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Lat. « sacer » e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso latino

by Mariapina Dragonetti

di Moreno Morani

da «Aevum», anno LV [1981], pp. 30-46


 l. Il significato di sacer

L’esatto valore del lat. sacer può essere precisato in maniera abbastanza agevole. Sacer è ciò che appartiene al dio (1). Il seguente esempio di Plauto (Trin., 286) chiarisce molto bene i limiti semantici della parola: sacrum profanum, publicum privatum habent. Secondo un procedimento abbastanza usuale, vengono impiegate delle coppie di aggettivi esprimenti l’uno l’esatto contrario dell’altro per esprimere la totalità, così che il contesto viene a significare «non rispettano proprio nulla». È chiaro che, per poter meglio confermare quest’idea, le due coppie di aggettivi devono avere qualche rapporto semantico fra di loro: entrambe devono indicare il tutto, ma da due punti di prospettiva differenti e nello stesso tempo legati da qualche relazione. Sacrum indica la sfera di ciò che ha riferimento col dio, publicum indica la sfera dei rapporti fra gli uomini nell’ambito della collettività e della sua organizzazione: i due piani si integrano fra di loro, e il piano dei rapporti fra gli uomini può essere considerato solamente alla luce del piano dei rapporti fra uomo e dio. Che l’impiego dei quattro aggettivi non sia casuale, ma abbia un senso preciso e venga a costituire quasi una formula, è provato dal ricorrere delle medesime parole in un passo di Nepote (Them., 6): l’urgenza di ricostruire le fortificazioni di Atene distrutte durante le guerre persiane impone di non risparmiare alcun edificio; Temistocle chiede agli Ateniesi, di qualunque condizione sociale (servi atque liberi)di utilizzare tutto il materiale reperibile, neque ulli loco parcerent, sive sacer sive profanus, sive privatus esset sive publicus.

Abbiamo pertanto il seguente schema:

sacer (appartenente al dio)~   profanus (non appartenente al dio)
publicus (appartenente allo Stato)~    privatus (non appartenente allo Stato).

Nelle due relazioni, publicus si rivela termine intermedio anche nel seguente esempio plautino (Trin., 1044): mores autem rapere properant qua sacrum qua publicum «la morale corrente è quella di impadronirsi di tutto ciò che non appartiene al singolo, sia perché proprietà del dio sia perché proprietà dello Stato» (2). Ancora, la contrapposizione fra sacer, publicus privatus, con publicus termine intermedio fra i due, è presupposta nelle espressioni sacra pecunia ‘denaro di proprietà del dio’ e privata pecunia ‘denaro appartenente al privato’ (Quint. IV 2, 8), alle quali si può accostare l’uso di pecunia publica ‘cassa comune della collettività (in questo caso l’esercito)’ in Cesare (BG VII 55, 2) (3).

2. L’etimologia di sacer

Ulteriori considerazioni sono possibili alla luce dell’etimologia indeuropea. Sacer risale a una radice sak-, che ha numerosi riscontri nelle lingue italiche (4): osco sakoro ‘sacra’ (nom. sing. femm.), sacrid abl., sakrím ‘hostiam’, 
sakarater ‘sacratur’, anche sakaraklum ‘sacellum’, sakra ‘sacras’, sacre ‘sacrum’, ecc. In latino da questa radice abbiamo una formazione in -ro-, sakros (attestato in questa forma nel cippo del Foro), e una formazione in -ri- con allungamento della sillaba radicale (5) sopravvissuta solamente nell’espressione porci sacres. 

Processione a Iside (bassorilievo, Musei Vaticani

Tra i composti e i derivati basterà richiamare sacerdos (con la radice dhē- di tíqhmi, quindi propriamente ‘colui che compie le azioni sacre’), sacrificium ‘rito sacro’, sacellum (da sakro-lo-), sacrarium, sacramentum, ecc.: come si vede, ognuna di queste parole sviluppa solamente alcuni dei significati che sono compresenti in sacer (6). I verbi derivati sacrare (che tende a sostituire il più antico pollucēre, di etimo ignoto), cōnsecrāre, resecrāre, obsecrāre, sono da considerare formazioni relativamente recenti; però obsecrō è testimoniato in testi antichi anche nella forma con tmesi ob vos sacro.
Al di fuori dell’Italia i riscontri di questa radice sono piuttosto scarsi. L’unica connessione sicura è quella con l’ittita saklai- ‘uso, rito, legge’ (7). Più difficoltoso invece l’accostamento con l’ant. nord. sattr *sahta-, che dev’essere ricollegato con la rad. germanica *sak- (da ie. *sag-), sulla quale sono formati got. sakan, ags. sacan, aut. alto ted. sahhan, ant. nord. saka ‘accusare, contestare’, ant. nord. so°k ‘dibattito giudiziario’, ags. sacu e ant. alto ted. sahha ‘Sache’, ecc. Queste parole fanno parte del lessico giuridico, non del lessico religioso o istituzionale: né dal punto di vista semantico né dal punto di vista formale l’accostamento può essere considerato soddisfacente: l’imperfetta corrispondenza sorda-sonora potrebbe essere superata agevolmente, qualora i due gruppi di vocaboli, latino-ittita e germanico, fossero più immediatamente raffrontabili. Allo stato attuale delle cose la somiglianza fra le due radici sembra più dovuta al caso che non a una comunanza di derivazione, e le parole germaniche saranno piuttosto da ricollegare col lat. sāgiō, gr. Ógéomai, ant. irl. saigim ‘gehe einer Sache nach, suche’ (8), termini tecnici della caccia che hanno assunto poi significato giuridico secondo un trapasso ben noto (9).
È da scartare l’ipotesi che lat. sacer sia da considerare parola di provenienza etrusca. E’ bensì vero che sulle bende della mummia di Zagabria e in altri testi compaiono parole inizianti per sac-  (quali sacnicla, sacnicn, sacnisa, sacnicleri, ecc.), ma nulla permette per ora di affermare che queste parole abbiano un significato religioso; del resto non avremmo nessun indizio positivo per considerare di origine straniera un gruppo di termini produttivi e di largo uso sia in latino sia in osco-umbro. In mancanza di documentazione probante, si può presupporre, con altrettanta verisimiglianza, un passaggio della radice sac- dalle lingue indeuropee d’Italia all’etrusco (10).

