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“Pace” nel mondo latino

by Mariapina Dragonetti

di Moreno Morani


Il termine pāx è certamente antico: lo prova la modalità della sua formazione: si tratta di un sostantivo radicale, vale a dire di un sostantivo nella quale la pura radice si presta ad essere usata come tema flessionale. Questo genere di formazioni sono da considerare dei relitti di una fase antichissima: in tutte le tradizioni indeuropee esse tendono ad essere sostituite con altre che presentano una flessione più comoda (in particolare temi in –o– o in –i-). La rad. di pāx ci riporta al ricco e produttivo gruppo di paciscorpactumpactio attestato in latino fin dall’epoca più antica: pertanto la parola vale ‘contratto, impegno preso fra due contraenti’. Tra le attestazioni più antiche del gruppo va ricordato il pakari nell’iscrizione del vaso di Duenos e il pacitpacunt delle XII Tavole1; tratto direttamente dalla radice è il sostantivo paciō , che, secondo l’attestazione di Festo (p. 296 L.) era usato dagli antichi in luogo di pactiō. Quanto alla radice della parola, la produttività e la ricchezza di derivazioni di *pāk– in latino è esattamente proporzionale al suo isolamento all’interno del territorio indeuropeo: al di fuori dell’Italia, l’unico termine che potrebbe essere in qualche modo richiamato è l’aind. pāśā– ‘legame’. Viceversa la radice di pāx si ritrova abbondantemente in attestazioni italiche e, cosa ancor più interessante, la sfera semantica della parola latina e dei suoi corrispondenti italici coincidono, avendo la parola la stessa risonanza religiosa che troviamo in latino. In umbro è attestato un ablativo paśe  di un tema del tutto analogo a quello del sostantivo latino; in varie lingue è attestato un aggettivo *pakri– il cui valore pare simile a quello di lat. propitius. In umbro le due parole ricorrono in formule di preghiera dal colorito arcaico: p. es. Tavole di Gubbio: VI a 30 ss.:

futu fos pacer paśe tua ocre fisi tote iiouine erer nomne erar nomne.
sii favorevole propizio con la tua pace all’arce Fisia, alla città Iguvina, al nome di lui, al nome di lei.

e VI b 61 ss.

fututo foner pacrer paśe uestra pople totar iiouinar, tote iiouine, ero nerus śihitir anśihitir, iouies hostatir anostatir, ero nomne, erar nomne
siate favorevoli propizi con la vostra pace al popolo della città Iguvina, alla città Iguvina, ai suoi magistrati in carica e senza carica, ai giovani in armi e non in armi, al nome di quelli, al nome di quella.

Verosimilmente, questa corrispondenza fra latino e lingue italiche non va proiettata all’antichità indeuropea: si tratta di una della tante convergenze che latino e lingue italiche mostrano nell’ambito del lessico sacrale e religioso: in molti casi le coincidenze lessicali fra questi due gruppi linguistici avvengono su parole o gruppi di parole completamente isolati, privi di un’etimologia indeuropea (come è il caso di sacer), o recanti comunque le tracce di innovazioni esclusive (come mostra l’uso della radice *dhēs– di fānumfēriae, forse fās). Si tratta, in casi del genere, di fatti linguistici e culturali che hanno il loro punto di partenza nell’urbe e che si irradiano progressivamente nell’Italia centrale man mano che s’infittiscono le relazioni di natura culturale fra Roma e i popoli italici, intrecci che vedono comunque Roma in una posizione di superiorità, ancora prima che questa giunga ad accrescere la sua potenza militare e si proponga come potenza egemone in queste regioni2.

Molti manuali collegano tutto questo gruppo di parole con la radice con la radice *pāg- ‘conficcare, fissare’ di πήγνυμι e di pālus (< *pagslos): con infisso nasale questa seconda forma si ritrova nel lat. pangere. Dal punto di vista semantico non vi sarebbero sostanziali obiezioni a questa etimologia, che anche dal punto di vista formale si potrebbe sostenere (sia pure con qualche incertezza), dal momento che oscillazioni fra sorda e sonora, soprattutto nella parte finale della radice, non sono ignote nelle lingue indeuropee (e la presenza di *pank-, attestato nel germ. *fanh-, da cui ted. fangen ecc., accanto a *pang– di pangere, avvalorerebbe questa possibilità): in tale caso pāx conterrebbe in sé l’idea della stabilità, e quasi della fissità. Secondo la Porzio Gernia i due gruppi vanno tenuti distinti, e questa conclusione ci sembra da approvare sul piano linguistico: da una parte avremmo una radice il cui uso è limitato all’espressione di nozioni appartenenti alla sfera materiale, dall’altra una radice “che esprime una sfera concettuale fondamentale dell’etica e della religiosità degli antichi Italici”. È però da rilevare che la connessione fra i due gruppi era percepita dai parlanti antichi, come mostra l’uso di piantare un chiodo (pangere clavum) ogni anno alle idi di settembre sul lato destro del tempio di Giove Ottimo Massimo per impetrare la pace degli dèi: l’usanza era stabilita sulla base di una lex vetusta esposta in Campidoglio, secondo quanto afferma  Livio (VII 3, 5 ss.):

5. Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut, qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa fuit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est. 6. Eum clavum, quia rarae per ea tempora litterae erant, notam numeri annorum fuisse ferunt eoque Minervae templo dicatam legem, quia numerus Minervae inventum sit. 7. Volsiniis quoque clavos indices numeri annorum fixos in templo Nortiae, Etruscae deae, conparere diligens talium monumentorum auctor Cincius adfirmat. 8. Horatius consul ea lege templum Iovis optimi maximi dedicavit anno post reges exactos; a consulibus postea ad dictatores, quia maius imperium erat, sollemne clavi figendi translatum est. Intermisso deinde more digna etiam per se visa res, propter quam dictator crearetur.

A differenza di eirēnē, lat. pāx ha inizialmente un contenuto concreto. La parola indica un accordo tra due contendenti, un accordo che permette il ristabilirsi di una situazione di tranquillità precedentemente incrinata. In ambito politico la pace è il frutto di un accordo tra due entità sovrane, e il fatto che sia il perdente a chiedere la pace (pacem petere) e il vincitore a concederla (pacem dare) implica che la disponibilità dell’accordo e della situazione di pace è nelle mani del più forte. Il valore prioritario di pāx come ‘trattato’ si coglie bene negli autori latini arcaici. In Ennio, Ann. v. 207, leggiamo orator sine pace redit regique refert rem, cioè ‘il messo (l’uso di orator nel senso di legatus è frequente nel latino arcaico) ritorna senza che vi siano proposte di accordo e riferisce al re la circostanza’, è più ancora nel seguente di Plauto (Persa 753) passaggio in cui la parola compare al plurale: hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis. Oltre che nei rapporti tra stati, la parola si applica per indicare il realizzarsi di una pacificazione anche tra familiari: nel Mercator di Plauto, v. 953 ss., il protagonista, che sta operando per recuperare una situazione di pace tra i genitori, usa le seguenti parole: pacem componi volo meo patri cum matre, nam nunc est irata. E all’ottenimento della pace familiare il giovane dice: uxor tibi placida et placatast; cette dextras nunc iam: dal che si desume che pāx è semanticamente collegato con la sfera di placare, così come è spesso collegato, soprattutto nella terminologia politica, col termine concordia, che designa l’unità di intenti (propriamente l’avere insieme il cuore): cfr. già Ennio, trag. v. 342 III 342: Pacem inter sese conciliant, conferunt concordiam. Il collegamento di pax con tranquillitas si coglie invece nel seguente passo dell’Ampitruo (vv. 957 s.): Iam pax est inter vos duos? Nam quia vos tranquillos uideo, gaudeo et volupest mihi.

L’affermarsi di pāx come programma politico si ha nell’età di Silla, e poi, più fortemente, nei contrastati e difficili anni che seguono. La riflessione romana sulla pace ha come punto di partenza la riflessione delle scuole filosofiche ellenistiche, ma rivendica con maggior vigore l’importanza della pace come valore non solo individuale, ma anche statale. La pace è spesso indicata come obiettivo da perseguire, anche se la speculazione mostra maggior interesse per il problema del bellum iustum. Che la guerra debba essere affrontata come extrema ratio e che debba avere come obiettivo primario il ristabilimento di un diritto violato è affermato a più riprese dai vari autori: la formula con cui i fetiales proclamavano l’inizio della guerra contiene al suo interno l’espressione di questa esigenza, col suo richiamare la legittimità dell’azione romana e col suo fare appello al fās, cioè al diritto divino.3

