[1] «biduum irae datum est»(Curt. Ruf. IX 3, 19).
[2] Arriano, Anabasis VI 1, 4.
[3] Plutarco, Alex. 65.
[4] P.es. Plutarco, Alex. 64; Hist. Alex. Magni, rec. A, I 3, 5.
[5] Strabo XV 1, 65.
[6] Il nome di Alessandro non viene ricordato in India in nessuna fonte antica; solamente in fonti tarde e medievali se ne trova traccia. I tentativi di trovarne qualche traccia (cfr. Weber, pp. 6 ss) sono in genere poco persuasivi.
[7] Nella grande iscrizione di Behistun (l. 16), e anche altrove, facendo l’elenco delle sue province, Dario nomina anche il Gandhāra (la zona nella valle del Cophen, un affluente dell’Indo), insieme all’Aracosia (odierna regione di Kandahār nell’Afghanistan) e ad altre satrapie collocate all’estremo oriente del suo impero. Il possesso della valle del Cophen ha un’importanza strategica, perché permette anche il controllo dell’alta valle dell’Indo. Abbiamo anche notizia di una visita al fatta da Dario nella primavera del 515 a Taxila, che si trovava ad Est dell’Indo, in territorio quindi che non è più Persia, bensì India.
[8] Per le fonti greco-romane sull’India precedenti il periodo di Alessandro cfr. Renou-Filliozat, vol. I, pp. 144 ss.
[9] Anabasis V 1, 2; cfr. anche ps.-Apoll. III 2 (ma il breve passaggio che accenna alla spedizione di Dioniso in India è da ritenere interpolato) e Tzetzes, Chiliades VIII 582 ss.
[10] Anabasis V 1, 6.
[11] «nec non et Nysam urbem plerique Indiae adscribunt montemque Merum, Libero Patri sacrum, unde origo fabulae, Iovis femine editum» (Plin., Nat. Hist. VI 79).
[12] Plut., De sera numinis vindicta 557 B. Sulla vicenda dei Branchidi cfr. anche Strabone XIV 1, 5; Curt. Ruf. VII 5, 28 ss., ecc..
[13] «nullo Macedonum dignante» (Giustino 41, 4, 1).
[14] Diodoro Siculo, XVIII 39, 6. Staganore è il nome del personaggio secondo Giustino (loc. cit.).
[15] Candragupta significa propriamente “luna velata” (candra– ‘luna’, corradicale del lat. candēre e candidus, e gupta-, participio passato passivo di gup– ‘nascondere, celare’). Nel dramma di Viśakhadatta in più occasioni si hanno giochi di parole e allusioni al significato del nome del sovrano.
[16] Yavana è il nome con cui sono chiamati in India i Greci. Si tratta della trascrizione indiana di *iāones, iāwones. Anche in altre lingue orientali (armeno, ebraico, p.es.) il nome degli Ioni è divenuto il nome per antonomasia di tutti i Greci, sia per il maggior prestigio culturale degli Ioni rispetto alle altre stirpi greche sia perché le colonie ioniche d’Asia minore erano le più facilmente accessibili per le popolazioni stanziate a oriente. Il nome yavana è attestato per la prima volta nell’opera del grammatico Pāṇini (IV-III sec. a.C.), che accenna alla yavanānī lipi, la scrittura greca (IV 1, 49).
[17] Potrà sembrare strano, agli specialisti di mondo classico, che ci siano oscillazioni così forti nelle indicazioni delle date di una dramma. La realtà è che la tradizione indiana non ha un concetto di storia equivalente a quello che si è venuto formando nel mondo greco, e quindi l’indicazione delle date, sia degli avvenimenti storici sia (soprattutto) degli avvenimenti collegati con fatti letterari (vita degli autori, date delle composizioni) manca in modo pressoché totale: per datare un’opera letteraria o la vita di un autore si deve ricorrere a termini ante e post quem collegati a fatti esterni al mondo indiano (invasioni, ecc.): quando questi mancano, si deve ricorrere a congetture basate su fattori stilistici o simili, che portano spesso a conclusioni vaghe e puramente indicative.
