Home Uncategorized “Pace” dalla letteratura cristiana antica ad oggi

“Pace” dalla letteratura cristiana antica ad oggi

by Mariapina Dragonetti

di Moreno Morani

Per capire l’evoluzione di pāx nel latino tardo e medievale ci si deve rifare agli usi cristiani. Oltre ai valori già visti, la parola viene impiegata dai Cristiani nel senso specifico di ‘libertà dalle persecuzioni’, inoltre si diffonde l’uso dell’espressione “in pace dormire”1 (v. anche la sezione dedicata a Pace nell’AT per quanto riguarda l’origine dell’espressione medesima) per indicare il sonno della morte. In alcune iscrizioni pax viene a indicare il riposo eterno dell’anima cristiana2 e si contrappone alla cura temporale, il saeculum. Il valore molto particolare e per così dire imprevedibile di ‘bacio’ che pāx assume risulta da un’abbreviazione dell’espressione osculum pacis osculum sanctum, nome che si dava al bacio di pace e di riconciliazione che i credenti si scambiavano durante la liturgia della messa. Da qui la specializzazione della parola in questo senso molto particolare nel termine provenzale (semidotto) pais: anche al di fuori del mondo romanzo la parola è assunta con questo valore, ad es. in territorio celtico nel prestito irlandese pōc o nell’inglese moderno peace. Più a monte, l’espressione liturgica date vobis pacem (nella traduzione italiana attuale scambiatevi un segno di pace) è un calco del gr. εἰρήνην διδόναι o ποιεῖν, che a sua volta si rifà a un’espressione rabbinica. Vale la pena osservare che queste formule (fare pacemettere pace) sono divenute molto popolari anche al di fuori dell’ambito liturgico e religioso3.

La colomba col ramoscello d’olivo è divenuta nell’iconografia tradizionale la rappresentazione più frequente della pace. L’immagine qui proposta è un mosaico della Chiesa di S. Giovanni Bosco a Roma (seconda metà del sec. XX).

Non possiamo qui seguire l’evolversi della concezione di pace nel pensiero occidentale, anche perché una problematica del genere esulerebbe dai fini della nostra esposizione, orientata all’esplorazione dei contenuti semantici del termine. Ricorderemo solo che molti pensatori moderni e molti movimenti hanno richiamato al valore della pace nel corso dei secoli, dal medioevo a oggi, sia sul piano religioso con appelli alla pace come valore universale sia sul piano politico (con richiami o riflessioni sulle possibilità e i metodi di una prassi pacifica nei rapporti interstatali e con la proposta di creare organismi sovranazionali destinati ad arbitrare le controversie di natura politica). Ancora meno è possibile qui richiamare i nomi di grandi leader religiosi e politici, occidentali e orientali, che hanno fatto del richiamo alla pace il nucleo principale della loro azione o del loro pensiero. Il tutto non ha impedito il protrarsi delle guerre, fino alle grandi catastrofi dei due conflitti mondiali del XX secolo.

Senza entrare nei particolari, per ovvie ragioni di spazio, e limitandoci all’ambito italiano, noteremo soltanto che nell’epoca moderna si assiste a una progressiva desemantizzazione di pace. Il Dizionario del Battaglia così definisce la parola: “Condizione normale dei rapporti bilaterali fra i vari Stati … caratterizzata come elemento minimo ed essenziale dall’assenza dello stato di guerra … e dal reciproco rispetto di sovranità, indipendenza, integrità territoriale”. Anche per il Vocabolario Treccani pace è fondamentalmente la “condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., sia ell’esterno con altri popoli, altri stati, altri gruppi”. A conclusioni più o meno simili conduce l’esame di altri strumenti lessicali di uso corrente, come il Devoto-Oli o lo Zingarelli. Certo nell’uso odierno si percepisce pace nel senso di ‘assenza di conflitti armati’: è quindi comprensibile la scelta dei lessici che, rifacendosi innanzitutto all’uso moderno, privilegiano questa accezione. Meno comprensibile una scelta del genere da parte di un’opera che, come il Battaglia, dovrebbe dare maggiore risalto alla dimensione storica della lingua. Dire che pace da un punto di vista storico-etimologico significhi ‘assenza di guerra’ è di già di per sé inesatto: ma le ulteriori specificazioni che il Battaglia adduce fanno parte di un modo moderno di concepire le relazioni fra Stati, e risulta quindi anche inadeguato per eccesso. Che l’uso primitivo del termine comprendesse anche i valori indicati dal Battaglia mi pare indubbio: che la coscienza del parlante li percepisse come primari è quanto meno problematico. Del resto, una scorsa anche veloce all’articolo mostra che pochi degli esempi recati per questo primo valore appartengono ad autori dei primi secoli della nostra storia letteraria, mentre per alcune delle accezioni successive gli esempi recano testimonianze di autori arcaici in misura assai più nutrita. Per limitarsi alla Divina Commedia, è assai dubbio che delle trentasei occorrenze di pace nell’intiero poema (5 Inf.; 17 Purg.; 14 Par.) più di tre al massimo si potrebbero inquadrare (e non senza sforzo!) nella definizione del Battaglia.