3. Il lessico religioso romano: concordanze tra mondo italo-celtico e indo-iranico

Da oltre sessant’anni ogni indagine linguistica sul lessico religioso latino ha come punto di riferimento un articolo di J. Vendryes, in cui si mettono in evidenza alcune importanti concordanze lessicali fra italo-celtico e indo-iranico (11): il Vendryes giustifica queste concordanze col fatto che sia in India sia nel mondo latino e celtico è esistita una classe sacerdotale depositaria di un sapere destinato per la sua stessa natura a rimanere il più possibile inalterato. Certamente oggi non crediamo più all’esistenza di una unità italo-celtica, e la stessa unità italica è stata interpretata in maniera molto diversa da quella che pareva sicura nei primi decenni del secolo e siamo disposti a vedere nei molti tratti comuni fra latino e osco-umbro non la conservazione di una unità originaria bensì un avvicinamento e una integrazione, avvenuta sul suolo italico, fra due lingue e due culture entrambe indeuropee ma originariamente molto diverse; tuttavia i fatti rilevati dal Vendryes mantengono la loro validità, e anzi gli studi successivi hanno messo in luce notevoli affinità non soltanto linguistiche ma anche culturali e religiose fra Roma, il mondo celtico e l’India. Tuttavia, la conservazione di elementi notevolmente arcaici risalenti al patrimonio indeuropeo, favorita a Roma, come anche nel mondo celtico e nell’India, dalla posizione marginale, e pertanto meno esposta alle innovazioni, che il mondo latino ha nell’ambito del mondo indeuropeo, è accompagnata da una progressiva perdita di significato e successiva reinterpretazione di molti degli elementi più antichi (12).
Si suole ripetere, non senza ragione, che il senso religioso romano è fortemente formalista e collettivo (13). Molti elementi sembrano avvalorare quest’affermazione. L’attenzione fondamentale dell’orante nell’invocare il dio è quella di non urtare in nulla la sua suscettibilità; la formula della preghiera non deve dare adito ad ambiguità e dev’essere recitata a voce alta perché il dio possa sentirla (14); la preghiera a un dio non deve comportare l’eventuale dimenticanza di altri dèi: per questo si lascia spesso indeterminato il nome del dio (15) o si usa la generalis invocatio, che permette di non dimenticare nessuna divinità. Molti aspetti di questa mentalità sono da considerare antichi: ritroviamo infatti nel mondo indiano e iranico un analogo formalismo nella preghiera (16); è indubbio però che i Romani abbiano notevolmente accentuato questo modo di procedere, portati a ciò anche dal loro amore per il diritto. Alcuni episodi narrati da Livio, o le formule di preghiera riferite da Catone nel De agricultura, sono illuminanti. Nel proclamare il ver sacrum del 217 a.C., in un momento quanto mai critico per la sorte di Roma, con le armate di Annibale in Italia che stanno continuando un’avanzata dall’apparenza inarrestabile, il sentimento religioso della città non si esprime in una tensione appassionata e fervente: la formula stabilisce in maniera meticolosa ciò che si richiede al dio: cinque anni di salvezza per lo Stato da nemici che sono indicati con altrettanta cura, i Cartaginesi e i Galli cisalpini; quanto al rito, non si pongono limiti, al fine di non dovere poi recriminare su eventuali errori formali che renderebbero inefficace l’azione, e si ha anzi cura di premunirsi contro eventuali furti o perdite del bestiame consacrato, per impedire che la malizia del singolo o il caso fortuito abbia influenza sul rito. Il carattere collettivo della religione romana (17) è sufficientemente chiarito dlal seguente passo di Livio: durante la pestilenza del 461 a.C., quando l’uomo non ha più rimedi da porre in atto contro il male e non resta altro che affidarsi alla volontà degli dèi, lo Stato obbliga i cittadini alla preghiera: inopsque senatus auxilii humani ad deos populum ac vota vertit: iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire pacemque exposcere divum (18). Anche nell’età finale della repubblica o nell’impero, nonostante che l’influsso delle scuole filosofiche greche o dei culti misterici abbia in gran parte modificato mentalità ed abitudini antiche, abbiamo notevoli riflessi di questo modo di pensare. Nel carme 76 di Catullo l’aiuto richiesto agli dèi muove dalla constatazione di una purezza formale dell’orante rispetto alla maestà divina: chi non ha mai tradito la parola data o non ha mai offeso gli dèi può, solo, chiederne il favore: è l’affermazione di una stretta correlazione esistente sempre fra il piano umano e il piano divino. Uomini e dèi si muovono sempre nell’ambito di norme fissate meticolosamente e i loro rapporti sono sempre scrupolosamente inquadrati in quest’ambito.

4. La reinterpretazione dell’eredità indeuropea in latino

Posta questa premessa, è naturale che simili caratteristiche si debbano cercare anche nel lessico religioso. Se non ci limitiamo a un’analisi formale dei segni linguistici, accontentandoci di segnare forme ricostruite o serie di termini che rimandano a radici facilmente manipolabili, ma tentiamo di collegare la storia delle parole e della lingua con la storia della cultura, notiamo subito come la maggior parte dell’eredità lessicale indeuropea in Roma sia stata trattata in maniera libera, e reinterpretata, o addirittura dimenticata.

Il latino conserva formazioni antichissime come iouiste, antico superlativo di iuvenis (19) e appellativo di divinità, formato con un suffisso e con una modalità che risulta del tutto sconosciuta in epoca storica, ma il termine iouiste non dice più nulla al romano: ecco come Festo glossa questa parola: compositum ab Iove et iuste.
Un’antichissima formazione come credo è mantenuta, ma essa non fa più parte del lessico religioso: come afferma G. Dumézil, credo adempie «nei rapporti fra gli uomini tutti gli usi per cui, nei rapporti fra uomini e dei, servono il verbo scr. śrad-dhā- (av. zraz-dā-) e il suo sostantivo śraddhā (cfr. airl. cretim, ant. gall. infin. credu(20).
Altrettanto istruttiva la storia di iūs. Questo termine ha dei corrispondenti esatti nel sanscr. yoḥ e nell’avest. yaoš: ma il primo di essi significa ‘prosperità’ (lo si incontra nella formula śamca yośca ‘prosperità e fortuna’, cfr. RV I114,2), il secondo ‘perfezione rituale, purezza’. Si tratta di due concetti strettamente legati, in quanto il primo è la diretta conseguenza del secondo. Ma il latino iūs ha radicalmente cambiato il senso: esso indica la perfezione o la norma, ma unicamente nei rapporti fra gli uomini (21); la parola in definitiva viene ad occupare una sfera semantica originariamente riservata ad altri termini, quali i derivati dalla rad. *deik’- (p. es. greco díkh, sanscr. diśā), per indicare la norma giuridica. Si può apprezzare questo spostamento nella espressione iūs dicere e nel composto iūdex, che hanno esatti corrispondenti rispettivamente nel greco díkhn eêpeîn e nell’osco meddix.
Il latino lex corrisponde ad antichi termini indo-iranici quali vedico (locativo) rājani ‘sotto la legge di’ e avest. razan-: ma questi due termini indicano la legge religiosa, mentre il termine latino indica il diritto umano (22).
L’antica parola che indica la libagione, rimasta nel gr. spéndw e nell’ittita spant- (scritto sipant- ispant-)ha assunto nel latino un senso molto diverso: spōnsiō è il patteggiamento, il trattato fra due parti; non indica più una modalità del sacrificio, ma un vero e proprio contratto. La medesima idea è accennata dai numerosi derivati (spondeō, spōnsus, ecc.).
Un’analoga desemantizzazione, anche se in questo caso non si ha il passaggio alla sfera giuridica, si può trovare in fundō: la rad. *g’heu- che in tutte le altre lingue indeuropee indica l’offerta sacrificale (sanscr. hu-, pres. juhoti; hotra-; hotar-;avest. zaotar-; gr. céw), in latino indica il puro e semplice versare, senza nessuna connotazione religiosa.