[18] Le ragazze avvelenatrici sono prostitute che, secondo una credenza indiana, hanno imbevuto il corpo di potenti veleni (rispetto ai quali sono mitridatizzate) e li trasmettono ai loro amanti attraverso il rapporto sessuale.
[19] La tradizione indiana ha grande considerazione per la politica, in quanto parte dell’artha (la ricerca del benessere, che costituisce, insieme col kāma ‘il piacere’ e il dharma ‘il rispetto della legge morale’, uno dei tre scopi [trivarga]dell’uomo indiano, scopi da realizzare ciascuno senza pregiudizio degli altri due e in epoche diverse dell’esistenza). Un importante trattato di politica, l’Arthaśāstra, ci è giunto sotto il nome di Kauṭilya (altro nome del Caṇakya protagonista del nostro dramma), ma si tratta di opera redatta in epoca sicuramente posteriore a quella in cui è vissuto questo personaggio (circa IV sec. d.C.); alle arti della politica sono dedicati molti testi della tradizione favolistica (a partire dal Pañcatantra)e vari passaggi in opere della tradizione epica, quali il Mahābhārata.
[20] Del dramma esiste un’ottima traduzione italiana di M. Vallauri, che si può leggere nel volume (da lui curato) Teatro indiano.
[21] Vita Alexandri 62.
[22] Gli śūdra costituivano la casta più bassa della popolazione indiana: erano probabilmente discendenti delle popolazioni indigene incontrate e sottomesse dagli Ari quando erano giunti nel subcontinente indiano da Nord-Ovest e avevano esteso il loro dominio man mano verso sud. Le altre tre caste erano costituite dai brāhmaṇa– (la casta sacerdotale), dagli kṣatriya– (la casta guerriera, dal cui seno aveva normalmente origine il re) e dai vaiśya– (la ‘gente del villaggio’, i ‘borghesi’). Come si vede, le tre caste (in sanscrito varṇa– ‘colore’)corrispondono alle tre funzioni di Dumézil. In séguito, anche come conseguenza dei numerosi matrimoni intercastali e di un’accentuata specializzazione in base al mestiere esercitato, l’organizzazione castale divenne più complessa e regolata da norme sempre più meticolose.
[23] “Humili genere natus” è definito da Giustino XV 4, 15.
[24] «Sic adquisito regno Sandrocottus ea tempestate, qua Seleucus futurae magnitudinis fundamenta iaciebat, Indiam possidebat, cum quo facta pactione Seleucus conpositisque in Oriente rebus in bellum Antigoni descendit» (Iust. XV 4, 20 s.).
[25] Strab. XV 2, 9: «Gli Indiani occupano parte delle terre oltre l’Indo che precedentemente appartenenvano ai Persiani: Alessandro le aveva sottratte agli Arii e vi aveva posto delle colonie. Ma Seleuco Nicatore le diede a Sandrocotto, stabilendo un trattato matrimoniale e ricevendone cinquecento elefanti» (τούτων δ’ ἐκ μέρους τῶν παρὰ τὸν Ἰνδὸν ἔχουσί τινα Ἰνδοὶ πρότερον ὄντα Περσῶν, ἃ ἀφείλετο μὲν ὁ Ἀλέξανδρος τῶν Ἀριανῶν καὶ κατοικίας ἰδίας συνεστήσατο, ἔδωκε δὲ Σέλευκος ὁ Νικάτωρ Σανδροκόττῳ, συνθέμενος ἐπιγαμίαν καὶ ἀντιλαβὼν ἐλέφαντας πεντακοσίους).
[26] Tra cui alcuni potenti afrodisiaci precedentemente ignoti ai Greci, secondo Ateneo, Deipnos. I 32.
[27] «(Arsaces) cum filio eius, et ipso Theodoto, foedus ac pacem fecit, nec multo post cum Seleuco rege ad defectores persequendos veniente congressus victor fuit; quem diem Parthi exinde sollemnem velut initium libertatis observant» (Iustin. XLI 9 s.).
[28] Pag. 13.
[29] Il nome del sovrano significa letteralmente ‘senza dolore’ (da a– prefisso negativo e śoka ‘dolore’).