La stessa problematica è ripresa e approfondita su basi teoriche da Cicerone in de republ. III 34 ss.4; e tuttavia non si può semplicisticamente definire pace una situazione in cui non si realizzano atti di ostilità né di fronte a nemici esterni né all’interno dello Stato: non si può confondere tra pace e schiavitù, come lo stesso Cicerone rileva con vigore in passi della II 5 e della XII Filippica6. E anche in de officiis I 35 7Cicerone osserva che pace e giustizia sono due idee che si compenetrano: la guerra è una situazione da affrontare a malincuore e con sofferenza, e la si affronta solamente nella speranza che da essa scaturisca una pace migliore, e anche l’ottenimento della superiorità militare e della vittoria non esime che detta le condizioni di pace dal rispettare elementari regole di giustizia e di equilibrio nei confronti dei vinti, come fecero, nella loro lungimiranza, i Romani primitivi.

Il raggiungimento di una pace stabile e duratura è elemento programmatico della politica augustea: l’attività militare con cui Roma attraverso secoli di combattimenti ha esteso il suo dominio su tutto il bacino del mediterraneo è reinterpretata come opera di pacificazione dei popoli all’interno di un grandioso progetto civilizzatore. La politica imperiale di Augusto fa uso dell’idea di pace con evidenti fini propagandistici. Nel 9 a.C. L’imperatore fa erigere nel Campo Marzio l’Ara Pacis Augustae, con rappresentazioni mitologiche che mostrano allegoricamente il benessere e la felicità di un mondo pacificato dalle armi romane per opera della lungimiranza e della generosità del principe. Sincero e ispirato interprete sia dell’ansia di pace che percorre il mondo romano, dopo decenni di violenze e lotte pressoché ininterrotte, sia di alcuni motivi dominanti della politica augustea è Virgilio in versi famosi (Aen. VI 847 ss.):

 Excudent alii spirantia mollius aera (credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, orabunt causas melius caelique meatus describent radio et surgentia sidera dicent: tu regere imperio populos, Romane, memento (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos.

Appare dalla parte finale del brano citato che altra caratteristica del pacifismo augusteo è la connessione tra pāx clementia. L’atteggiamento di disponibilità alla clemenza è affermato da Augusto nel suo memoriale (Monumentum Ancyranum), che afferma testualmente: victor omnibus veniam petentibus civibus peperci. Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui), e di questa concezione si fa interprete anche Orazio nel carme secolare (vv. 49 ss.): quae que vos bobus veneratur albis clarus Anchisae Veneris que sanguis, | impetret, bellante prior, iacentem lenis in hostem (“e quelle grazie di cui vi prega col sacrificio di bianche vacche l’illustre discendente di Anchise e di Venere, le ottenga, lui superiore al nemico che combatte, mite col nemico prostrato a terra”). Nell’epoca imperiale il richiamo alla pace diverrà consueto, e sarà normale per gli imperatori fare coniare monete con l’immagine della dea Pace.

Le descrizioni dell’età dell’oro, numerose nell’età augustea, hanno tutte come denominatore comune la pace, intesa sia come assenza di conflitti sia soprattutto come assenza di indigenza, di avidità, di frode, di necessità di lavoro (perché la terra produce spontaneamente ciò di cui l’uomo ha bisogno e nei fiumi scorrono latte e miele): in qualche caso l’idea della pace è considerata nella sua accezione più radicale, vale a dire non solo come pace fra gli uomini, bensì come pacificazione di tutta la natura, tanto che le pecore non avranno più da temere gli assalti vespertini degli orsi contro l’ovile. Nell’età di Augusto sembra che ci si stia avviando a una rinnovata età dell’oro: è il sogno a cui dà voce Virgilio nella IV Ecloga. Quanto questa aspirazione fosse utopistica appare per esempio dalla lettura delle Elegie di Tibullo, ove l’aspirazione individuale a una vita pacifica ha scarse possibilità di realizzarsi in un ambiente e in un’epoca in cui l’acquisizione di meriti militari è uno dei modi più consueti per consentire all’individuo di emergere nella società.