Il lat. castus è rimasto nell’ambito religioso, ma in modo diverso rispetto ai suoi corradicali indo-iranici. L’etimologia della parola pone qualche difficoltà: è probabile che si abbia il convergere in un’unica forma di due distinte radici: da una parte un castus da *k’әstos (sanscr. śis.t.a-) che significa ‘colui che si conforma alle prescrizioni del rito’, dall’altra un derivato dalla radice *kas- di che significa ‘colui che si conforma alle prescrizioni del rito’, dall’altra un derivato dalla radice *kas- di careō. Gli usi della parola nei vari autori confermerebbero questa duplicità di significato: cfr. nihil rite, nihil caste, nihil more institutoque perfecit (Cic. dom., 134), e ut decet non esse a culpa castos (Pl. Poen., 1186). In entrambi i casi la parola ha comunque un valore negativo; il latino sembra ignorare indicazioni positive nel rapporto uomo-dio: si indica sempre ciò da cui si deve astenersi, ciò che occorre evitare. Questo senso di castus ‘tecnico del sacrificio’ (23) si scorge bene nel derivato castitas, quale viene impiegato nel seg. esempio di Gellio (IV 9, 9): (templa ac delubra) non vulgo ac temere, sed cum castitate caeremoniaque adeundum; si sottolinea più il rispetto preciso della forma rituale che la necessità di una profonda risonanza interiore (24).

 5. Le innovazioni del latino e i contatti con le civiltà osco-umbra ed etrusca

Una volta verificatosi il passaggio di molte parole del lessico religioso originario all’ambito giuridico, il latino è stato costretto a sopperire con altre parole per eliminare le molte lacune che si erano venute a creare in un settore lessicale importante e delicato come è quello del sacro. La maggior parte del lessico religioso latino si forma sul suolo italico, in stretto contatto con le civiltà osca e umbra e con la civiltà etrusca.
Molti termini sono di etimologia oscura: una parola importante come pīus ha riscontro solamente nelle lingue italiche (osco dat. pííhiíi; umbro pihaz ‘piatus’): se è esatta la connessione con la radice *quei- (sanscr. cayati, ecc.), avremmo nella p- iniziale una spia decisiva per identificare la zona di provenienza della parola. Pius indica in origine l’uomo che ha un atteggiamento corretto nei confronti del dio: col passare del tempo la parola si carica di valori sempre nuovi, fino a diventare la parola chiave di una religiosità profonda e personale come quella vergiliana.
Termini etruschi, spesso accoppiati con elementi di formazione latini, possono essere individuati forse nella prima parte di caeri-monia e di haru-spex (cfr. hariolus);termini di ignota origine, isolati e improduttivi, sono verruncare tesca; probabili imprestiti greci sono lībāre (da loibâsqai) (25) e litāre (da litÔ) ‘offrire sacrifici con esito favorevole’, la cui recezione è divenuta necessaria dopo che sacrifico ha assunto un senso neutrale (semplicemente ‘compiere l’azione sacra’) (26).
Ma la parola fondamentale per indicare l’ambito del sacro è fās: esso indica la norma nei rapporti con gli dèi ed è l’esatto equivalente, sul piano dei rapporti uomo-dio, di ciò che è iūs nell’ambito dei rapporti interpersonali. Servio glossa Georg., I 269 fas et iura sinunt con: divina humanaque iura permittunt: nam ad religionem fas, ad hominem iura pertinent, e il Benveniste nota che solamente il latino, tra le lingue indeuropee, distingue il fās dal iūs. La parola risale alla radice ie. *dhē-  (27) da cui è derivato anche fētialis, nome di un magistrato che ha il compito di annunziare la dichiarazione di guerra chiamando a testimonio il fas (28), ma l’ampliamento in sibilante è un’innovazione caratteristica delle lingue italiche e del latino: cfr. peligno fesnu, osco fíísnu, umbro fesnaf-e ‘in fanum’. In latino fa parte molto probabilmente di un vasto gruppo di parole, fra cui fānum (29)fēstus, fēriae. È interessante però che anche per esprimere questa nozione il latino e le lingue italiche abbiano utilizzato una radice che in molte lingue indeuropee esprime concetti di natura giuridica: si v. il gr. qémij, il sanscr. dhāman- ‘istituzione’ e soprattutto l’avest. datəm ‘legge religiosa’ (30).

L’equilibrio perfetto nel rapporto fra uomo e dio è indicato con la formula pax divomche si trova testimoniata in testi di ogni epoca (31). Anche questo concetto trova corrispondenza nelle lingue italiche: le tabulae Iguvinae (VI b 61) ci presentano questa formula di preghiera: fututo foner pacrer paśe uestra pople totar iiouinar ‘siate favorevoli e propizi con la vostra pace al popolo della città di Gubbio’: altrove (VI a 23) Giove Grabovio è pregato fos sei, pacer sei ocre fisei ‘sii favorevole, sii in pace con l’arce fisia’. Pax conserva in questi casi il valore originario di ‘trattato, patto’, e la sua connessione con pactio pactus è sempre avvertibile (32). La pax divom dipende per gran parte dall’uomo, che deve essere attento a non turbare o dimenticare le prerogative del dio oppure, quando si verifichi una mancanza, cosciente o meno che sia, predisporre i mezzi più opportuni per ricreare l’equilibrio originario nel rapporto fra le due parti. Il senso della Pax divom è chiarito in un episodio virgiliano: quando Didone e la sorella Anna, avvertendo la simpatia nata nel cuore della regina per Enea, decidono di modificare una condotta seguìta fino allora, delubra adeunt pacemque per aras | exquirunt (Aen., IV 56-57). Didone sa che il suo voto di univirato ha trovato il consenso degli dèi, mentre ignora se un suo cedimento nei confronti dell’affetto per Enea può trovare una uguale accoglienza presso le divinità. Per questo decide di chiedere agli dèi di non opporsi al suo nuovo progetto: occorre stipulare un trattato, che trova la sua manifestazione nel moltiplicarsi di voti e cerimonie. Naturalmente solamente l’uomo può prendere l’iniziativa di questo rapporto: è l’uomo che deve chiedere la benevolenza degli dèi, supplicandoli di essere propitii ai suoi desideri o placandoli quando ha l’impressione che l’equilibrio iniziale sia stato in qualche modo incrinato. Di fronte alla richiesta della sorella, Anna non fa questioni di opportunità o di liceità morale: le chiede soltanto di adempiere all’unica condizione necessaria, richiedendo agli dèi la non-opposizione: tu modo posce deos sacrisque litatis | indulge hospitio (IV 50-51). Questa unilateralità nell’iniziativa si trova anche in altre manifestazioni della religione romana: è sempre l’uomo a supplicare, interrogare, vincolare quasi gli dèi. Gli stessi signa prodigia, che hanno un posto così rilevante nella vita del romano, non sono lasciati al libero manifestarsi del dio, ma sono in certo modo richiesti e provocati dall’uomo. Afferma Livio che Numa ad ea (scil. prodigia) elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit (I 20): il verbo elicere dà esattamente l’idea del ‘provocare lusingando’, quasi ‘strappare’.
Un ultimo termine che rivela la mentalità latina è quello della preghiera. Il latino e le lingue italiche abbandonano le radici più comuni nel mondo indeuropeo per esprimere questo concetto (ad es. *meldh-/ melth-, da cui arm. malt’em ‘io prego’, lit. melsti ‘pregare’, itt. malti ‘egli prega’; *guhedh-, da cui avest. jaidjyemi ‘io prego’ ant. irl. guidiu ‘id.’, gr. póqoj, ecc.), per utilizzare un’altra radice, diffusa anch’essa e produttiva in tutte le lingue indeuropee, ma originariamente lontana dall’ambito religioso, la radice *prek’- (33). Anche qui dunque, nel lat. prex (usato soprattutto al plurale preces) posco, nell’osco pestlúm ‘tempio’, nell’umbro persklu ‘supplicatione’ abbiamo un’innovazione italica. In latino precor vale propriamente ‘cerco di ottenere con parole appropriate ciò di cui ho diritto’ (34). L’accostamento di precor preces quaeso, in formule quali te precor quaesoque prece quaesit (Lucr. V 1229), stabilisce nettamente il valore di questi termini: mentre quaeso, conformemente al suo antico valore di verbo desiderativo, significa ‘cerco di ottenere, desidero ottenere’, o, secondo Benveniste, ‘uso i mezzi appropriati per ottenere’ (35)precor indica la formulazione delle parole atte ad ottenere ciò che si desidera.