[30] Aśokāvadāna significa propr. ‘narrazione di Aśoka’.Si tratta di un testo del II secolo il cui valore storico effettivo è molto discutibile e discusso. Altre fonti che descrivono la vita di Aśoka sono il Divyāvadāna (“Narrazione divina”), e un testo singalese, il Mahāvaṃsa (“Grande cronaca”).
[31] PaĘaliputra è la capitale del regno di Aśoka.
[32] E’ il nome del continente del mondo terrestre.
[33] Aśokāvadāna 1.
[34] Mahāvaĕsa, 12. Dhammarakkhita ovviamente non è nome greco: il personaggio insieme con la conversione al buddhismo ha assunto un nome nuovo che indicava in modo trasparente la sua scelta religiosa (dhammarakkhita ‘fide protectus’ da dhamma e rakkhita ‘difeso, protetto’).
[35] Il dhammacakka (sanscrito dharmacakra, da dharma ‘legge morale e religiosa’ e cakra ‘ruota’) è un comune simbolo buddhista costituito da una ruota di carro con otto raggi, rappresentanti appunto le otto vie della legge.
[36] La parola designa i monaci vaganti del buddhismo, ma anche gli asceti jaina o brahmanici. Aind. śramaṇa-, pracrito samaṇa, deriva da śrama– ‘fatica, sforzo, mortificazione fisica’, a sua volta dal verbo śram– ‘stancarsi o essere stanco’; la parola è passata al tocario ṣāmaṃ, che, attraverso il tunguso šaman, è stata ripresa dal russo šaman,da cui la parola it. sciamano (e suoi corrispondenti nelle varie lingue europee).
[37] (προέστησαν δὲ …) Ἰνδῶν τε οἱ γυμνοσοφισταί, ἄλλοι γε φιλόσοφοι βάρβαροι. διττὸν δὲ τούτων τὸ γένος, οἳ μὲν Σαρμᾶναι αὐτῶν, οἳ δὲ Βραχμᾶναι καλούμενοι. καὶ τῶν Σαρμανῶν οἱ ὑλόβιοι προσαγορευόμενοι οὔτε πόλεις οἰκοῦσιν οὔτε στέγας ἔχουσιν, δένδρων δὲ ἀμφιέννυνται φλοιοῖς καὶ ἀκρόδρυα σιτοῦνται καὶ ὕδωρ ταῖς χερσὶ πίνουσιν, οὐ γάμον, οὐ παιδοποιίαν ἴσασιν, ὥσπερ οἱ νῦν Ἐγκρατηταὶ καλούμενοι. εἰσὶ δὲ τῶν Ἰνδῶν οἱ τοῖς Βούττα πειθόμενοι παραγγέλμασιν. ὃν δι’ ὑπερβολὴν σεμνότητος ὡς θεὸν τετιμήκασι. (Clemente, Stromata, I 15, 72).
[38] E con qualche incertezza: ad esempio la distinzione tra i brāhmaṇa (Βραχμᾶνες) e i Γαρμᾶνες (sic!) è descritta in modo meno nitido, con la premessa che i contenuti delle dottrine delle due scuole differiscono poco tra di loro.
[39] Megastene (ca. 350-290), nativo della Ionia, amico di Alessandro e diplomatico al servizio prima del re Macedone poi dei Seleucidi, intrattenne rapporti con Candragupta, fu più volte in India e acquisì una conoscenza di prima mano della cultura indiana, che riassunse poi nei quattro libri di Indica, utilizzati come fonte da Strabone e da Arriano. L’edizione dei FHG di Müller riporta una quarantina di frammenti di questa opera perduta.
[40] Cfr. W.W. Tarn, p. 100. Contra, Sircar, p. 64.
[41] È l’ipotesi di Ranajit Pal, op. cit. È comunque singolare che Diodoto abbia prodotto un’abbondante monetazione, ma non si abbia di lui nessuna iscrizione, mentre Aśoka ci ha lasciato numerose iscrizioni, ma nessuna moneta.
