Home Recensione libri Mary Beard-John Henderson, Classics. A Very Short Introduction

Mary Beard-John Henderson, Classics. A Very Short Introduction

by Mariapina Dragonetti

Oxford University Press, 1995

a cura della Redazione


Un volumetto agile e di piacevole lettura (il testo vero e proprio è contenuto in appena 120 pagine: a queste si devono aggiungere la bibliografia, l’indice, alcune mappe e tavole), scritto in un linguaggio piano e facilmente accessibile, che si propone di mostrare al grande pubblico il significato e il valore della parola Classics (il termine è usato sia nel significato generale di ‘mondo classico’ sia in quello specifico di ‘insegnamento e apprendimento – soprattutto universitario – delle discipline inerenti il mondo classico): che cosa hanno ancora da dirci i classici a distanza di millenni, quali legame ci mantiene ancora uniti ad essi, dove risiede la loro importanza?

Lo spunto del libro è fornito da un esempio concreto. I lettori sono guidati in un’immaginaria visita al British Museum, e in particolare ci si sofferma alla stanza 6, dove si possono ammirare alcuni resti del tempio di Basse in Arcadia, e più precisamente dei bassorilievi che raffigurano combattimenti coi Centauri e con le Amazzoni. La visione di queste opere fa nascere immediatamente delle domande. La prima che viene naturale alla mente del visitatore è di chiedersi perché parti smembrate di un tempio greco si trovino in un museo inglese. Questi oggetti, ci ricordano gli autori, vennero rinvenuti all’inizio del secolo scorso da un gruppo di esploratori di nazionalità inglese, tedesca e danese, che dovette superare non poche difficoltà e pericoli, in un momento in cui l’Europa si trovava nel mezzo delle guerre napoleoniche e la Grecia era sotto il dominio dell’impero ottomano, le comunicazioni erano difficili, gli spostamenti faticosi e rischiosi, e Basse in particolare si trovava in una terra difficilmente accessibile e per di più in una zona infestata dalla malaria. La collocazione originaria dei bassorilievi non era in un museo, bensì in un tempio, ed essi non costitutivano tanto delle opere d’arte, quanto degli oggetti di culto, che dovevano richiamare delle vicende di storia religiosa ai devoti visitatori di un santuario.

Con la parola Classics noi affermiamo una distanza che intercorre fra noi e il mondo greco-romano, e nello stesso tempo una speciale relazione che ci lega a questo mondo (tanto nella lingua quanto nell’arte, nella letteratura e nel pensiero). Lo scopo delle nostre discipline non è soltanto quello di “scoprire” oggetti od opere d’arte dell’antichità, quanto di aprire un dibattito e definire la natura del nostro legame con le culture antiche. Si tratta di un “complesso e interattivo processo di lettura, comprensione e dibattito” che si pone come scopo di capire il posto che i classici hanno all’interno del nostro orizzonte culturale e della nostra storia.
La stessa scoperta del tempio di Basse è il risultato di una complessa vicenda di “esplorazione, buona fortuna, amicizia, coincidenze, diplomazia internazionale, commercio e delitto” (pag. 9). Al tempo in cui venne condotte le prime ricerche attorno a questo tempio, lo studio dei classici era appannaggio dei nobili, che avevano mezzi e tempo per coltivare i loro interessi: i classicisti erano (e in parte sono ancora) esploratori. Ma il viaggio a Basse non aveva un fine puramente contemplativo: per l’architetto Cockerell, che faceva parte della spedizione che nel 1811 raggiunse la località, uno degli scopi della sua missione era quello di verificare se e quanto le tecniche messe in opera da chi aveva progettato e costruito il tempio di Basse collimavano con le indicazioni contenute nell’opera di Vitruvio: il gruppo di esploratori che lo seguiva era dunque mosso da una precisa volontà di verificare dal vivo le competenze tecniche degli antichi. Oggi il tempio di Basse è visitato ogni estate da decine di turisti, il cui atteggiamento è profondamente diverso da quello dei primi esploratori. Già questo pone una domanda delicata: quanto è cambiato nel corso dei secoli il nostro modo di accostarsi alle opere degli antichi? E in che senso le opere degli antichi, nonostante questo cambiamento, sono ancora in grado di dire qualcosa di nuovo e adatto a noi a distanza di due millenni e oltre? La nostra considerazione del classico è inevitabilmente influenzata da duemila anni di tradizione, e si rinnova continuamente attraverso i secoli e le generazioni, col perenne mutare dei gusti e della cultura. Il classico è definito dalla nostra esperienza e dai nostri interessi (pag. 31).

Noi siamo tutti classicisti, in quanto pensiamo di sapere molto (o poco) dei Greci e dei Romani (pag. 28). Non c’è altra cultura che faccia altrettanto parte della nostra storia: anche se siamo disponibili ad ammettere che la cultura classica fu a sua volta influenzata da altre culture (africane o semitiche) e che nel bagaglio culturale degli antichi erano presenti sentimenti e valori che a noi oggi sembrano inaccettabili, noi non potremmo mai percepire i classici come degli estranei: ed è proprio la centralità dei classici nella nostra visione culturale che lega indissolubilmente la civiltà occidentale.

A partire da queste considerazioni, esposte in forma semplice e convincente, gli autori offrono al lettore una veloce panoramica dei problemi che lo studioso delle culture antiche affronta nella sua ricerca, del metodo con cui deve procedere nell’indagine e degli strumenti che ha a disposizione: per esempio spiegano in poche parole che cos’è un’edizione critica, come funziona la metrica antica rispetto alla nostra, che importanza è stata attribuita nella nostra epoca allo studio della storia antica (e come in talune circostannze storiche questo sia stato anche strumentalizzato). In conclusione il libro offre, in modo succinto ma piacevole, e completo pur nei limiti imposti, una guida attraverso un itinerario suggestivo e ricco di informazioni, tenendo sempre presente, e anzi collocando in primo piano, la domanda basilare e imprescindibile del nostro studio, quella riguardante la motivazione stessa dello studio dell’antico in un’epoca che sembrerebbe così lontana, per interessi e per risorse tecnologiche, dal mondo dei Greci e dei Romani: a questa domanda gli autori tentano sempre, man mano che si dipana il corso della loro esposizione, di dare risposte ragionevoli e persuasive.

Interlocutore del libro non è innanzitutto lo specialista, bensì il lettore non privo di cultura, che prova interesse e curiosità di fronte a un’opera d’arte (aggiungeremmo, di fronte a un’opera d’arte che proviene da un’epoca e da un mondo lontano, e che nonostante questo ci sembra così immediatamente familiare): si tratta di un’opera di divulgazione precisa e informata, secondo una lodevole ed efficace tradizione del mondo culturale britannico (e spiace osservare che un certo atteggiamento di specializzazione spinta all’eccesso o un sentimento di superiorità e di sostanziale disinteresse molto diffuso nel mondo accademico italiano impedisca che opere analoghe appaiano anche da noi). Benché decisamente orientato verso il lettore inglese, il libro offre sicuramente occasione di ripensamento e di discussione anche all’insegnante italiano e si presta molto bene anche al lavoro didattico. Ci auguriamo di poterne vedere presto una traduzione italiana.