6. Le innovazioni cultuali in Roma

Questa premessa, breve e necessariamente sommaria, porta a una conclusione assai diversa da quella comunemente accettata. Roma riutilizza in maniera assai libera il materiale di eredità indeuropea che aveva a disposizione e spesso lo reinterpreta, in maniera del tutto originale. Anche i dati culturali porterebbero alla stessa conclusione. L’interferenza tra funzione religiosa e funzione guerriera che la tradizione rileva nel periodo più antico dell’età regale indica in maniera abbastanza netta la perdita precoce di una distinzione universalmente diffusa nel mondo indeuropeo. È un re, Numa, che crea le principali istituzioni religiose e sacerdotali in Roma: non si ha mai una netta distinzione fra i due ambiti in nessun periodo della storia romana, così come non esiste una casta sacerdotale chiusa: il sacerdozio romano è aperto a tutti i cittadini fatta salva, fino alla lex Ogulnia del 300, la divisione fra patrizi e plebei. Cosa anche più interessante, in Roma il re è anche sacerdote e celebra egli stesso i riti religiosi, a differenza di quanto avveniva in India e nel mondo celtico, dove la figura del re è sempre accompagnata dal suo cappellano privato (il purohita in India o un druido nel mondo celtico). Festo (p. 198 L) ci dà la seguente indicazione gerarchica delle cariche sacerdotali: rex, flamen dialis, flamen martialis, flamen quirinalis, pontifex maximus. I primi termini conservano anche nel nome elementi di notevole antichità (rēx prosegue la parola indeuropea che designa il sovrano, così come flamen è un termine che ha un parallelo soltanto in India nel brāhmaṇa-), mentre la distinzione fra i tre flamines accenna all’antica tripartizione di funzioni della società indeuropea. Ma nella società romana il ricordo di queste funzioni è quanto mai povero: il rex sacrorum è una figura tanto prestigiosa quanto priva di poteri effettivi, e chi veramente detiene il potere religioso è il pontifex, un sacerdote che mostra, già nel nome, la sua origine recente e l’innovazione romana (36).

7. Le due accezioni del sacro

In molte lingue indeuropee si ha una duplice terminologia per il sacro: da una parte ciò che è sacro per una sua qualità interiore, dall’altra il sacro per separazione, ciò che è sacro in quanto proibito al contatto umano. L’analisi dei termini è stata condotta dal Benveniste in maniera sicura e convincente (37): benché le parole non risalgano tutte alle medesime radici, in quanto la realtà del sacro doveva presentare contorni ancora nebulosi e scarsamente istituzionalizzati nella società indeuropea, le conclusioni a cui si può approdare non sembrano discutibili. Per esaminare qualcuna soltanto delle lingue indeuropee, escludendo il gruppo baltico e slavo, a noi noto da un periodo successivo alla conversione cristiana, che risignificò in maniera radicalmente nuova il lessico del sacro, abbiamo il seguente quadro:

 Sacro in senso positivoSacro per separazione
avesticospənta-yaož-dāta-
grecoëerój–gioj
goticohailsweihs

Nel primo termine è sempre connessa un’idea di forza o di esuberanza, segno della presenza divina di cui la realtà sacra è carica. In avestico l’essere o la cosa sp&nta- è gonfiato di una forza sovrabbondante (la traduzione pahlavi dell’Avesta rende quest’aggettivo con aβzōnīk ‘esuberante, gonfio di forze’). In greco ëerój vale propriamente ‘forte, robusto’, come si ricava dal confronto col sanscr. iṣirá– ‘forte, robusto’ e dalla formula omerica ëeròn ménoj. In gotico hails significa ‘sano’: suoi corradicali sono l’ant. slavo cělŭ e l’ant. prussiano kails ‘sano, forte, robusto’. In latino questa distinzione fra sacro positivo e sacro in quanto separato non esiste. Alcuni autori tentano di vedere questa opposizione nella coppia sacer : sanctus oppure (Dumézil) nella coppia sanctus : augustus. Né l’una né l’altra di queste due proposte è soddisfacente: né sacer indica il sacro per sua intima forza, né sanctus indica il sacro come separato; quanto ad augustus, la proposta di Dumézil è basata sulla presunzione che in latmo sia esistito un *auges- (da  cui augur) ‘forza mistica’, per cui augustus sarebbe la persona «dotata della pienezza della ‘forza mistica’ designata originariamente da *auges-». Tuttavia un’opposizione tra augustus sacer non è confermata sufficientemente dai testi e augustus, pur rimanendo nell’ambito del lessico religioso, mantiene fino ad epoca tarda il ricordo della sua origine da augur e della sua connessione con augurium, significando «consacré par les augures, ou entrepris sous des augures favorables» (38): eventualmente può assumere il senso di ‘rispettabile, degno di venerazione’, venendo quasi a coincidere col gr. sebastój. Quanto a sacer, basta osservare la radicale differenza con cui il termine viene considerato nelle due serie, per rendersi conto della fragilità dell’ipotesi.