[42] ὑπερβαλὼν δὲ τὸν Καύκασον καὶ κατάρας εἰς τὴν Ἰνδικήν, τήν τε φιλίαν ἀνενεώσατο τὴν πρὸς τὸν Σοφαγασῆνον τὸν βασιλέα τῶν Ἰνδῶν, καὶ λαβὼν ἐλέφαντας, ὥστε γενέσθαι τοὺς ἅπαντας εἰς ἑκατὸν καὶ πεντήκοντ’, ἔτι δὲ σιτομετρήσας πάλιν ἐνταῦθα τὴν δύναμιν, αὐτὸς μὲν ἀνέζευξε μετὰ τῆς στρατιᾶς, Ἀνδροσθένην δὲ τὸν Κυζικηνὸν ἐπὶ τῆς ἀνακομιδῆς ἀπέλιπε τῆς γάζης τῆς ὁμολογηθείσης αὐτῷ παρὰ τοῦ βασιλέως. Διελθὼν δὲ τὴν Ἀραχωσίαν καὶ περαιωθεὶς τὸν Ἐρύμανθον ποταμόν, ἧκε διὰ τῆς Δραγγηνῆς εἰς τὴν Καρμανίαν, οὗ καὶ συνάπτοντος ἤδη τοῦ χειμῶνος ἐποιήσατο τὴν παραχειμασίαν. (Polyb. XI 34, 11-13).
[43] Secondo una tradizione raccolta nell’Aśokavadāna, Puṣyamitra intendeva distruggere lo stesso numero di santuari che Aśoka aveva edificati (ottantaquattromila), ma gli fu impedito di portare a termine questo empio progetto da parte di due yakkha (sansc. yakėa,spiriti benevoli che abitano nella profondità della terra): in questi yakkha si potrebbe anche vedere la rappresentazione di Apollodoto e Menandro I.
[44] Notiamo per incidens che quella di Puėyamitra è la prima celebrazione di questo tipo di sacrificio di cui si abbia notizia in epoca storica.
[45] Soprattutto Strabone e Giustino. Completamente perdute le opere di storici ellenistici che si erano occupati di queste vicende (qualcosa delle loro narrazioni è sopravissuto nel già citato Strabone e nelle poche allusioni di autori classici e cristiani ai re indo-greci), anche le opere dell’età successiva si presentano lacunose: ad esempio, del XLI libro di Pompeo Trogo, che esplicitamente era dedicato alle vicende di Apollodoto e Menandro, non resta che il titolo.
[46] In realtà sono state proposte date che vanno dal I sec. a.C. al III-IV sec. d.C.
[47] Questo testo, che costituisce l’ultimo capitolo (113) di un’inedita opera astrologica intitolata Vṛddhagārgasaĕhitā, si inserisce nella tradizione letteraria dei Purāṇa, testi della tradizione post-vedica destinati alla narrazione delle età del mondo. Si tratta in realtà di una storia, sia pure narrata in forma particolare, dell’impero Magadha. Sui gravi problemi di natura testuale e interpretativa posti dal testo rinviamo per più ampie informazioni a Narain, pp. 174 ss., Tarn, pp. 452-456, e soprattutto a L. Rocher, pp. 253 s. Il testo che ci è pervenuto è talmente corrotto che è stata proposta l’ipotesi che si tratti della redazione sanscrita di un’opera scritta originariamente in pracrito o in una lingua ibrida sanscrito-pracrita.
[48] ταῦτ’οὖν ἐγένετο γνώριμα ἡμῖν τῶν ἑωθινῶν τῆς Ἰνδικῆς μερῶν, ὅσα ἐντὸς τοῦ Ὑπάνιος, καὶ εἴ τινα προσιστόρησαν οἱ μετ’ ἐκεῖνον περαιτέρω τοῦ Ὑπάνιος προελθόντες μέχρι τοῦ Γάγγου καὶ Παλιβόθρων («queste notizie riguardanti le parti orientali dell’India, al di là del fiume Ipani, divennero note, quando scrissero qualche rendiconto coloro che si erano spinti oltre l’Ipani fino al Gange e a Palimbroto»). Cfr. anche Strabone XI 11, 1, che, facendo riferimento ai perduti Parthica di Apollodoro Artemisio (FHG fr. 5), nomina esplicitamente le imprese di Apollodoto e di Menandro in India.
