Aracne, Roma,2011
a cura della Redazione
Il libro di Martin, frutto maturo di un lungo impegno e di studio appassionato a partire dagli anni del dottorato di ricerca svolto presso l’Università di Genova, si colloca al crocevia di alcune tematiche di ricerca interessanti. Innanzitutto la figura di Posidonio di Apamea, studioso di immensa erudizione e pensatore di elevata statura, che lasciò un’impronta notevole sulla cultura dei secoli successivi, ma di cui nessun’opera ci è giunta: per ciò stesso, recuperare e discernere ciò che appartiene realmente a Posidonio nei testi antichi è impresa talmente complessa, che le due principali edizioni dei suoi frammenti dell’età moderna, quella di L. Edelstein e I. G. Kidd (Cambridge University Press, 1972) e quella di W. Theiler (Berlin-New York 1982) differiscono sensibilmente già nel numero dei frammenti attribuiti al filosofo e studioso di Apamea: 293 frammenti la prima, ben 471 la seconda (il 60% in più). Per quanto appaiano lontani i tempi in cui era d’uso riportare allo studioso di Apamea molte affermazioni e teorie di filosofi dell’età imperiale (ricordiamo come esempio precipuo di questa tendenza il Nemesios von Emesa dell’esordiente W. Jaeger, che vedeva praticamente in ogni pagina del filosofo cristiano di Emesa tracce e reminiscenze del pensiero posidoniano), rimane il carattere un po’ misterioso di questa figura, le cui opere sono state inesorabilmente travolte dal procedere del tempo. La seconda strada che porta al crocevia è enunciata nella seconda parte del titolo: una grande e affascinante civiltà antica, quella dei Celti. Cesare traccia una descrizione sistematica della società e degli usi dei Celti in alcuni noti capitoli del sesto libro De bello Gallico: si tratta di un punto fermo importante, ma anche essenziale e stringato: soprattutto, come dice lo stesso Cesare, questa descrizione appartiene a un’epoca in cui la cultura e la civiltà celtica stavano vivendo un processo di decadimento: la civiltà dei Galli sta progressivamente soccombendo di fronte all’emergere sempre più prepotente della cultura germanica (Fuit antea tempus… VI 24).
La terza via, non nominata espressamente nel titolo, è quella del mondo classico. In fatti, per mettere in luce le singolarità della cultura celtica, l’autore spesso illustra in modo puntuale come era organizzata la cultura greca e quali erano i suoi tratti specifici, così da dare un pieno e puntuale risalto alle differenze che intercorrono fra la cultura classica e la cultura di questi barbari che hanno suscitato la curiosità e l’interesse di Posidonio. Si vedano per esempio i capitoli sugli usi conviviali (in particolare pp. 85 ss.), in cui l’autore enuclea alcuni caratteri essenziali del simposio greco in una carrellata che prende le mosse dai testi omerici. Una quarta strada che porta all’incrocio è quella relativa ai Cimbri. Posidonio conobbe i Cimbri, ma non percepì le sostanziali differenze che separavano questi dalle altre popolazioni celtiche. Aggiungiamo che in questa confusione poté avere un ruolo lo scarso interesse degli antichi per le lingue e quindi l’impossibilità a trarre dalla testimonianza linguistica elementi di classificazione da associare ad altri fatti connessi con le diverse abitudini e organizzazione sociale. Nella parte introduttiva dell’opera l’autore esamina sia le fonti antiche (e in particolare pre-ellenistiche) che forniscono qualche testimonianza sui Celti sia le fonti di età imperiale nelle quali si rinvengono tracce più o meno esplicite dei Celtica di Posidonio (in particolare Strabone, Plutarco, Ateneo, Diogene Laerzio e altri) sia l’uso che ne è stato fatto da parte di storici e di studiosi moderni. L’autore studia la società celtica soprattutto attraverso il filtro di Posidonio: ciò non toglie che dal libro emerga spesso una rappresentazione di grande interesse per una cultura verso la quale gli antichi percepirono un certo fascino. Le pagine sul druidismo (pp. 305 e ss.) mostrano come il pensiero e lo status sociale dei druidi costituissero elementi di rilevante interesse: Diogene Laerzio all’inizio della sua opera colloca anche i druidi tra i possibili “inventori” della filosofia. Nel contempo mostrano come l’affronto della materia da parte del Martin sia originale, raffrontando per esempio le sue pagine con quelle del libro di Zecchini (I druidi e l’opposizione celtica a Roma), che esamina piuttosto le implicanze socio-politiche della cultura druidica rispetto a quella romana. Questo fascino che gli antichi provano per la cultura celtica potrebbe nascere dalla percezione nel druidismo di una cultura che è sicuramente diversa da quella greca (o greco-romana) e che rievoca, anche nel suo tramandarsi oralmente e in cerchie ristrette, elementi di grande arcaicità e anche un po’ avvolti in un alone misterioso. Si tratta di una percezione tutt’altro che infondata. Gli studi linguistici del XX secolo hanno messo in luce con assoluta chiarezza le connessioni esistenti fra cultura celtica e cultura indiana, come aree laterali e conservative del mondo indeuropee: come anello intermedio si colloca la cultura di Roma arcaica, i cui legami col mondo celtico da una parte e col mondo indiano dall’altro sono stati rilevati da una serie poderosa di studi linguistici e storici del secolo scorso (basti il nome del re, rēx in latino, rīg- in celtico e rājan- in indiano, che nessun’altra lingua indeuropea ha conservato). Il punto nodale del libro di Martin è centrato sugli interessi etnografici degli antichi, e di Posidonio in particolare. Ciò renderebbe auspicabile in futuro (e formuliamo questa osservazione non come rilievo, ma soprattutto come augurio per l’apprezzato studioso) un approfondimento delle tematiche trattate in questo libro per allargare l’orizzonte della ricerca ad altri aspetti della cultura celtica, facendo ricorso anche a dati estranei agli autori classici (la linguistica, per esempio, alla quale non si ha nessun rimando nell’ampia bibliografia finale, o la toponomastica).La lettura di questo volume non è destinato solamente agli specialisti stricto sensu: il linguaggio è sempre accessibile e la lettura del testo, pur nella trama complessa di riferimenti a testi e fonti antiche, è gradevole (il che, ci sia concesso di dirlo, è un grande merito che ci sembra giusto sottolineare, nel panorama di testi scritti spesso in linguaggio esoterico e inaccessibile che sempre più spesso provengono dal mondo universitario). L’opera si presta anche a una utilizzazione didattica nelle classi liceali, dove potrebbe stimolare l’interesse di docenti e discenti a condurli anche a vedere nel mondo antico un crogiolo di culture differenti che interagiscono fra di loro e nel contempo a precisare meglio contorni e peculiarità del mondo classico rispetto ad altre modalità di organizzazione sociale e culturale sia antiche sia moderne.