(articolo pubblicato su Il nuovo Areopago 1/3 (1982), pagg.48-62)
È andato sempre crescendo, in questi ultimi decenni, l’interesse per il folclore: e in particolare nello studio della mitologia si è cercata molto di più l’origine del mito, la sua storia pre- ed extraletteraria, la sua connessione col rito e il costume, che non la creazione artistica, il ripensamento che ogni autore ed ogni epoca ha operato su una vicenda preesistente, sul già dato. Eppure, se l’antropologia e la psicanalisi hanno indagato con risultati d’indubbio fascino sulla somiglianza fra miti diversi, lontani nel tempo e nello spazio, altrettanto fascino ha per noi la diversità entro lo stesso mito. Anche quando cessa di essere storia religiosa, il mito non può essere manipolato casualmente: è patrimonio comune, appartiene prima ad un popolo poi all’umanità intera, anche perché fissato in archetipi letterari generalmente autorevoli, a volte considerati per secoli come maestri. Le varianti che l’intreccio acquista possono anche essere moltissime: ma al senso ultimo del mito, al volto del personaggio, l’autore, specie l’autore antico, si accosta con attenzione e rispetto, cercando, più che di modificarlo, di comprenderlo e, attraverso di esso, di comprendere la propria realtà. Così la maggior parte dei personaggi mitici sono proceduti sostanzialmente costanti attraverso le riletture dei secoli: altri, i meno, hanno subito grossi mutamenti. Fra questi il più evidente è certo Ulisse.
Già nel corso della letteratura greca la valutazione del personaggio è fortemente contraddittoria; varia, mutevole e poliedrica è la figura di Ulisse nella tradizione occidentale. E importante rilevarlo, giacché l’immagine che se ne ha abitualmente, in fondo, non coincide con nessuno degli Ulissi effettivamente creati, ma è una curiosa commistione di vaghi ricordi omerici e danteschi. Capire perché proprio questo personaggio, fra tutti, si sia così mutato, capire il senso dei diversi ricordi omerici e danteschi. Capire perché proprio questo personaggio, fra rutti, si sia cosi mutato, capire il senso dei diversi Ulissi, può voler dire invece capire meglio i poeti e le epoche che li hanno espressi, e la loro visione dell’uomo. È appena il caso di dire che una ricerca di tale portata richiederebbe un lavoro di ben altra ampiezza: i giudizi che tentiamo sono offerti all’approfondimento critico del lettore (1).
Segno di contraddizione
L’Ulisse-Odisseo dei poemi omerici, che per comodità affronteremo in blocco senza porre problemi sull’unità d’autore, appare caratterizzato da tre ordini di appellativi, che pongono in rilievo tre fondamentali caratteristiche del personaggio: l’intelligenza, nei suoi diversi aspetti di ingegnosità, astuzia, capacità di comprendere situazioni e persone, di far tesoro dell’esperienza; una complessa qualità espressa dalla radice tla- coi suoi molteplici derivati, e che indica sia la sofferenza, sia la capacità di sopportazione, sia la capacità di attendere il momento giusto per agire, sia l’ardimento e il coraggio; infine l’abilità militare (2). Il terzo ordine di appellativi mostra come Odisseo sia pienamente inserito fra gli eroi omerici, in cui la capacità di usare le armi, la forza, perfino la spietatezza verso il nemico abbattuto sono segni distintivi e notazioni non solo usuali, ma legittime e positive. Gli altri due ordini sono più tipicamente suoi, e lo contraddistinguono: su questi in particolare vale allora la pena di soffermarsi. Quale valore dà Omero all’astuzia, ad esempio, o alla pazienza-coraggio? Intravede in queste caratteristiche delle luci e delle ombre, o l’immagine di esse, e quindi del personaggio, è chiaramente positiva? Un’analisi puntuale dei due poemi ci dà una risposta netta. In entrambi il giudizio che gli altri personaggi danno di Odisseo, la coscienza che egli ha di sé, il suo comportamento nelle diverse situazioni sono univocamente positivi: nei rari casi in cui non lo siano, interviene subito un cambiamento o una rettifica. Odisseo nell’Iliade è stimato da tutti i capi, e dagli stessi nemici; gli sono affidati tutti gli incarichi diplomatici e difficili imprese belliche; è costantemente presente sul campo, spesso in posizione di autorevolezza; ha la stima e l’appoggio di Atena, dea dell’intelligenza; ha una sicura consapevolezza del proprio valore, che lo porta sia a rintuzzare prontamente accuse infondate (ricevendo le scuse di chi le aveva avanzate), sia a rifiutare lodi superflue (3). Nell’Odissea, naturalmente, il ritratto si approfondisce, ma le notazioni presenti nell’Iliade vengono più volte riprese: il giudizio espresso su di lui dai protagonisti dell’Iliade sopravvissuti, Nestore, Menelao, Elena, ribadisce positivamente la sua abilità nell’inganno e la sua esperienza molteplice. Emerge anche un giudizio su Odisseo come uomo privato e come signore: sia la madre (evocata dai morti), sia lo schiavo Eumeo lo ricordano con parole affettuose, sottolineandone le doti di umanità. Nell’incontro coi Feaci egli rivela doti di fine psicologo e, in particolare nelle parole di augurio a Nausicaa, una profonda visione del matrimonio come comunione di spirito (4). Ma soprattutto su tre caratteristiche ci soffermiamo, poiché richiedono una precisazione.