[49] Y-P 47 s. («Gli Yavana comanderanno»). La notizia dell’occupazione di Sāketa e di Mathurā ha riscontro anche in altre opere indiane (p.es. in accenni di Patañjali e di Kālidāsa). Il grammatico Patañjali, che fu contemporaneo agli avvenimenti, essendo vissuto attorno alla metà del II sec. a.C., nel suo Mahābhāėya (ad Pāṇ. 3, 2, 111: ed. Kielhorn II, p. 118) utilizza le frasi yavano ’ruṇat Sāketaṃ (“Il [principe] greco assediava Sāketa”) e yavano ’ruṇan Mādhyamikāṃ (“Il [principe] greco assediava la Terra di centro”) come esempi dell’uso sanscrito dell’imperfetto (aruṇad) per indicare un’azione che si è svolta da poco tempo. Kālidāsa nel V atto del dramma Mālavikāgnimitra ricorda un combattimento sulle rive del Sindhu, nel quale le forze dei Greci vennero debellate dall’esercito di Puėyamitra. L’episodio si sarebbe verificato proprio mentre stava transitando il cavallo che era stato scelto per l’aśvamedha. Su tutto ciò cfr. anche Weber, p. 12; Narain, p. 82 e ss.; Tarn, pp. 145 ss.
[50] Y-P 55. Ind. ārya ‘signore, uomo degno di rispetto’ è un modo formale di rivolgersi a persone di riguardo o di casta superiore, bho è un modo meno formale di salutarsi tra persone di basso rango. Con ari si intendono gli appartenenti alle tre caste superiori, con esclusione quindi dei śudra.
[51] Così risulta anche dalla documentazione epigrafica locale (nell’iscriz. di Hatigumpha, fatta redigere nel 157 dal re Kharavela di Kalinga, nella parte orientale dell’India, si afferma che questo re obbligò le armate di Demetrio, demoralizzate e prive di trasporti, a ritirarsi a Mathurā: l’iscrizione di Hatigumpha è pubblicata nel vol. XX [1929-30] di Epigraphia Indica).
[52] Y-P 56 s.: «Gli Yavana, infatuati della guerra, non resteranno nel Madhyadeśa. Ci sarà un accordo tra loro per andarsene, a causa dello scoppio di una terribile e terrificante guerra nel loro reame».
[53] «Multa tamen Eucratides bella magna virtute gessit, quibus adtritus cum obsidionem Demetrii, regis Indorum, pateretur, cum CCC militibus LX milia hostium adsiduis eruptionibus vicit. Quinto itaque mense liberatus Indiam in potestatem redegit.» (Iustin. XLI 6, 4).
[54] Tarn, p. 143; Renou-Filliozat, vol. I, p. 225.
[55] «Unde cum se reciperet, a filio, quem socium regni fecerat, in itinere interficitur, qui non dissimulato parricidio, velut hostem, non patrem interfecisset, et per sanguinem eius currum egit et corpus abici insepultum iussit» (Iustin. XLI 6, 5).
[56] Pali Sāgala, sanscrito Sākala, la Σάγαλα ἡ καὶ Εὐθυδημία di Tolomeo (Geogr. VII 1, 46) è forse l’odierna Sialkot, in Pakistan.
[57] Cfr. anche Tarn, pp. 268 e ss.
[58] Milinda è una delle forme assunta in India dal nome di Menandro (sulle monete si legge Menadra) i pañha è la forma pāli della parola che in sanscrito appare come praśna-‘domanda’ (formata da una produttiva radice indeuropea che si ritrova nel lat. poscere e nel ted. forschen ‘cercare’).
