è più nulla («quest’uomo vano», dice di sé: v. 1339) e riconosce egli stesso la sua oggettiva colpevolezza («io ti ho ucciso, o misero, io, dico», vv. 1319-20).
Smarrimento dell’Antigone originaria
La perfezione artistica dell’Antigone ha esercitato un profondo influsso già sugli autori antichi; ma è evidente in tutte le successive riprese della tragedia un appiattimento della prospettiva originaria: Antigone è stata motivo di contraddizione per gli epigoni di Sofocle quanto lo è per i comprimari della tragedia che Sofocle le ha dedicato. Seguiremo qui brevemente la fortuna di Antigone, prima nelle imitazioni successive del dramma, poi in alcune letture critiche.
Euripide, il tragico ateniese contemporaneo di Sofocle, ma enormemente distante per concezione teatrale e visione religiosa, scrisse un’Antigone; i frammenti superstiti ci dicono assai poco circa la realizzazione della protagonista, ma il riassunto trasmessoci da Aristofane di Bisanzio è significativo: «in questa tragedia Antigone, còlta in flagrante insieme ad Emone, gli viene data in sposa e genera il figlio Meone (Emone?)» (13). L’aver fatto partecipe anche Emone del seppellimento di Polinice e l’aver concluso la tragedia con un lieto fine sono di per sé indizi di un calo di tensione rispetto a Sofocle: la solitudine profetica di Antigone è stata stemperata e l’accento posto, come spesso in Euripide, più sulla complessità dell’intreccio che sulla profondità morale dei personaggi. Del resto, l’ottica con cui il razionalista Euripide poteva considerare il gesto di Antigone è chiarita dal finale delle Fenicie, una tragedia dedicata al mito tebano in cui si tocca, sia pure brevemente, il motivo dominante dell’Antigone sofoclea. Nel dialogo fra Creonte e Antigone (vv. 1643 ss.) i due contendenti sono ricolmi più di forza dialettica che di reale convincimento nella verità del proprio operare; Creonte giustifica il bando con l’argomento che si tratta delle ultime volontà di Eteocle, che è doveroso rispettare: Antigone, accusando lo zio di follia e di eccesso, minaccia dì rinunciare alle nozze con Emone e addirittura di uccidere lo sposo la prima notte di nozze, se il cadavere di Polinice non riceverà gli estremi onori. Creonte riconosce «nobiltà, ma anche un certo grado di follia» (v. 1680) alla ragazza che, senza attuare il proprio proposito, si accinge a lasciare Tebe per accompagnare in esilio il padre cieco.
Nel mondo romano, una tragedia dedicata ad Antigone fu scritta da Accio: si tratta forse di una ripresa della tragedia sofoclea, ma i pochi frammenti rimasti non consentono nessun giudizio. Scarsissima importanza ha la figura di Antigone anche nelle Fenicie di Seneca, che riprendono, rielaborandola, la tragedia di Euripide.
Un’Antigone barocca è quella di Stazio. Al personaggio è dedicato spazio nell’ultimo libro della Tebaide. Nel tentativo di recuperare il cadavere Antigone è preceduta da Argia, la moglie del morto; anche qui, come in Euripide, l’aver affiancato ad Antigone un compagno nell’impresa (anzi, l’aver istituito una gara fra le due) inficia nettamente uno dei motivi principali di Sofocle, l’isolamento del personaggio. Peraltro, a Stazio le motivazioni, religiose o psicologiche, che muovono Antigone non interessano un granché. L’episodio è esposto in maniera frammentaria, sullo sfondo della narrazione principale, con un’insistenza prevalente sui caratteri esteriori che rendono il quadro fosco e tenebroso; Antigone muove all’impresa come una giovane leonessa che, eludendo la madre, per la prima volta dà sfogo al suo furore (XII 356-8); percorrendo il campo “truce” raggiunge Argia «squallida e bruttata dì sangue infetto» (ibid. 364); infine, scoperte, entrambe presenteranno al carnefice il collo.
A partire dal Rinascimento, numerose si fanno le rielaborazioni e le traduzioni della tragedia sofoclea (14). Tra le altre (15) mette conto ricordare quella del Rotrou, rappresentata nel 1639, nella quale il motivo dell’onore e della virtù prende il posto delle motivazioni di ordine etico e religioso che formavano il nucleo del personaggio sofocleo. Trascuriamo la Thébaïde di Racine, in cui gli elementi più pertinenti al nostro assunto hanno scarso spazio.