La prima, particolarmente importante perché gravida di sviluppi futuri, è la sua curiositas, il suo desiderio di conoscenza. Due volte, nell’episodio di Polifemo e in quello di Circe, Odisseo mette a repentaglio la sua persona e quella dei compagni per voler vedere troppo: ma non c’é in questo una concezione di sfida o di rischio consapevolmente portato all’eccesso. I due episodi, insieme coi consigli di Circe, arricchiranno la sua esperienza: non si ripeteranno. Quando le sirene lo tenteranno dicendogli “Noi conosciamo tutto ciò che succede sull’alma terra”, Odisseo si sarà prudentemente cautelato dal rischio di cedere legandosi all’albero della nave: vuole ascoltare, mentre ai compagni si sono chiuse le orecchie, ma non allontanarsi in una via pericolosa, che lo svii dalla sua meta fondamentale, dal suo costante e netto desiderio: il ritorno in patria, che neppure l’offerta d’immortalità potrebbe sostituire. Tutte le altre azioni di eccesso, l’apertura dell’otre dei venti, la distruzione delle mandrie del Sole, sono compiute dai compagni (5).
La seconda caratteristica, che gli viene rimproverata sia da Calipso sia da Atena, è la diffidenza, che lo porta a non fidarsi e a mentire su di sé anche quando non sarebbe strettamente necessario. Ma questa tortuosità della sua mente è un habitus o nasce da una dolorosa esperienza? L’episodio di Polifemo, che precede cronologicamente ogni altro accenno a tale caratteristica, è illuminante: inizialmente le risposte di Odisseo al Ciclope sono sincere; solo dopo che Polifemo ha rivelato la sua crudeltà e l’ha insultato dandogli dell’ingenuo, l’eroe ricorre agli inganni. L’esperienza lo renderà poi prudente: non a caso la parola eidòs (“esperto”) ricorre sia nell’episodio in questione sia nel contesto del rimprovero d’Atena (6).
Finalmente abbiamo da approfondire l’idea di tlemosýne, “pazienza”. Come emerge chiaramente soprattutto ad Itaca, quando Odisseo freme di fronte alla spudoratezza delle ancelle e s’impone di calmarsi, si tratta dell’attesa vigile e forte che la situazione cambi, che sia tempo di agire con fermezza e coraggio: l’esplicito ricordo dell’episodio di Polifemo chiarisce una volta di più come tale episodio sia per più versi chiave di lettura del personaggio (7).
Un’ultima osservazione: alcuni tratti del mito di Odisseo, noti da autori piu tardi, sono in Omero appena accennati, e in contesti non sicuramente omerici (8), o mancano completamente: così la discendenza dal maligno Sisifo, la falsa accusa di tradimento architettata contro Palamede, l’inganno operato contro Filottete, il sacrilego furto da Troia della statua di Atena, la parte odiosa svolta nell’uccisione di Ifigenia, di Polissena o di Astianatte. E’ impresa disperata chiedersi se Omero conoscesse questi episodi o per lo meno il legame di Odisseo con essi, così come chiedersi se l’immagine che il poeta ci dà del personaggio è sua innovazione o se tale gli era pervenuta dalle fonti preletterarie. Quel che è certo è l’assoluta positività dell’Odisseo omerico: intelligenza e azione sono in lui sempre nella giusta luce e misura.
Negli autori successivi questa visione va gradatamente deteriorandosi. E’ purtroppo impossibile, data la ristrettezza di spazio, effettuare un’analisi puntuale del cammino che il personaggio compie nella fase più creativa della cultura greca: nei poemi ciclici, nella lirica, nella tragedia. Possiamo solo accennare ad alcune tappe. Nei poemi ciclici si va lentamente facendo strada l’idea di una partecipazione di Odisseo agli episodi negativi cui si era alluso più sopra: ma la sua responsabilità e soprattutto l’idea di una sua condanna morale non sono ancora chiaramente presenti (9). In Pindaro gli accenni sono scarsi, ma significativi nella loro negatività: per un autore che considera come massimi valori la verità e la sapienza che solo gli dei possono dare, l’accusa ad Odisseo di frode, d’inferiorità nella sophía rispetto alla sua vittima Palamede, l’accusa ad Omero di aver usato della bellezza della poesia per coprire la verità della figura d’Odisseo, sono assai chiare: ciò che è dono divino non può essere manipolato dagli uomini ai propri fini (10).