[59] Praecepta gerendae reipublicae, 821 D: «Quando un certo Menandro, che aveva governato con benevolenza in Battria, morì in un accampamento, le città celebrarono tutte insieme il resto del funerale, poi venute in contrasto per i suoi resti a stento si accordarono che si distribuissero una parte uguale delle sue ceneri e diventassero per tutti un monumento di quell’uomo» (Μενάνδρου δέ τινος ἐν Βάκτροις ἐπιεικῶς βασιλεύσαντος εἶτ’ ἀποθανόντος ἐπὶ στρατοπέδου, τὴν μὲν ἄλλην ἐποιήσαντο κηδείαν κατὰ τὸ κοινὸν αἱ πόλεις, περὶ δὲ τῶν λειψάνων αὐτοῦ καταστάντες εἰς ἀγῶνα μόλις συνέβησαν, ὥστε νειμάμενοι μέρος ἴσον τῆς τέφρας ἀπελθεῖν, καὶ γενέσθαι μνημεῖα παρὰ πᾶσι τοῦ ἀνδρός).
[60] Yona è la forma pāli di sanscrito yavana (aind. ava > pracrito o).
[61] Mahāvaĕsa 29.
[62] I piĘaka (‘canestri’) costituiscono il canone dei libri sacri (in lingua pāli) del buddhismo. Il Milindapañha gode di notevole prestigio presso i Theravādin, la scuola buddhista che si attenne in modo rigoroso all’insegnamento del Buddha (Theravāda ‘insegnamento [vāda] degli anziani [thera, sanscrito sthavira ‘stabile, solido, vigoroso’), del quale si ritengono i fedeli garanti.
[63] Cfr. Weber, p. 12; Winternitz, v. II, p. 141; Tarn., pp. 414 ss., Boccali-Piano-Sani, pp. 99 s., e Falà, Introduzione all’ediz. italiana citata.
[64] In realtà anche per il primo libro si sospetta che alcune parti siano frutto di aggiunte posteriori.
[65] Si tratta dell’opera in cui è riportato il dialogo tra il sovrano ellenistico Tolomeo II Filadelfo (283-146) e i settantadue sapienti giudei che avrebbero tradotto in greco l’Antico Testamento.
[66] Così W.W. Tarn, pp. 414-436.
[67] Cfr. Renou-Filliozat, vol. II, p. 352 per ulteriori informazioni sull’argomento.
[68] Da Milindapañha. Le domande del re Milinda, a cura di M. A. Falà, Roma, Ubaldini, 1982.
[69] Sulle fonti cinesi cfr. Tarn, pp. 513 e s.
[70] Narain, op. cit., pag. 103.
[71] Renou-Filliozat, vol. I, p. 227.
[72] Alle opere finora citatesi aggiunga la dettagliata monografia di Osmund Bopearachchi(v. Bibliografia).
[73] Tarn, pp. 353-4.
[74] Barygaza è l’odierna Bharuch, importante porto nello stato di Gujarat, India occidentale.
[75] ἀφ’οὗ μέχρι νῦν ἐν Βαρυγάζοις παλαιαὶ προχωροῦσι δραχμαὶ, γράμμασιν Ἑλληνικοῖς ἐγκεχαραγμέναι ἐπίσημα τῶν μετ’ Ἀλέξανδρον βεβασιλευκότων Ἀπολλοδότου καὶ Μενάνδρου.
[76] Su tutto questo argomento cfr. Tarn, pp. 353.
[77] Weber, pp. 12 ss.
[78] «kesarī nāma saṃgramaę» (‘disposizione di nome “cesariana”’) nell’Avadānaśataka (‘Centuria di fatti’), uno scritto di scuola buddhista che narra fatti delle vita del Buddha e di Aśoka. Cfr. anche Weber, p. 13.
[79] Tarn, pag. 391.
[80] Per la precisione, il testo (in lingua gāndhārī e scrittura kharoṣṭhī) è il seguente: Theudorena meridarkhena pratithavida ime sarira sakamunisa bhagavato bahujanastitiye.
[81] Il testo delle due iscrizioni della colonna (generalmente molto chiaro, solamente un paio di punti dànno adito a piccoli problemi di lettura e di interpretazione) è il seguente: «(I) Questo pilastro con Garuḍa dedicato a Vāsudeva dio tra gli dèi fu eretto da Eliodoro, un bhāgavata, figlio di Dione, di Taxila, giunto da parte del grande re greco Antalcida come ambasciatore dal re Kosiputra Bhāgabhadra il saggio nel quattordicesimo anno del suo prospero regno. (II) Tre immortali precetti se ben applicati portano al cielo: temperanza, carità, coscienza».