Diretta filiazione dell’Antigone staziana è l’Antigone di Alfieri; la tragedia fu composta nel 1777, dopo un attento studio della Tebaide nella traduzione di C. Bentivolio, e poi ritoccata in varie riprese. La protagonista vive nel costante pensiero di essere un «impuro avanzo» della stirpe dei Labdacidi (a. I sc. IlI, v. 155); indissolubilmente legata alla sua famiglia e a tutto il male che da essa è promanato, Antigone si è serbata in vita unicamente per essere utile al vecchio padre ormai cieco. Tutto l’anelito interiore del personaggio è fatto di morte e di odio: mentre in Argia il desiderio di comporre la salma dì Polinice è dettato da un affetto profondo, in Antigone è la speranza della morte che la esalta e la rende maggiore di lei; l’impresa è spesso definita «pietosa» o «santa», ma l’aggettivazione è puramente convenzionale: non è un imperativo morale a guidare l’eroina, bensì una sinistra volontà di annientamento: «A santa impresa vassi; / ma vassi a morte… / morte aspetto, e la bramo» (a. I sc. III, vv. 187-190). Le parole di Antigone sono sempre concitate, frementi, senza pause di riflessione: il suo odio per Creonte è dichiarato senza reticenze. La situazione in cui è vissuta l’ha portata a un sentimento di chiusura nei confronti degli altri; il suo unico sentimento positivo è l’amore per Emone: ma quando si rende conto che l’affetto di Emone potrebbe creare una breccia nell’usbergo di cui si è cinta, allora anche quest’amore viene respinto. Quando, in un lungo dialogo dell’atto terzo, parrebbe che Emone possa penetrare questa chiusura di Antigone, facendo rinascere in lei sensazioni volutamente abbandonate, allora la reazione dell’eroina è immediata: rifiuta di essere lei causa di una ribellione di Emone contro il padre, ma rifiuta anche di percepire dentro di sé tracce di una vita ormai perduta che sarebbe soltanto l’inutile prosecuzione di una condizione sciagurata e irrimediabile. In Creonte, che vorrebbe guadagnare stabilità al suo trono imponendo ad Antigone le nozze col figlio e costringendola a scegliere tra queste e la morte, l’Alfieri ha accentuato le caratteristiche del tiranno, negatore di ogni libertà, che odia il popolo conoscendo il suo servilismo e strumentalizzando la sua pavida turbolenza. Mosso soltanto da avidità di potere, giunge persino a liberare Argia, colpevole quanto Antigone, e ammette che il suo editto è stato fatto al solo scopo di attirare Antigone in un tranello. Ciò che differenzia totalmente l’Antigone alfieriana da quella sofoclea è la totale staticità, per cui, nonostante i molteplici sviluppi della vicenda, i personaggi rimangono identici a sé stessi dal principio alla fine, impermeabili a qualsiasi cambiamento.
Un’Antigone sognatrice e complessata è quella di Anouilh, scritta nel 1944. La protagonista è fondamentalmente un’insicura: conscia della sua scarsa avvenenza, incapace di valorizzare la sua femminilità (a differenza di Ismene, molto più bella e curata), tenuta in disparte dai fratelli, fidanzata quasi per gioco ad Emone, che l’ha chiesta in sposa improvvisamente una sera dopo aver ballato per tutta una festa con Ismene, Antigone rivendica a sé stessa la libertà di dire «no». A differenza di lei, Creonte è stato attratto in un gioco troppo grande per lui; i protagonisti del dramma sono tutti definiti nella loro mediocrità borghese: Creonte ha dovuto rinunciare ai suoi libri e alle sue visite nelle botteghe d’antiquariato, Euridice passa il tempo a confezionare maglioni per i poveri di Tebe. La decisione di Antigone è come una furia che irrompe nella loro vita: questa ragazza piena di voglia di vivere, che protrae la veglia fino a notte fonda, per non sprecare neppure un istante di vita, affezionata alla natura e alla propria cagna Douce, con cui conversa tutti i giorni, decide di morire, non tanto in nome di un’ideale o di un’azione santa e pietosa, quanto perché la morte è l’unico mezzo per far risaltare la sua autenticità umana. E conferma la sua decisione, nonostante il tentativo persino patetico di Creonte di sottrarla al suo destino; per Creonte Antigone è la bambina a cui ha regalato da poco l’ultima bambola, ma è anche l’«orgoglio di Edipo», l’ultimo rampollo di una famiglia che identifica la vita con l’infelicità, fiera delle grandi colpe commesse. A differenza di Antigone, Creonte ha detto sì; ha accettato un ruolo ingrato, costringendosi così a una sene di menzogne e meschinità di cui si rende pienamente conto. I personaggi sono presi in un ingranaggio superiore a loro: Creonte, costretto a tessere l’elogio funebre dì un eroe che non è un eroe su un cadavere che non è il suo cadavere, e Antigone, che accetta di morire per due personaggi sordidi, entrambi ugualmente traditori della patria e della famiglia, entrambi attentatori alla vita del padre e alla sicurezza di Tebe. Ma, come nella tragedia di Alfieri, tutte le vicende non producono nessun mutamento dei personaggi. Così conclude il Coro: «Ecco. Senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti molto tranquilli. Ma ora, è finita. Essi sono tutti tranquilli ugualmente. Quelli che dovevano morire sono morti. Quelli che credevano una cosa, e poi quelli che credevano il contrario — anche quelli che non credevano niente e che si sonò trovati nella storia senza capire niente. Ugualmente morti».