8.  Sacer

Sacer è ciò che è riservato agli dèi (quidquid quod deorum habetur)secondo una definizione di Trebazio raccolta anche da Macrobio (Sat., II 3,2): il carattere collettivo della religione romana implica, come conseguenza, che il privato non possa rendere sacro nulla: è privilegio della collettività, nella persona di chi la rappresenta, dichiarare sacro qualcosa. Apprendiamo da Festo (414 L): Gallus Aelius ait sacrum esse quod <quo>cumque modo atque instituto civitatis consecratum est, sive aedis sive ara sive signum, locus sive pecunia, sive aliud quod dis dedicatum atque consecratum sit; quod autem privati suae religionis causa aliquid earum rerum deo dedicent, id pontifices Romanos non existimare sacrum. Il passaggio dallo stato di profano allo stato di sacro richiede delle formule precise (sollemnia verba);il rito è compiuto a nome dello Stato dal magistrato competente, ma la formula è pronunziata dal pontefice: anche la duplicità di terminologia (dedicatum – consecratum)sembra accennare alla duplicità delle autorità che compiono il rito (39): il sacerdote consecrat, lo Stato dedicat.Anche il passaggio inverso, dal sacro al profano, abbisogna di formule precise e prende il nome di resecratio:il verbo resecrare è glossato con solvere religione da Festo (253 L).

La nozione di sacer comporta sempre una unilateralità di iniziativa: è sacro solamente ciò che è dichiarato tale dall’uomo; la consecratio comporta da parte dell’uomo la rinuncia a qualcosa che diventa proprietà del dio. Quando è il dio ad appropriarsi di qualcosa che appartiene all’uomo, non si usa il termine sacer bensì il termine religiosus:luoghi religiosi sono i sepolcri contenenti un cadavere e i luoghi colpiti dal fulmine, nei quali era severamente proibito l’accesso (Varr. LL V 150). Come afferma ancora Festo, locus statim fieri putabatur religiosus, quod eum deus sibi dicasse videbatur (40).
Come tutti gli aggettivi indicanti proprietà, anche sacer ha duplice costruzione: il nome del possessore può andare in dativo (Cereri sacer, Aen., VI 484), ma è ammesso anche il genitivo: illa insula eorum deorum sacra putatur (Cic. Verr., III 18). Non è obbligatorio peraltro indicare il nome del dio, che viene espresso solamente quando la circostanza lo richiede: il termine sacer indica solamente l’esistenza o il crearsi di un rapporto positivo fra l’uomo e il dio; tale rapporto è poi precisato da tutta una serie di norme particolari costituenti il fas (41).
Il senso di sacer ‘appartenente al dio’ è usuale. Anche nell’espressione porci sacres il termine, che ha conservato eccezionalmente un’antica declinazione in -i, vale ‘riservato al dio’. La definizione che dà Varrone (42) non è del tutto esatta: la necessità di riservare al dio gli animali perfetti ha sovrapposto al senso originario di sacer quello di ‘puro, perfetto’; se mai, l’esempio è interessante perché indica che si definiscono sacri (o sacres)non soltanto gli oggetti per i quali la presa di possesso da parte del dio è già avvenuta, ma anche quelli che vengono riservati per l’azione rituale che sfocia nella consecratio. Tuttavia, l’evoluzione semantica di cui già il testo di Varrone dà prova è abbastanza ovvia e normale. In séguito, la notazione di sacer finirà per assumere un valore interiore, anche dal punto di vista morale (sacer = ‘perfetto’ e quindi ‘sacro, intoccabile, inviolabile’), mentre in origine ha solamente una significazione oggettiva.
Molto spesso sacer assume un valore negativo: anziché ‘in possesso del dio’ significa ‘non appartenente all’uomo’, o, più genericamente, ‘estraneo alla normale modalità di rapporti intercorrenti fra gli uomini’. I dies sacri sono giorni nefasti quieti, mentre i dies profani sono fasti o negotiosi:di fronte all’indicazione positiva del fas, sacer ha qui una colorazione nettamente negativa. Questo carattere della parola spiega la mancanza di un aggettivo negativo formato sulla stessa radice: non esiste un *insecer oqualcosa di simile: in questa apparente lacuna lessicale, il latino mostra la sua diversità di atteggiamento rispetto al greco, che ha provvisto i suoi termini indicanti la sfera del sacro (ëerój, –gioj, 8sioj) del prefisso negativo Þn-: i termini greci derivati sono tutti recenti (43). Anche l’opposizione tra sacer profanus conferma questo concetto: profanus è ciò che è esterno al sacro, ciò che si trova alla periferia di esso (pro-),ma non comporta una radicale negazione del sacro: semplicemente, il profanus attende di essere investito dalla dichiarazione di sacralità. Nulla è sacro di per sé, nulla è profano di per sé: ogni cosa può diventare sacra o profana, a seconda delle esigenze del momento, purché la collettività la dichiari tale con gli appositi riti. In questo sacer conserva traccia anche della sua etimologia indeuropea, se si ricorda che l’itt. saklai- vale appunto ‘rito’. La possibilità di restituire (anche preventivamente) il carattere di profano a un oggetto già dichiarato sacro è ben affermato in molti episodi: nel bando del ver sacrum del 217 si dice fra l’altro: si id (cioè la bestia) moritur, … profanum esto (Liv. XXII l0); nel 200, la collera popolare degli Ateniesi contro Filippo induce questi a togliere il carattere di sacro concesso alle sue statue, ai suoi giorni e ai sacerdoti istituiti in suo onore (Liv. XXXI 44).
Ancora, questo concetto si rileva dalla frequenza con cui appaiono in latino formule come sacer esto sacer erit: quest’ultima ci è presentata fin dal più antico documento in lingua latina, il Cippo del foro, sotto la forma sakros esed. Secondo Benveniste (44) è in latino che si manifesta meglio la distinzione fra sacro e profano. In generale possiamo dire che è sacer tutto ciò che non rientra nei normali ambiti del ius. Un esempio di questo significato ce lo dà Orazio (Serm., Il 3, 181): is intestabilis et sacer esto. Una persona, in quanto incapace di fare da testimonio in tribunale, e priva per ciò stesso di capacità giuridica, è sacra: essa si pone in un ambito che non è regolato o garantito dal ius. Se Properzio (III 16, 11) afferma nec tamen est sacros qui laedat amantis, non è perché gli amanti, come commenta il Lessico del Forcellini, se Veneri dicarunt et in eius tutela sunt, ma perché l’esperienza dell’amore comporta per gli innamorati delle modalità di rapporto che non rientrano nell’ambito del ius. Il medesimo concetto è ripreso da Tibullo (I 2, 27-8): quisquis amore tenetur, est tutus sacerque | qualibet: insidias non timuisse debet. È indubbio che la parola dell’amante costituisca un foedus che sarebbe empietà violare, ma il rapporto in sé, una volta sancito questo patto, esula dalle regole giuridiche e pone chi lo vive in un ambito diverso. Analogamente sacri sono i poeti, in quanto l’ispirazione poetica è come una scintilla divina e presuppone modi di presentarsi e di svolgersi che per nulla possono rientrare nella regolamentazione del ius.
Alle stesse conclusioni si approda analizzando i casi in cui sacer, riferito a persone, assume un valore vicino a quello di tabu. Secondo la definizione di Festo (p. 424 L) homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidii non damnatur. L’uomo dichiarato sacer dunque non è giudicabile secondo la legge umana: il fas, che in quanto tale è superiore al ius e comprende dentro di sé le categorie fondamentali secondo cui il ius deve organizzarsi, proibisce la vendetta della persona «sacra» da parte dei tribunali. Nulla meglio di questo indica l’estraneità al ius di ciò che è dichiarato sacer. I testi offrono notizie interessanti. Secondo una lex regia (cit. da PF 260 L) si parentem puer verberit, ast olle plorassit parens, puer divis parentum sacer esto. La notazione sussidiaria ast olle plorassit parens è condizione indispensabile per la dichiarazione di sacer e non può essere considerata soltanto come elemento di prova del reato. L’offesa del figlio al genitore può ancora essere punita in base al ius: ma un’offesa che costringe il genitore al pianto costituisce non solo una violazione, ma addirittura uno stravolgimento rispetto a un ordine naturale stabilito da regole più alte di quelle contemplate dal ius: il colpevole si rende estraneo a questo, poiché offende, oltre al genitore, anche i suoi dèi: tocca a loro prendere la giusta vendetta (45). È sacer il patronus che vien meno ai suoi doveri nei confronti dei clienti, in quanto mette a repentaglio tutta una struttura di rapporti che costituisce il fondo stesso dell’organizzazione comunitaria (46); è sacer chi sposta i limiti dei campi, anzi, secondo la disposizione di Numa, sono sacre, oltre al colpevole, le sue bestie (47), a conferma del carattere di assoluta oggettività che ha la dichiarazione di sacer. Condizione analoga a quella della persona «sacra» ha chi si è votato agli dèi: il soggetto della devotio, se non muore, è per sempre sottratto al mondo profano: egli risulta inabile a offrire sacrifici e la comunità, che gli deve gratitudine per avere attirato su di sé l’ira deorum, deve offrire una vittima espiatoria (48).
È partendo da quest’uso che sacer assume il senso di ‘maledetto’ che ha p. es. in Vergilio (Aen., III 57 auri sacra fames)Con valore più attenuato è già nei comici: ego sum malus, ego sum sacer, scelestus dice di sé un personaggio plautino (Bacch.784) e sacerrumum domicilium è chiamato da Turpilio il bordello (Non. 397, 20).
L’esatto confine semantico di sacer talora rimane offuscato. In Vergilio l’aggettivo può ricoprire il valore di ëerój (ad es. Ideae sacer vertex, Aen., X 230, riecheggiamento di una formula omerica); e la mancanza talora di una netta distinzione fra preghiera e formula magica conferisce a sacer il valore di ‘magico’: Canidia parce voci tandem sacris (Hor., Ep., 17,6).
Secondo la Fugier, sacer vale anche ‘numinoso’. In questo significato la parola appare solamente dall’epoca augustea: il concetto del numinoso sembra estraneo alla religiosità latina primitiva, in cui, come abbiamo mostrato, il carattere del sacro è oggettivo e dichiarato positivamente in base a un’iniziativa dell’uomo. Del resto, negli stessi esempi recati dalla Fugier, si nota che in tutti i passi in cui sacer vale ‘numinoso’ (49) resta sempre qualche traccia dell’antica mentalità. La considerazione sacra di un luogo abbisogna sempre di una giustificazione, quasi che non si voglia ammettere l’esistenza di qualcosa sacer di per sé. In Ovidio, Fast., III 264 s. (est lacus, antiqua religione sacer), è il culto antico a giustificare la definizione di sacer. Lo stesso concetto si ricava da passi in cui la parola sacer non compare, ma è presupponibile nel contesto: stat vetus et multos incaedua silva per annos: credibile est illi numen inesse loco (Ov., Am. III l, l s.); stat vetus et densa praenubilus arbore lucus; aspice, concedas numen inesse loco (Ov. Am., III 13, 7 s.). Più chiaro il seguente passo di Pomponio Mela (I 13,74-5): locus autem specus augustus et vere sacer, habitarique a diis et dignus et creditus, nihilque non venerabile et quasi cum aliquo numine se ostentat;ma qui l’influsso greco è vivo e palpahile nella stessa forma linguistica, oltre che nella mentalità che fa da sfondo al brano.