[82] È una delle divinità minori dell’induismo, un’aquila con piume d’oro proprietà di Viėṇu.
[83] Per un greco «la conversione all’Induismo era difficile a causa del rapporto reciproco tra la religione e il sistema castale. Un gruppo numeroso di non indù poteva essere gradualmente assimilato soltanto diventando una sotto-casta, mentre la conversione di un singolo creava il problema di fornirlo di una casta appropriata, poiché quella dipendeva dalla nascita. Era quindi più semplice per dei greci diventare buddhisti, come molti fecero. Poiché il buddhismo a quell’epoca era in fase ascendente, il suo prestigio rese l’inserimento dei nuovi convertiti molto più facile.» (Falà, pag. 11, n. 6).
[84] Weber, p. 35.
[85] La cosiddetta Chiesa di Malabar o di Kerala (sulle coste nord-occidentali dell’India) o siro-malabarica (perché il siriaco è una delle lingue liturgiche) conta oggi quattro milioni di fedeli. La storia delle comunità cristiane presenti fin da epoca molto antica sulla costa occidentale dell’India è molto complessa. La Chiesa di Malabar è una comunità cristiana che per secoli è vissuta isolata, prima della riscoperta portoghese del XVI sec.
[86] Probabilmente corruzione di un nome antico-iranico Vindafarna ‘acquista gloria’, da cui gr. υνδαφερρησ; secondo alcuni il nome sarebbe stato ripreso dalle lingue occidentali attraverso l’ulteriore corruzione armena Gaspart, da cui il nome di Gaspare (uno dei magi)!
[87] Precisamente: «Io Gesù figlio di Giuseppe il falegname concedo di acquistare il mio servo di nome Giuda a te Abbane inviato da Gundaforo re degli Indiani» (Act. Thom. 2).
[88] Attorno a questa statua (che in realtà è una statua di giada, e non di smeraldo, dell’altezza di cm. 75 e della larghezza di cm. 45) circolano racconti leggendari: dopo essere rimasta per tre secoli nella sua sede originaria dove era stata creata, la statua venne inviata a Ceylon per proteggerla da una guerra civile; alcuni secoli dopo un re straniero (birmano) chiese agli abitanti dell’isola la consegna dei libri canonici e di questa statua per potere diffondere il buddhismo nel suo paese. La nave che trasportava la statua perse la rotta e approdò in Cambogia; da qui la statua subì complicate e non sempre chiare peripezie, fino a giungere alla sua attuale sistemazione nella Cappella del Buddha di smeraldo, nei sotterranei del Palazzo Reale di Bangkok.
[89] Pag. 66.
[90] P. 135.
[91] Cfr. anche Weber, pp. 16 ss.
[92] Pisani, pag. 68.
[93] Pisani, p. 68.
[94] Aind. śruti– è una derivazione (col suffisso –ti formatore di nomi d’azione) dal verbo śru– ‘udire, ascoltare’ (gr. ἔ-κλυον ‘ascoltai’, lat. cluēns), quindi ‘il complesso di ciò che è stato udito’, e si oppone a smṛti-, che è la ‘tradizione’ (radice verbale smṛ– ‘ricordare’, la stessa che ritroviamo nel gr. μέρος ‘parte’, μοῖρα ‘destino’, ecc.).
[95] Sanscrito significa propriamente ‘perfetto’ (da sam– ‘insieme’ + kṛta-, participio passato passivo di kṛ– ‘fare’: quindi qualcosa come ‘confectus, pienamente realizzato’).
[96] Cfr. Weber, pp. 11 s.