I limiti della critica
Anche nei critici la parzializzazione o addirittura la polverizzazione della figura di Antigone risulta una costante. Anche nei confronti dei critici questo personaggio fa da spartiacque, se è vero che in tempi moderni si è potuti giungere fino all’esaltazione di Creonte e all’individuazione in Antigone di una «figura sinistra, addirittura devastata dai demoni… rappresentante del selvaggio mondo dei morti» (16).
In una serie di pagine, che hanno fatto testo per gran parte del secolo scorso, Hegel, che considerava \’Antigone sofoclea perfetto modello di tragedia, vedeva in essa l’acuirsi di un conflitto, in cui Antigone e Creonte sono entrambi egualmente difendibili ed entrambi ugualmente colpevoli. La scomparsa dei due personaggi costituisce il necessario passaggio verso un’armonia etica superiore, che si avvicina di più allo spirito assoluto (17). Se l’individuazione nel dramma di una difesa dei diritti familiari contro la difesa dei diritti statali appare limitante, è perché questa lettura non tiene conto della viva realtà dei personaggi; la questione morale esiste in Sofocle, ma non è posta in termini astratti, bensì esaminata attraverso il concreto agire di persone poeticamente vive, che modulano il loro operare attorno a una differente concezione dì valori ed escono arricchite e trasformate dall’intrecciarsi dei loro diversi modi d’agire. È fuori di dubbio che Antigone rappresenti Sofocle: l’appello ad alcuni valori eterni, che l’uomo ritrova dentro di sé e che sono estranei a qualsiasi limitazione di spazio e di tempo, è ricorrente più volte nelle opere di questo poèta; l’accenno alle leggi eccelse, a cui l’uomo deve ubbidienza e rispettò, è rinvenibile anche in altre tragedie (18) oltre l’Antigone. Ridurre pertanto la tragedia a un conflitto tra due tesi, da cui nasce una sintesi, è fortemente limitante, in quanto non dà modo di avvicinarsi alla complessità del personaggio di Antigone. Ma sulla medesima pericolosa strada si pongono altri critici moderni che, come l’Untersteiner (19), vedono nella tragedia «la vicenda dell’Io umano che riempie la scena del mondo»; accanto ad Antigone, la personalità che deve ritrovare sé stessa e ricostituirsi nel momento della sconfitta, sta Creonte, l’io che si costruisce col cervello anziché con un impulso della volontà o un’ispirazione del sentimento: «Creonte vuole superare il momento elementare della vita con la logica e la ragione; Antigone con la spiritualità»; ella è mossa dalle «leggi della terra» che comprendono, oltre alle leggi dello Stato, «l’inevitabile affermarsi della verità sentimentale che è proprio degli esseri terreni». Così i contorni si sfumano, i motivi ideali divengono estremamente vaghi, la concretezza dei personaggi offuscata, le divinità razionalisticamente poste sullo sfondo, in omaggio anche alle premesse del critico, che non teme di alterare la realtà storica facendo di Sofocle un ateo razionalista; e accanto ai due protagonisti stanno l’io prepotente (Tideo), l’io primigenio elementare (la Guardia), l’io che annega sé stesso nella gioia (il Coro), il non-io (Ismene), ecc. ecc.
Ma anche la critica estetica, pur partendo da diverse premesse, giunge a polverizzare il dramma. Il Perrotta, dopo aver ammesso di mala voglia che anche la questione morale è legata inscindibilmente al dramma, perviene alla conclusione che essa nuoce alla sua perfezione, ed è anzi un doloroso tributo che il poeta ha dovuto pagare (20). Dopo la morte di Antigone la tragedia «continua ancora per altri quattrocento versi» (che non sono definiti inutili e noiosi solo per rispetto). Il critico, nel suo disperato tentativo di setacciare la poesia dalla non poesia, non si spiega perché in una tragedia intitolata ad Antigone in realtà Creonte stia più sulla scena che non la stessa eroina. Si potrebbe rispondere che tale è la tecnica del Sofocle più antico, il quale costruisce la tragedia a «dittico»: prima la tragedia di Antigone, poi quella di Creonte; simile modo di procedere troviamo nell’Aiace e nelle Trachinie. Ma la realtà è diversa e più complessa: l’aver voluto respingere sullo sfondo la questione morale, scagliandosi contro quanti «in ogni opera d’arte sono sempre pronti a scoprire “un’idea” “un concetto” “una filosofia”» ha fortemente immiserito la sua visione della tragedia. L’esistenza poetica di Antigone consiste esclusivamente nella percezione, solitaria e incompresa, di una verità più grande che la trascende. Una questione morale diviene non un’astratta affermazione, bensì una carica ideale ricca di verità nel momento in cui una persona è pronta a sacrificarsi per essa. Questa è Antigone: non l’eroina che pronuncia splendidi versi, in cui «la questione morale non porta danno all’arte della tragedia, non la soffoca». Morta Antigone, la vicenda non è conclusa, perché la verità da lei affermata si prolunga oltre la sua vita; e assistendo alla pena che subisce chi non ha voluto inchinarsi di fronte alla verità, sentiamo che Antigone rimane idealmente sulla scena per tutta la parte finale, non solo quando il messaggero ne annunzia la morte, ma anche quando Tiresia proclama autorevolmente la sua stessa verità, quando Creonte e il Coro, seppure tardivamente, capiscono.