Qualche spirito critico, come Tacito, potrà rilevare che questa pace porta con sé una limitazione della libertà di parola, o farà rilevare da un capo straniero che sotto questo nome pace si nasconde in realtà una politica espansiva e di spoliazione sistematica:

Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

Se altri, come Seneca, preferirà insistere sulla serenità del sapiente, è ancora Tacito a farci sapere che la pace proclamata e conclamata dalla propaganda non corrisponde in realtà a un’esigenza pienamente avvertita e vissuta: lo dimostra, se non altro, la disavventura capitata all’intellettuale Musonio Rufo, la cui propaganda pacifista non solo non trova nessuna accoglienza nella truppa, ma addirittura viene messa a tacere con modi bruschi e violenti:

Miscuerat se legatis Musonius Rufus equestris ordinis, studium philosophiae et placita Stoicorum aemulatus, coeptabatque permixtus manipulis, bona pacis ac belli discrimina disserens, armatos monere. Id plerisque ludibrio, pluribus taedio; nec deerant qui propellerent proculcarentque, ni admonitu modestissimi cuiusque et aliis minitantibus omisisset intempestivam sapientiam.

Ma per valutare appieno il valore di pāx sarà utile richiamare non tanto il suo uso nel linguaggio politico o filosofico o giuridico, quanto il suo ricorrere nel linguaggio religioso nell’espressione pāx dīvom. Con questa si esprime propriamente la normalità dei rapporti fra l’uomo e il dio, dei quali la parola pāx segnala la natura fondamentalmente formale e giuridica. Nelle preghiere arcaiche la richiesta agli dèi della pāx è accompagnata spesso dalla richiesta di beni specifici o materiali, come appare, fra i tanti, dal seguente teso di Plauto:

Apollo, quaeso tu ut des pacem propitius,
salutem et sanitatem nostrae familiae.

Di particolare interesse per valutare il valore dell’espressione il passo dell’Eneide (IV 56 ss.) in cui Didone e Anna chiedono agli dèi il consenso per l’amore che di cui ormai la regina è preda:

… delubra adeunt pacemque per aras exquirunt.

Didone sa che il suo consenso a questo amore costituisce un venir meno al precedente proposito di univirato: non si tratta di una colpa nel senso tecnico del termine, ma il tutto può costituire una turbativa nel rapporto fra lei e le divinità: è quindi necessario ottenere il consenso di queste, e questo si può fare appunto con un nuovo patto (pacem … exquirunt) che sostituisce il precedente, ormai superato dai fatti.

Un’analisi più fortemente centrata sulle formule umbre in cui ricorrono gli equivalenti italici di pāx conduce la Porzio Gernia (Il lat. pāx nella storia linguistica dell’Italia antica, cit., p. 124) ad affermare che *pak-s è la risposta del dio alla richiesta dell’uomo. È certo la ‘benevolenza, la buona disposizione’ ma, come indica l’etimologia fondata sull’analisi intratestuale della preghiera e su quella comparativa con le altre lingue indoeuropee, il nucleo semantico profondo è il concetto di ‘unione’. Quindi ‘sii favorevole con la tua unione’, o meglio tenendo conto del contesto, ‘con la tua riunione’ con l’uomo purificato. Se *pak-s è l’unione, pacer, l’aggettivo derivato, indica la qualità di chi è disponibile all’unione e la concede”. Più in generale, in latino pāx indica quell’equilibrio instabile nei rapporti uomo-dio, che può essere di continuo compromesso o turbato per iniziativa, anche unilaterale, dei due contraenti. La mancanza, anche involontaria, da parte dell’uomo provoca l’īra deōrum. Il concetto dell’ira divina non è solo romana, bensì generale: per rimanere nell’ambito delle tradizioni indeuropee, di divinità adirate, di ammissioni di colpa da parte dell’uomo, di riti appropriati per placarne la collera sono pieni tanto i poemi omerici quanto i testi ittiti o germanici quanto i Veda: in quest’ultimo testo è presente con maggior vigore e più radicata consapevolezza la conclusione imbarazzante che la collera divina può colpire anche l’innocente. Il processo che porta al ristabilirsi dell’equilibrio originario prende il nome di venia deorum. La parola ha finito per perdere gran parte della sua carica iniziale e per divenire spesso un semplice concorrente di pāx: ma il suo valore primitivo si coglie nei testi in cui esplicitamente si invoca dagli dèi la venia come momento di cessazione dell’ira precedente. Citiamo ad es. Livio III 7, 8 (matres) veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt oppure Ovidio, Met. XI 132 da veniam, Lenaee pater, peccavimus, o ancora Seneca, Med. 595 parcite, o divini, veniamque precamur, o, ancora più nitido e significativo, il seguente passo di Virgilio (Georg. IV 534 ss.), in cui compaiono tutti e tre i termini in questione:

… tu munera supplex tende petens pacem et facilis venerare Napaeas: namque dabunt veniam votis irasque remittent.