Sarebbe interessante, ma non può essere fatto in questa sede, seguire le vicende della moderna concezione della pace. Nel XIX e XX sec. ci si è ulteriormente allontanati dalla concezione primitiva, e all’idea di pace tipica della tradizione occidentale si sono sovrapposte modo di pensare che hanno la loro origine nella concezione indiana della non-violenza (ahiṃsā). L’idea che la pace possa essere un valore assoluto, del tutto sganciato da qualsiasi considerazione di etica o di giustizia, è stata diffusa da una propaganda martellante: la parola pacifismo, giunta in Italia dalla Francia nei primi anni del sec. XX, usata inizialmente con una connotazione apertamente dispregiativa, ha assunto col passare del tempo valore positivo. Pacifista indicava in origine chi si adopera per il raggiungimento di una pace che risulta favorevole a una potenza straniera4. Assumendo successivamente un significato fondamentalmente positivo, la parola ha finito in anni recenti per prendere il posto del preesistente pacifico, termine della tradizione cristiana che indica chi non solo si adopera per diffondere un messaggio di pace, ma anche vive il valore che si impegna a predicare.

Unica voce dissonante rispetto a questa semplificazione interessata della cultura odierna è quella della Chiesa. In ogni circostanza e in tutti i momenti, anche i più tragici, della vita moderna, la Chiesa non ha cessato di far sentire la sua voce che richiamava o implorava la pace, e il ruolo centrale della pace nell’insegnamento cristiano è ribadito da importanti documenti della Chiesa apparsi nel corso del XX secolo, quali le encicliche Populorum progressio Pacem in terris5.

Una voce di grandissimo rilievo che con inesauribile vigore, negli ultimi decenni, ha richiamato ai valori della pace è quella di Giovanni Paolo II, che in più occasioni durante il suo pontificato ha esaltato la pace, sottolineando però nel contempo che non è possibile disgiungere i valori di questa dai valori di giustizia e di libertà: non è pace quella che non comporta un rispetto per l’altro (nazione o individuo) e non gli consente di esprimere e manifestare liberamente la sua personalità. Numerosi sono gli interventi che si potrebbero citare a questo proposito: ci limitiamo a un paio di passi, che ci sembrano particolarmente significativi. Nella prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis, leggiamo fra l’altro queste parole (p. III, cap. 6):

In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo – opera di giustizia è la pace –, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancora più gravi violazioni di essa. Se i diritti dell’uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l’uomo.

E nel discorso alle autorità polacche del 2 giugno 1979 (n. 3):

La pace e l’avvicinamento fra i popoli si possono costruire soltanto sul rispetto dei diritti oggettivi della nazione, quali: il diritto all’esistenza, alla libertà, ad essere sogetto socio-politico ed altresì alla formazione della propria cultura e civilizzazione.

Più recentemente, nell’omelia pronunziata durante la celebrazione della Giornata della Pace (1 gennaio) del 2001, il Papa, rifacendosi a un suo precedente intervento che definiva la pace “obiettivo primario di ogni società e della convivenza civile e internazionale”, ha esplicitamente dato rilievo ai valori della solidarietà, della giustizia, della difesa della vita, che sono i contenuti essenziali e ineliminabili di una vera cultura del dialogo e della pace.

Rinnovo oggi, in questa suggestiva cornice liturgica, ad ogni persona di buona volontà l’invito accorato a percorrere con fiducia e tenacia la via privilegiata del dialogo. Solo così le ricchezze specifiche, che caratterizzano la storia e la vita degli uomini e dei popoli, non andranno disperse, ma, al contrario, potranno concorrere a costruire un’era nuova di fraterna solidarietà. Sia sforzo di tutti promuovere un’autentica cultura della solidarietà e della giustizia, strettamente “collegata con il valore della pace, obiettivo primario di ogni società e della convivenza nazionale e internazionale” (Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, 18).