Più corretta sembra, e più onesta, la posizione dell’Arnold, questo strenuo difensore dei classici antichi e in particolare di Sofocle nelle polemiche letterarie dell’Ottocento, che pure considerava «tale da non suscitare più in noi un profondo interesse» il motivo centrale dell’Antigone (21). Si potrebbe rispondere che il dovere di seppellire i morti non è solo delle società arcaiche o pagane, che anzi il Cristianesimo ha semmai valorizzato il rispetto per il corpo umano, vivente o morto, confermando così una norma generale che già la sensibilità precristiana intuisce. Del resto, anche nell’ultimo conflitto mondiale le rappresaglie più feroci comportavano, come estremo spregio del nemico e monito per chi volesse condividerne le idee, l’esposizione dei cadaveri, quando non addirittura la loro mutilazione; da questo punto di vista l’azione dell’Antigone èancora di tragica attualità. Ed è interessante che una ripresa filmica della tragedia, Cannibali della regista Cavani, si sia incentrata molto più sul motivo dei cadaveri insepolti per le vie di Milano e sull’indifferenza della gente, abbrutita e ottusa da una guerra civile, che non sulla figura della protagonista, molto lontana dall’eroina sofoclea, con alcune componenti misticheggianti del tutto estranee al modello greco.
Alcune letture moderne, come quella di V. Woolf (22), sottolineano il femminismo di Antigone, e toccano un punto che è indubbiamente presente nell’originale greco, fortemente sottolineato anche dalle due differenti reazioni negative di Ismene e di Creonte di fronte al gesto dì Antigone: si tratta però dell’assolutizzazione di un motivo a scapito di altri.
Altrettanto imbarazzata la lettura marxista, che a sua volta assolutizza la problematica politica, anch’essa indubbiamente rilevante nella tragedia. Così a chi, come il Citti, vede nel discorso di Creonte riflettersi gli ideali politici di Sofocle (dimenticando l’amore per la democrazia che contraddistingue il cittadino ateniese del V secolo e ignorando il fatto che Creonte è esplicitamente chiamato «tiranno» al v. 60) (23), si contrappone il Molinari. Quest’ultimo ammette in Antigone il desiderio non di affermarsi egoisticamente, bensì di risvegliare le coscienze intorpidite degli altri concittadini, però conclude: «In ciò consiste la grandezza, ma per Brecht anche il limite, del personaggio, in questa sua dimensione che non si può definire se non illuministica ed anarchica. Ove la grandezza consiste nella chiara coscienza che un’azione deve essere intrapresa e che lei non può se non iniziarla, il limite nella genericità del messaggio e, più, del destinatario». Di fatto il messaggio di Antigone è molto generico agli occhi del Molinari, il quale non può che ricordare le parole del Cloridano ariostesco, «che sarebbe pensier non troppo accorto / perder duo vivi per salvare un morto» (24).
Ma le conclusioni sono sempre le medesime: Antigone costituisce una pietra di paragone per quanti hanno voluto accostarsi a questa figura ignorandone il contenuto etico e soprattutto religioso, sentendo il fascino irresistibile dell’eroina del mito, ma rifiutando una lettura integrale di essa, per affrontare singoli tratti della sua personalità o per fare svanire in un evanescente chiaroscuro i motivi profondi dei suo operare, Antigone risulta quindi scomoda non solo per i Creonti del suo tempo, ma per tutti i Creonti successivi che, inebriati dal potere o dall’ideologia, non possono fare a meno di manifestare il proprio disagio quando trovano chi sa testimoniare fino alle estreme conseguenze quella verità che essi negano in nome dell’interesse immediato o perché incapaci di ascoltare qualsiasi voce che ci annunci un ideale più grande della nostra persona.