9. Sanctus

La formazione di sanciō rispetto alla radice *sak- ricorda quella di vincio rispetto alla rado *±eik-. La derivazione in -ye/-yo (anziché -e/-o come in tangō iungō)trova perfetta analogia nel lit. jungiú ma è sicuro indizio di recenziorità. La radice *sak- con infisso nasale si trova probabilmente anche nel nome Sancus, divinità di origine umbra o sabina detta anche Semo Fidius Sancus o anche in altri modi (50).
Il significato esatto di sanciō non è chiarito in maniera concorde dagli studiosi. Quanto all’originario participio passato passivo sānctus, esso ha goduto ben presto di vita autonoma rispetto al verbo, costringendo quest’ultimo a formare un altro participio, sancītus, in uso da Cicerone in poi. La Fugier, che dà alla radice *sak- il senso originario di ‘existant, réel’, dà a sancire innanzitutto il valore di ‘rendre réel’ da cui si sviluppano quelli di ‘rendre effectif, garanti’: sānctus a sua volta vale ‘garanti (par une sanctio)’generalmente ‘à l’aide d’un acte sacer’ (51). Il Benveniste dà al verbo il senso di ‘circondato da una difesa’, mentre il sostantivo sānctiō indicherebbe la pena «applicata dagli dèi stessi che intervenivano come vendicatori» (52).

Scena di suovetaurilia (dall’ara di Domizio Enobarbo, Parigi, Louvre)

