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Persefone. Variazioni sul mito

by Giorgio Zangrandi

a cura di R. Deidier, Marsilio, Venezia, 2010


Presentiamo quest’opera in margine all’articolo di I. Concordia, Il ratto di Kore, pubblicato nel settore testi del sito. Nell’introduzione Deidier, docente all’università di Palermo, segue alcuni percorsi di notevole interesse, utilizzando, oltre ai testi antologici del libro, altri testi e rappresentazioni iconografiche (peccato non siano inserite le immagini). Troviamo l’idea di Persefone come Divinità del limite, il confine fra vita e morte, in particolare con la suggestiva descrizione della stele di Eleusi commentata da D’Annunzio; l’evoluzione del Giardino di Persefone da luogo del rapimento (che sia la piana di Enna o il giardino chiuso della casa o altri luoghi) a giardino dei morti, per finire con Proserpina, archetipo letterario, che amplia il tema con testi liberamente ispirati al mito e con riprese in musica. In appendice, dopo i testi, notizie sugli autori e bibliografia.

Il primo brano riportato (in traduzione, come tutti i brani non italiani) è l’Inno a Demetra pseudomerico. L’inno è chiaramente incentrato sul mito della madre, più che della figlia: le sue peregrinazioni dopo avere udito il grido di Persefone, l’aiuto di Ecate ed Helios, il ritiro sdegnato dal mondo degli dèi, l’accoglienza ad Eleusi e l’equivoco del fuoco datore di immortalità, la sterilità della terra che provoca l’intervento di Zeus per mettere d’accordo i diritti della madre e quelli del potente sposo, la risalita di Persefone legata però agli inferi dal chicco di melograno mangiato per volere di Ade, l’intervento di Rea (ancora una madre) perché Demetra ridoni fertilità alla terra degli uomini e risalga fra gli dèi. Tutto il mito è ampiamente raccontato ma, si diceva, dal punto di vista materno: il rapimento, che avviene a Nisa, in Lidia, è appena accennato all’inizio e nel racconto alla madre, con l’importante indicazione che è avvenuto “con il consenso di Zeus”, padre della ragazza e pari in potere rispetto al fratello ctonio, con cui scende a patti solo per la salvezza degli uomini.

Ovidio (Met. V, 338-571) si sposta decisamente sulla Sicilia, dove Plutone emerge per controllarne la stabilità: non c’è nell’oscuro dio un intento amoroso: è Venere a volerlo innamorato, per dominare anche negli inferi ed evitare alla ragazza una verginità troppo protratta. Tutta la vicenda s’intreccia con diverse metamorfosi: la ninfa Ciane, che non riesce ad fermare Plutone, si scioglie in acqua, il ragazzo scortese con Cerere diviene lucertola, il giovane che rivela che Proserpina ha mangiato (spontaneamente) il melograno diviene un gufo: ma la vicenda di Cerere è, in breve, quella già omerica: rende sterile la terra (qui soprattutto la Sicilia), fino all’accordo con Giove e al recupero della figlia nei mesi del bel tempo.

Il poemetto De raptu Proserpinae di Claudiano inizia invece con la protesta minacciosa di Plutone perché è l’unico a non avere una sposa: Giove, consultato il destino, gli offre la figlia. Intanto Cerere, dopo aver respinto numerosi pretendenti, decide di nascondere Proserpina in Sicilia, luogo considerato sicuro per la sua solitudine di isola. In un’atmosfera fiabesca, la ragazza vive in un castello incantato finché, spinta da Venere, esce di nascosto a raccogliere fiori. Il rapimento è presentato come un atto brutale, anche per la similitudine col leone che sbrana la giovenca: ma poi il tono diviene idilliaco, Plutone si fa gentile, tutto il mondo sotterraneo accoglie con affetto la sposa. Una congiura del silenzio voluta da Giove tiene Cerere all’oscuro, finché, spaventata da visioni, torna in Sicilia e trova il castello diroccato e la nutrice, unica rimasta, la svela la perdita. Cerere inizia le sue peregrinazioni maledicendo gli dèi e se stessa che non ha difeso la figlia. Qui termina il terzo libro e il poemetto rimane incompiuto.

Proserpina di G.B.Marino, poemetto in settenari, segue lo schema narrativo di Claudiano ma introduce un curioso personaggio, Vertunno, dal corpo fatto di frutti, che su richiesta di Venere fa fiorire il colle su cui sorge la casa di Proserpina e la ragazza affascinata s’inoltra fra i fiori fino al giardino stesso di Vertunno, pieno di immagini amorose ed erotiche. La vicenda prosegue secondo il racconto di Claudiano, fermandosi dove il poema latino s’ interrompe.

Il monodramma di Goethe Proserpina è invece ambientato nella cupa dimora degli inferi, dove la ragazza è regina solo di ombre e non può neppure porre fine ai supplizi di cui ha pietà. Invoca la madre e il padre Giove perché la liberino, finché nello squallore arido trova una traccia di vita, un fiore, una foglia, un melograno. Subito intervengono le Parche a ricordarle il tabu infranto e il suo eterno legame col mondo di cui è regina e con lo sposo di cui ha solo orrore.

 Il giardino di Proserpina di Swinburne costituisce un capovolgimento rispetto agli altri testi: Proserpina, dimentica del mondo dei viventi, accoglie i morti nella sua dimora di pace, dove non c’è più speranza né timore, né desiderio di vita.

Di Tennyson troviamo Demetra e Persefone (a Enna), nuovamente incentrato più sulla madre che sulla figlia. In un monologo la dea celebra con inquietudine la figlia recuperata, dai cui occhi scompare a fatica lo sguardo degli inferi; nel ricordo del proprio peregrinare si sente vicina al dolore degli uomini, cui ha provocato involontariamente povertà e sterilità; il mondo degli dèi a cui appartiene le è divenuto estraneo, e sogna un mondo con altre divinità, in cui la morte sarà vinta e la resurrezione sarà per sempre.

Persefone, del poeta greco novecentesco G. Ritsos, è un monologo teatrale (con didascalie per la messa in scena) in cui una giovane donna, tornata per le vacanze nel paese di mare della sua infanzia, rilegge in modo visionario all’amica Ciane (nome spesso ricorrente nei testi già visti) la sua vicenda: è stata attratta dallo zio ospite in casa, poi violata da un domestico che ne ha indossato gli abiti, e con l’uno o forse l’altro vive per la maggior parte dell’anno in un luogo straniero e oscuro che ora rimpiange, accecata dall’eccesso di luce del luogo in cui pure deve ogni tanto tornare.