[97] «Dicono che anche presso gli Indiani fosse cantata la poesia di Omero, avendola essi tradotta nella loro lingua: cosicché anche gli Indiani non sono in grado di vedere molte delle stelle che vediamo noi – dicono infatti che le Orse non si vedano nelle loro terre –, ma delle sofferenze di Priamo e dei lamenti e dei dolori di Andromaca e di Ecuba e del valore di Achille e di Ettore non sono inesperti: tale forza ha l’arte di un uomo!» (ὁπότε καὶ παρ’ Ἰνδοῖς φασιν ᾄδεσθαι τὴν Ὁμήρου ποίησιν, μεταλαβόντων αὐτὴν εἰς τὴν σφετέραν διάλεκτόν τε καὶ φωνήν. ὥστε καὶ Ἰνδοὶ τῶν μὲν ἄστρων τῶν παρ’ ἡμῖν πολλῶν εἰσιν ἀθέατοι· τὰς γὰρ ἄρκτους οὔ φασι φαίνεσθαι παρ’ αὐτοῖς· τῶν δὲ Πριάμου παθημάτων καὶ τῶν Ἀνδρομάχης καὶ Ἑκάβης θρήνων καὶ ὀδυρμῶν καὶ τῆς Ἀχιλλέως τε καὶ Ἕκτορος ἀνδρείας οὐκ ἀπείρως ἔχουσιν. τοσοῦτον ἴσχυσεν ἑνὸς ἀνδρὸς μουσική, Dio Chrys., orat. 53, 8)
[98] Benché la sua opera sia andata perduta e sia difficile precisare persino la lingua in cui era scritta (presumibilmente una varietà di pracrito che ebbe scarsa diffusione e una vita breve, la paiśacī), GuṇĖhavya è un personaggio pressoché leggendario in India, e in Nepal addirittura oggetto di venerazione. Una tradizione affermava che si sarebbe trattato di un genio celeste entrato in conflitto con Śiva perché avrebbe ascoltato di nascosto i racconti che questi raccontava alla moglie Pārvatī e ridotto alla condizione di essere umano.
[99] Weber, pp. 21 ss.; Pisani, p. 107.
[100] Per usare le parole di Tarn (p. 34), i Greci d’India erano «just Greeks, with all that that implies», e (p. 382) una città greca «of any pretensions without a theater is unthinkable». Non è quindi obiezione fondata il fatto che non si siano trovate tracce di anfiteatri o notizie di rappresentazioni nelle città dell’India abitate da Greci.
[101] Vita Crassi 33.
[102] Weber, p. 24 (riprendendo O. Ludwig, Dionysische Künstler, 1873, p. 104).
[103] Weber, p. 25.
[104] Secondo Hermann Reich, I ii, p. 694, il teatro indiano si sviluppò sotto l’influsso del teatro greco, ma fu il mimo, e non la commedia nuova ellenistica, a determinarne la fioritura; cfr. anche Winternitz, vol. III, p. 175.
[105] Per un’informazione generale sulla questione si veda, oltre ai testi fin qui citati, Barriedale Keith, pp. 57 ss. (con copiosa bibliografia); in generale cfr. Winternitz, vol. III, pp. 160-180 (pp. 174 ss. sull’ipotesi dell’influsso greco).
[106] “une question irritante”: Renou-Filliozat, vol. II, p. 261.
[107] Renou-Fillozat, vol. II, p. 259. Anche Tarn (pp. 383 ss.) valuta piuttosto negativamente l’ipotesi che il teatro indiano abbia preso le mosse dal teatro greco: pur non negando l’esistenza di contatti tra teatro greco e teatro indiano, afferma che contatto non significa influenza. Indubbiamente, se è sbrigativo, a nostro parere, negare un qualunque influsso del teatro greco sullo sviluppo del dramma indiano, altrettanto semplicistico sarebbe affermare che il teatro greco ebbe un peso determinante o comunque di rilievo nello sviluppo del teatro indiano. Forze endogene ed esogene possono ben coesistere: vi sono elementi chimici che generano una reazione, ma la presenza di un catalizzatore può accelerare un processo che comunque è destinato ad avvenire. Il problema allora è quello di misurare e valutare il peso e l’importanza delle forze esogene rispetto a quelle endogene: ed è lavoro di non facile soluzione!
[108] Questo disinteresse non è soltanto della storiografia antica, se Tarn poteva scrivere nel 1950, all’inizio del suo libro che «No Greek historian has yet attempted to handle this subject as a connected whole or to put it in its right place as a lost chapter of Hellenistic history» (p. xiv).
Note + I greci in India
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