L’appartenenza di sancio alla radice di sacer e il suo situarsi nell’ambito della nozione di fas è chiarito da numerosi esempi. Nell’Eneide (XII 200) l’orante si rivolge a Giove con queste parole: audiat haec genitor qui foedera fulmine sancit: il dio ‘rende sacri’ i patti fra due contendenti, sottraendoli alla sfera del semplice ius o, più semplicemente, sottolineando l’adesione di questi al fas, per mezzo del fulmine: il complemento di mezzo insieme con sancio è piuttosto frequente negli esempi: per far passare qualcosa dal profano al sacro occorre un rito, un gesto, o una formula precisa. Anche il seguente esempio di Cicerone (Off., III 13, 56) permette di cogliere la stretta connessione fra sacer sancio: quid est aliud, erranti viam non monstrare (quod Athenis exsecrationibus publicis sancitum est) si hoc non est?
Tuttavia sancio deve aver perso ben presto il senso di ‘render sacro’, eliminato dalla concorrenza che si è venuta a creare con parole più espressive, per la loro più immediata connessione con la parola fondamentale, quali consecro e simili. In séguito sancio tende sempre più a passare nell’ambito giuridico, e si dice soprattutto di leggi, patti e trattati (sancire iura, foedera, pacta, e simili). Tuttavia esso in origine deve aver indicato l’azione che dava una garanzia anche religiosa all’atto giuridico, sottolineando come la violazione della norma non implicasse solamente un oltraggio al ius, ma mettesse in gioco un’offesa agli dèi e l’assunzione di una posizione sbagliata, da parte del colpevole, nei confronti di essi. La sānctio è parte integrante della legge (53), ma il progressivo allontanarsi di lex sanctio dall’ambito religioso verso quello puramente giuridico hanno notevolmente cambiato, in epoca storica, il senso di queste parole. Il cambiamento di significato è già apprezzabile nel V sec. a.C., se si sente la necessità di chiamare leges sacratae un certo gruppo di norme promulgate dopo la sedizione del 493 (Liv. II 33). L’appellativo specifico non evoca solamente il sacrum su cui esse sono fondate, ma vuole probabilmente indicare anche l’inserimento di esse nell’ambito religioso, cioè nel fas, ancora prima della definitiva approvazione senatoria. L’uso di sacratae in luogo del più antico sanctae mostra che quest’ultima parola non era già allora più in grado di esprimere il medesimo concetto.
Quanto a sānctus, i grammatici e i giuristi lo distinguono sia da sacer sia da profanus: dicimus sancta, quae neque sacra neque profana sunt (54). Senza assumere alla lettera alcune definizioni che si rivelano immediatamente artificiose e scarsamente rispondenti all’etimologia e all’uso linguistico (55), la distinzione è opportuna per misurare la diversa estensione semantica di sanctus rispetto a sacer.
Pur estendendo il suo valore, in armonia con l’evoluzione di sancio, anche nell’ambito giuridico, sanctus ha un uso più largo rispetto al verbo corrispondente. Autori che, come Plauto, non usano mai sancio, fanno un uso assai frequente del suo participio. Bastino i due esempi seguenti: neque isti<s> quicquam lege sanctum est (Trin. 1043); ambitio iam more sanctast, liberast a legibus (Trin. 1033). La sanctio, cioè l’atto di dare pieno valore alla norma giuridica ponendola, col suo inserimento nel fas, al riparo da eventuali manipolazioni, ha bisogno di un soggetto: rispetto a sacer, che si limita a indicare l’appartenenza al dio o al fas, sanctus ha il vantaggio di porre in evidenza il momento dell’azione che determina il passaggio al sacro del profano e il soggetto stesso di questa. Una cosa non può essere sancta se non c’è qualcuno che la sancit, sia il console, la legge, il plebiscito o altro. L’ultimo passo di Plauto ha un valore ironico molto forte solamente se lo si legge in questa prospettiva: non è stata la legge o altra autorità a sancire il broglio e l’intrallazzo, bensì la prassi comune: tuttavia essi hanno preso adesso pieno valore.
Sanctus può dirsi tanto di cose (murus, lex)quanto di persone (sancti sono detti concordemente i re, il senato e altri magistrati); gli amsancti valles di cui parla Vergilio (Aen., VII 565) sono luoghi undique sancti, per usare le parole di Servio. Secondo Benveniste, come già si è accennato, sacer indica il sacro per forza interna, mentre sanctus rappresenta il sacro per separazione (cfr. anche Digest., 18,8: sanctum est quod ab iniuria defensum atque munitum est), ma già l’analisi di sacer ha mostrato l’impossibilità di questa interpretazione. La differenza fra dies sacer mons sacer da una parte e murus sanctus lex sancta dall’altra difficilmente può essere altro che una differenza cronologica: sanctus ha sostituito sacer quando quest’ultimo ha perso parte della sua forza primitiva; inoltre sanctus, conservando ancora almeno parzialmente il suo valore di participio passato, è in grado di suggerire l’idea della dichiarazione a sacer di un oggetto, mettendo in rilievo anche l’autore dell’azione, meglio di quanto sacer in epoca storica potrebbe. Tuttavia i due termini tendono progressivamente ad avvicinarsi, anche se sanctus mantiene in genere un carattere più ufficiale.
In questa evoluzione di significato, sanctus può assumere valore attivo, come il seguente esempio mostra: vir (…) foederum sanctus et diligens (Cic. Verr., VII 19,49). Esattamente come sacer, esso indica ciò che appartiene al dio, sia per rinuncia dell’uomo sia per sua stessa natura (come i ter quattuor corpora sancta avium di Ennio, fr. 43 Valm.), ciò che è rituale, ciò che è consacrato, ciò che è numinoso. Ma oltre tutti questi usi, sanctus può assumere tutta una serie di sfumature precluse all’altro termine. In Livio Andronico (trad. di Od., IV 513) l’aggettivo si applica alle divinità stesse (sancta puer Saturni regina)erende l’omerico pótnia; in Ennio l’espressione sancta dearum riprende l’omerico dîa qeáwn. Il nome di sanctus è attribuito a molti dèi, e in particolare agli dèi della fecondità (56); con l’introduzione a Roma dei culti orientali, la parola, per il tramite del gr. –gioj, ricopre anche gli usi della radice semitica QDŠ (57). Altre sfumature ancora possono essere dovute all’influsso di –gioj: sull’esempio di quest’ultimo, sanctus invade in parte l’area semantica di castus, indicando una qualità morale con una connotazione tendenzialmente negativa. Basti il sego esempio: iudicium masculi et i n c o r r u p t i ne dicam gravis et s a n c t i, viri (Quint. V 12, 20) (58). Questa designazione morale di sanctus, che si sviluppa soprattutto negli esempi postciceroniani (sanctum egregiumque virum si cerno: Iuv. XIII 64) è la necessaria premessa per la successiva reinterpretazione cristiana del termine.
Circa l’avverbio sancte basterà il seguente esempio di Plauto: isto tu pauper es, quom nimis sancte piu’ ’s (Rud., 1234); anche qui sancte ha già invaso l’area di caste (‘hai un corretto rapporto con gli dèi da un punto di vista formale’), ma possiede anche delle risonanze profonde che sembrano escluse sia da sacer sia da castus. Ancora in quest’ambito è da collocare il passo di Cicerone (Nat. deor., I 116) in cui la sanctitas, definita scientia colendorum deorum, è opposta alla pietas, che è la iustitia adversus deos.