Ciò è ancor più necessario nell’attuale contesto mondiale, reso complesso dalla diffusa mobilità umana, dalla comunicazione globale e dall’incontro non sempre facile tra culture diverse. Al tempo stesso, va con vigore ribadita l’urgenza di difendere la vita, fondamentale bene dell’umanità, giacché “non si può invocare la pace e disprezzare la vita” (Ibid., 19).

All’inizio dell’anno successivo, in una situazione internazionale particolarmente difficile, e di fronte a un’opinione pubblica mondiale ancora scossa e disorientata da recenti fatti di terrorismo assolutamente privi di raffronto con qualunque azione terroristica mai prima compiuta, non solo per l’esito tragico ma anche per la dovizia di mezzi materiali e per la capacità organizzativa di cui i gruppi terroristici avevano dato prova, il Papa riprendeva e ribadiva il suo precedente insegnamento, ampliandone ulteriormente l’orizzonte, con un discorso significativamente intitolato Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono. Dopo aver richiamato le tragiche vicende del settembre 2001 (fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura) il Papa esortava con forza a una visione cristiana che percepisce la speranza del bene come comunque prevalente rispetto alla presenza del male (la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l’ultima parola nelle vicende umane). Ancora, il Papa richiama sulla necessità di coniugare giustizia e perdono, due termini che non devono essere visti come contrapposti o tali da elidersi a vicenda, e richiama in modo nuovo e sintetico l’insegnamento dei Padri e della Chiesa sull’argomento. 

Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. La vera pace, in realtà, è « opera della giustizia » (Is 32, 17). Come ha affermato il Concilio Vaticano II, la pace è « il frutto dell’ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta » (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 78). Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona l’insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a cui mirare con l’apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella tranquillità dell’ordine (cfr De civitate Dei, 19, 13).

La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull’equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.

Il carattere specifico, costituzionalmente diverso, della pace cristiana è ribadito con forza nell’augurio che chiude il documento del Santo Padre, nel quale vengono ripresi sinteticamente gli spunti centrali del documento stesso:

In questi tempi burrascosi, possa l’umana famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall’incontro della giustizia con la misericordia6.

In conclusione l’insegnamento della Chiesa, e di Giovanni Paolo II in particolare, non soltanto addita valori che sembrano perduti nell’orizzonte culturale contemporaneo, ma anche si manifestano come l’unica voce che autenticamente interpreta la tradizione dell’Occidente raccogliendo quanto essa ha espresso di positivo e stabilendo col patrimonio culturale ed etico del nostro passato un legame che solo può permettere di affrontare i problemi del presente in modo non parziale o riduttivo.