La somiglianza formale con veneror ha creato un rapporto privilegiato tra queste due parole, e ha fatto praticamente divenire formula fissa l’espressione veniam8 veneror (cfr. p.es. Liv. III 7, 8; Macr., Sat. III 9, 7): diversi indizi, tra cui l’analisi etimologia e comparativa (che esclude un rapporto diretto fra venia Venus veneror) e il comparire di veniam poscere in qualche testo (p.es. Liv. VII 40, 4 veniam supplex poposci), consigliano l’ipotesi che l’espressione veniam veneror sia recente e abbia preso il posto di un più antico veniam poscere, che sarebbe così l’equivalente e il parallelo di pacem poscere (cfr. Liv. VII 2, 1 pacis deum exposcendae causa).

Note

  1. I 3, 1-2 Ernout
    Rem ubi pacunt orato. Ni pacunt, in comitio aut in foro ante meridiem causam coiciunto, cum peroranto ambo praesentes. Post meridiem praesenti litem addicito. Si ambo praesentes, sol occasus suprema tempestas esto.
    (cit. dalla Rhetorica ad Herennium II 13, 20 e da Prisciano X 5, 32; parzialmente anche Gellio XVII, 2, 10; il testo della parte iniziale si presenta molto problematico: molti leggono pagunt in luogo di pacunt. Il testo qui presentato segue A. Ernout, Recueil de textes latins archaïques, Paris 1916, p. 115). ↩︎
  2. [In tal caso la radice andrebbe scritta, più esattamente, *pāk’-.
    Sul problema di umbro paca, termine di valore oscuro (postposizione con valore analogo a quello di latino causa? avverbio con valore di ‘rite‘?), cfr. Porzio Gernia 1990, pag. 137, con ulteriori riferimenti bibliografici]. ↩︎
  3. La formula dei feziali è così riportata da Livio I 32: Audi, Iuppiter, audite, fines, audiat, fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani: iuste pieque legatus venio verbisque meis fides sit  si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse … puro pioque duello querendas censeo itaque consentio consciscoque. ↩︎
  4.  Cicerone, de re publica III 34(frammento cit. da Agostino, civ. XXII 6)
    Scio in libro Ciceronis tertio, nisi fallor, de re publica disputari: nullum bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute. Quid autem dicat pro salute, vel intellegi quam salutem velit, alio loco demonstrans: sed his poenis quas etiam stultissimi sentiunt, egestate, exsilio, vinculis, verberibus, elabuntur saepe privati oblata mortis celeritate, civitatibus autem mors ipsa poena est, quae videtur a poena singulos vindicare; debet enim constituta sic esse civitas ut aeterna sit. itaque nullus interitus est rei publicae naturalis ut hominis, in quo mors non modo necessaria est, verum etiam optanda persaepe. Civitas autem cum tollitur, deletur, extinguitur, simile est quodam modo, ut parva magnis conferamus, ac si omnis hic mundus intereat et concidat. ↩︎
  5. Philippica II, 113 ss:
    et nomen pacis dulce est et ipsa res salutaris; sed inter pacem et servitutem plurimum interest. Pax est tranquilla libertas, servitus postremum malorum omnium, non modo bello sed morte etiam repellendum.. ↩︎
  6. Philippica XII, 13 ss.
    Quid censetis, cum tot uno tempore inruperint, nos arma posuerimus, illi non deposuerint, nonne nos nostris consiliis victos in perpetuum fore? Ponite ante oculos M. Antonium consularem; sperantem consulatum Lucium adiungite; supplete ceteros neque nostri ordinis solum honores et imperia meditantis: nolite ne Tirones quidem Numisios et Mustelas Seios contemnere. Cum eis facta pax non erit pax, sed pactio servitutis. ↩︎
  7. de officiis I 35
    Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi ii qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos Aequos Volscos Sabinos Hernicos in civitatem etiam acceperunt : at Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt : nollem Corinthum, sed credo aliquid secutos oportunitatem loci maxime ne posset aliquando ad bellum faciendum locus ipse adhortari. Mea quidem sententia paci quae nihil habitura sit insidiarum semper est consulendum. In quo si mihi esset obtemperatum, si non optimam, at aliquam rem publicam quae nunc nulla est haberemus. ↩︎
  8. Per un’analisi più approfondita dell’etimologia e della storia di venia (esclusa dal carattere della presente esposizione) rinviamo a M. Morani Dal lessico religioso latino, Aevum 57 (1983), pp. 44-50. ↩︎