10. Sacrosanctus

Un ultimo termine, la cui analisi può chiarire il senso fondamentale della radice *sak-, è sacrosanctus. Facendo parte di un lessico tecnico e specialistico, questa parola è estranea all’uso poetico e non la si ritrova nei testi anteriori a Cicerone. Nei testi seriori si nota un progressivo avvicinamento a sanctus, con l’acquisizione di sfumature interiori che sembrano mancanti negli usi più antichi, ma la consapevolezza della composizione rimane fino ad epoca relativamente tarda, come rivela il seguente esempio di Plinio il Vecchio (VII 143): cum resistendi sacroque sanctum repellendi ius non esset. Un rifacimento in sacersanctus si trova in Tertulliano.
Se il valore del termine è abbastanza chiaro nei diversi autori (59), più complesso è stabilire l’esatta natura del composto. Anche dando come sicura la lunghezza della o, sia per la testimonianza dei grammatici (Orientius, II 830) sia per la considerazione che una ŏ breve si sarebbe svolta in i come in sacrilegus sacrificium (o sarebbe caduta come in sacerdos), rimangono due strade da seguire. La prima analizza sacrosanctus in una coppia di aggettivi sacros-sanctus, con semplificazione della sibilante geminata in posizione intervocalica: tuttavia questa spiegazione non rende conto dell’allungamento di o e pone serie difficoltà dal punto di vista fonetico, in quanto la semplificazione di –ss-avviene solamente dopo vocale lunga o dittongo (60). La seconda possibilità consiste nel vedere in sacrosanctus un composto con primo termine declinato, come iuris-peritus iure-consultus: in tale caso sacro sarebbe probabilmente un ablativo di mezzo e il composto varrebbe ‘garantito a mezzo di un giuramento’ (61).
Nessuna delle due ipotesi è del tutto soddisfacente. Del resto la parola dev’essere interpretata alla luce delle circostanze eccezionali in cui essa è nata. Sacrosanctus è detto in origine del tribuno della plebe: questa magistratura è creata per la prima volta durante la sedizione del 493, ma il termine non dev’essere anteriore al 449, poiché è in circostanze diverse da quelle della prima sedizione che la consacrazione ufficiale di questa inviolabilità dei tribuni e di altri magistrati venne sancita solennemente, e sorge una questione fra gli interpreti della legge sul senso esatto in cui intendere la parola. Il testo fondamentale a cui rifarsi è quello di Livio, III 55, 1 ss.: non conosciamo con esattezza le fonti di questo passo, ma si desume facilmente dal contesto che Livio si rifà a qualche documentazione antica (si può solamente escludere che segua, in questo frangente, Valerio Anziate) (62).
Apprendiamo da Livio che il ricordo della prerogativa di inviolabilità dei tribuni era stato da tempo perso: occorreva perciò rinnovarlo mediante riti speciali che da tempo non venivano usati (relatis quibusdam e magno intervallo caerimoniis)È probabile che questa frase non rappresenti fedelmente la realtà storica e che solamente allora venisse solennemente affermata l’inviolabilità dei tribuni, come si può arguire dal contesto (cum religione inviolatos eos, tum lege etiam fecerunt).Il rispetto dovuto alla persona dei tribuni era già stato affermato in precedenti occasioni mediante una religio (cfr. Liv. II 33, 1; III 19,10), vale a dire mediante un’affermazione di carattere religioso, probabilmente sottolineata da un sacramentum, che però impegnava soltanto i contraenti; ma era evidente che quest’affermazione richiedeva, per diventare ufficiale e valida per tutti, la sanctio, la dichiarazione solenne che la violazione della persona del tribuno comportava dei riflessi di origine non soltanto civile, ma anche religioso, in quanto la norma veniva fatta rientrare nel fas. Il colpevole veniva dichiarato sacer e la sua famiglia venduta: la legge è riferita, oltre che da Livio, anche da Dionigi d’Alicarnasso (VI 89, 3). La finzione della dimenticanza e della successiva restituzione è a questo punto una ovvia necessità: il fas non potrebbe ammettere cambiamenti o aggiunte da parte dell’uomo; esso è per sua natura immutabile e il ius deve conformarsi ad esso: l’uomo può solamente prendere coscienza di un suo scarso rispetto per la legge religiosa e proporsi di attuarla con maggiore precisione quando si scopre peccatore nei suoi confronti, ma non può pretendere di modificarla.
In tutta questa descrizione Livio sembra considerare sacrosanctus come una giustapposizione di due termini: sacer si riferisce al patto religioso, sanctus alla legge. In realtà, dando conto nelle frasi successive del dibattito sorto a Roma a proposito della lex Valeria Horatia, egli ci fornisce la prova migliore dell’eccezionalità del termine e della sua attualità nell’epoca in cui questi fatti si svolsero: iuris interpretes negant (è chiaro che il presente va riferito all’epoca della legge, non ai tempi dello storico) quemquam sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cui nocuerit Iovi (corr. Müller: id codd.) sacrum sanciti: qui sacer sanctus sono ancora sentiti nell’ambito della medesima sfera semantica e il verbo ritiene ancora il suo valore più antico di ‘dichiarare sacro’. Poco dopo leggiamo: tribunos vetere iure iurando plebis, cum primum suam potestatem creavit, sacrosanctos esse. Pertanto la difficoltà linguistica riguarda tre punti: la sanctio di una persona in senso positivo, diversamente da quanto la prassi più comune prevedeva; la possibilità di una obbligazione per tutti di ciò che era stato definito soltanto da un ius iurandum e non dichiarato sacer secondo il rito usuale; l’estensione del termine a magistrature diverse da quella originaria. Di fatto, anche in altri passi di Livio sacrosancta viene definita la potestas, non la figura del tribuno (cfr. IV 44,5; XXIX 20,11; IV 3,6; ecc.). Solamente in un altro punto, peraltro assai interessante, abbiamo sia l’attribuzione del termine alla figura stessa del tribuno sia l’analisi del composto come formato per giustapposizione di due termini: hi postulant ut sacrosancti habeantur quibus ipsi di neque sacri neque sancti sunt? (III 19, l0).
Nato in circostanze fuori dell’ordinario e piegato ad esprimere una realtà fino ad allora del tutto nuova, anche il composto non può venire analizzato secondo i criteri consueti. Se si vuole vedere in sacrosanctus un tatpurus.a, con la seconda parte che regge la prima, si sarebbe tentati di interpretare sacro- come dativo, dando al composto il valore di ‘sancito a sacro’ e richiamando altri luoghi come locus templo effatus ‘luogo stabilito a tempio’ (Liv. X 37, 15). Tuttavia espressioni del genere con dativi di fine sono poco comuni ed aggettivi composti con primo termine in dativo sono del tutto sconosciuti in latino e oltremodo rari anche in periodo indeuropeo (63).
In sacrosanctus sarà da rilevare innanzitutto l’allitterazione e il gioco etimologico fra i due termini: entrambe le caratteristiche sono usuali del lessico religioso latino, che è spesso portato alla tautologia e all’insistenza sulla medesima idea mediante il moltiplicarsi dei termini: si vedano le formule di preghiera inizianti con frasi quali precorvenerorveniam peto feroque (Liv. VIII 9, 6) e le frequenti coppie, costituenti spesso una vera e propria unità, anche se non realizzata a livello formale, purus-putus, felix-faustus, sanus-sartus, templum-tescum, ecc., nelle quali va rilevata anche la conservazione di parole ormai prive di significato per il parlante. Ancora, in sacrosanctus la prima parte del composto esprime la conseguenza del secondo. Resa attiva, lasciando il soggetto indeterminato, la frase tribunus sacrosanctus suonerebbe sanxit tribunum sacrum. Questo modo di procedere, per cui il complemento oggetto è accompagnato da un elemento predicativo che non soltanto non aggiunge nulla rispetto al contenuto del verbo ma addirittura ne ripete la radice, trova precisi riscontri anche in altre lingue indeuropee in modi di dire dal colorito particolarmente arcaico. Basti citare quest’unico esempio in antico persiano: avam hufrastam aprsam ‘eum bene-rogatum rogavi’, cioè lo ho interrogato in modo da sottoporlo a un’indagine rigorosa. In modo analogo sacrosanctus, riflettendo questo stesso modo di esprimersi, varrà ‘reso sacro in maniera da dare piena validità alla sua sacralità attuale’.

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Le sigle delle riviste sono quelle usuali dell’«Année philologique». Il segno della lunga nelle parole latine è posto solamente sulle parole analizzate e solamente quando è necessario.