Note

  1. Diehl I 298 (cimitero di Domitilla)
    Claudio Calisto v(iro) e(questri) | sive Hilario uxor | et filii benemerenti fecerunt. | Vir bonus et prudens studiis | in pace decessit (…)
    CIL X 1539 (Napoli)
    Hic requiescit in pa(ce) | sanctus abbas Habetydeus | positus VII id. Maias Anthemio III cos.
    (linea 3: il riferimento è all’anno 468)
    CIL XII 936 (Arles)
    Hic in pace re|quiescit bone | memoriae Pe|trus filius con|da Asclipi (…)
    (linea 2-3: conda ‘quondam‘: figlio del fu Asclepio; come si ricava dal seguito, l’epigrafe è del 530).
    CIL X 4529 (Capua)
    Corpus sanc[t]is comin|davi. Irene tibi cum sanc[t]is. Quinta vale | in pace.
    (linea 1 comindavi ‘commendavi’; l’espressione ricorre anche in altre iscrizioni, e allude alla tumulazione del corpo in un cimitero ove riposano altri corpi di santi; Irene, cioè 
    eirēnē, è l’augurio per l’anima. Si noti l’alternanza tra irene l. 2 e in pace l. 3).
    Diehl II 3459 (da cimitero romano, ora al Museo Lateranense)
    Hic mihi semper dolor erit in aevo | et tuum benerabilem vultum liceat videre sopore, | coniux Albana, que mihi semper casta pudica; | relictum me tuo gremio queror | quod mihi sanctum te dederat divinitus auctor | relictis tuis iaces in pace sopore; | merita resurgis, temporalis tibi data requietio. | Que vixit annis XLV mens(is) V dies XIII | do[rm]it in pace. Fecit Cyriacus maritus
    Diehl II 2379 (cimitero di S.Agnese)
    Somno heternali. | Aurelius Gemellus, qui bixit an III | et me[n]ses VIII, dies XVII mater filio | carissimo benemerenti fecit. In pa[ce] | Conmando Basilla innocentia Gemelli.
    (linea 5:’o santa Basilla, ti raccomando l’anima innocente [innocentia = innocentiam] di Gemello)
    Diehl II 2348 (rinvenuto a Roma presso S.Sabina)
    Attice, | dormi in pace. | De tua incolumitate | securus et pro nostris | peccatis pete sollicitus
    Diehl I 31-34 (cimitero di S.Sebastiano)
    Hic Lucianus cum bona pace | quescit innocens mansuetus | mites letus, cum amicis amicus. | Vixit an. pl. m. L nulla manente | querela depositus est in pace | die […] Kl. septembres Flabio | Marciano et [Z]enone […. cons].
    (linea 4: Vixit annos plus minus; linee 6-7: il riferimento è all’anno 377) ↩︎
  2. Diehl II 2761 (cimitero di Callisto)
    Jobina, que vixit an|nos plus minus | cinquacinta, reces|sit a saeculo ingressa | in pace
    Marucchi 63 (cimitero di Callisto)
    Fuit mihi natibitas Romana. Nomen si quaeris, | Iulia bocata so, que vixi munda | cum byro meo Florentio, | cui demisi tres filios superstetes. Mox gratia dei percepi | suscepta in pace neofita
    (linea 2 ‘Iulia vocata sum‘; linea 3: byro ‘viro’.
    CIL X 4528 (Caserta)
    ?hic re|quiescit in somno | pacis Guttus agolitus | s(an)c(t)e aeclesiae Capuanae | qui vixit plus menus | an. XX et VIII. qui depositus e(st) sub die sal(utis)
    (linea 2 agolitus da gr. ἀκόλουθος)
    Diehl = E. Diehl, Inscriptiones Latinae christianae veteres, Berlin 1925 ss.
    Marucchi = O. Marucchi, Epigrafia cristiana, Milano 1910 ↩︎
  3. NT Mat. 5, 9 “Beati gli operatori di pace (εἰρηνοποιοἰ, pacifici), perché saranno chiamati figli di Dio”. Nella tradizione giudaico-ellenistica  (εἰρηνοποιοἰ (εἰρηνοφύλαξ) è Dio, in quanto difende il popolo dai nemici (Filone, spec. leg. 2, 192). Cfr. anche Foerster, art. cit, coll. 241-243 (si deve risalire al rabbinico ·sh šlwm, “che indica l’opera di chi stabilisce concordia e pace fra gli uomini”) ↩︎
  4. Nell’evoluzione verso le lingue romanze la parola rimane come termine vivo e vitale in tutto il territorio: abbiamo così come diretti continuatori del termine l’it. pace, il rum. pace, il sardo page,il fr. paix, lo spagn. e il port. paz, il prov. patz. Il verbo derivato pacare si è ben presto allontanato dal valore originario e si è specializzato in quello odierno di ‘pagare’ (it. pagare, fr. payer, prov., cat., spagn., port. pagar, ant. rum. păca): in ant. spagn. e ant. port. il participio pagado ha ancora mantenuto il valore di ‘in pace, tranquillo’; prossimo al valore originario il composto italiano appagare. Le continuazioni di pax e di pacare sono registrate dal REW rispettivamente ai nn. 6317 e 6132. Trascuriamo alcune continuazioni di uso molto particolare, come p.es. pugliese pače ‘tipo di pane con incisa l’immagine di Gesù bambino’. Altri derivati di pāx nelle lingue romanze sono il fr. apaisenter < *adpacentare; sp. apaciguar, cat. apayabagar adpacificare. ↩︎
  5. Molti interventi sulla pace dei vari Pontefici del XX secolo da Leone XIII a Paolo VI possono essere letti nel fascicolo antologico La Chiesa e la Pace, con prefazione del card. G. Colombo, Milano s.d. (ma 1969). ↩︎
  6. Il discorso di Giovanni Paolo II può essere letto integralmente, insieme con altri recenti documenti sullo stesso tema, nel sito ufficiale della Santa Sede. ↩︎