Ma è soprattutto la tragedia che conferisce al personaggio connotazioni fortemente negative, trasformandolo in una figura maligna e sinistra. Anche se le tragedie di Eschilo dedicate a lui non sono pervenute, già la scelta degli episodi e gli scarsi frammenti sono abbastanza significativi (11). Nell’Aiace di Sofocle Odisseo subisce un’evoluzione, una maturazione nel corso della tragedia: il vedere il proprio nemico, Aiace, prima colpito dagli dei in quella che per lui è la massima qualità umana, l’intelligenza (Aiace infatti impazzisce), poi suicida per il disonore, fa crescere anche Odisseo, che si rende conto della precarietà dell’uomo in tutti i suoi aspetti: donde il rispetto per il cadavere di Aiace e la proposta di seppellirlo; ma la maturazione presuppone uno stato iniziale differente: e il giudizio che il Coro dà di lui, la diffidenza con cui ascolta le sue parole fin quasi alla fine, fino a persuadersi della sua buona fede, sono chiari segni dell’immagine che ormai il personaggio aveva assunto (12). Nel più tardo Filottete non c’é più alcun ripensamento: Odisseo è costantemente un consigliere d’inganni, che tenta di rendere simile a sé il giovane e generoso Neottolemo. Sapienza e pazienza-coraggio sono rivisitati: solo la menzogna permette di acquisire fama rispetto alla prima qualità; la seconda consiste nel rinunciare ai propri ideali (13). Che cosa è avvenuto fra le due tragedie? La crisi della polis ateniese, crisi culturale e politica insieme, ha portato Sofocle ad un’amara meditazione sul valore e sul limite dell’uomo, testimoniata da tragedie intermedie come l’Antigone o l’Edipo re: l’intelligenza e l’agire umano sono precari, e possono porsi in contrasto con le leggi divine; l’uomo ha una dignità altissima ma nello stesso tempo è diviso fra il bene e il male, né e sempre chiaro e umanamente comprensibile quale sia il bene. Solo l’Edipo a Colono, l’ultima tragedia, giungerà ad una conclusione di fede pura: il Filottete è la tragedia di una intelligenza volta verso il male, oltre che di un’azione di guerra, scritta durante una guerra, che non ha nulla d’eroico o di giustificante (14).
Nelle molte tragedie, intere o frammentarie, di Euripide in cui compare Odisseo, il personaggio è ormai nettamente delineato: appellativi che rovesciano volutamente quelli omerici, costante atteggiamento d’istigazione all’inganno e alla crudeltà; i consigli di pazienza sono, ironicamente, rivolti ai vinti. Molti critici hanno voluto vedere nell’Odisseo euripideo un riferimento a personaggi contemporanei, ad esempio ad Alcibiade nel frammentario Palamede: e questo è possibile. Ma più al fondo c’é il dubbio del poeta sulla sophìa (“c’è una sapienza che non è sapienza” afferma nelle Baccanti, v. 395), il disgusto per la vita politica della polis divenuta sofisma e demagogia, un’ansia di conoscere la verità disillusa dall’incomprensibilità del reale (15).
Odisseo diviene così, per i poeti greci, un segno di contraddizione: valori saldamente positivi in Omero, in cui parole come métis (“intelligenza”) esprimono concetti univoci, termini come délos (“inganno”) non hanno in sé alcun giudizio negativo, i derivati dalla radice tla- nelle accezioni di “pazienza” e di “ardire” sono senza sfumature di eccesso, s’incrinano: il rischio della hybris, l’assenza del senso del limite, s’accentua nel pensiero e nell’azione dell’uomo. Non è Odisseo a modificarsi: sono le sue caratteristiche originarie, e sono anche la politica, la guerra, la filosofia a rivelarsi, all’uomo del VI e soprattutto del V secolo, una realtà precaria e intrisa di male (16).
Com’altrui piacque
Dante ignorava la letteratura greca, e non ebbe quindi la possibilità di attingere direttamente la complessa evoluzione-involuzione del personaggio che siamo andati delineando. E’ probabile che non conoscesse neanche le tarde opere attribuite a Ditti e a Dares, rielaborazioni in chiave antiomerica del mito troiano e fonti del ciclo troiano medioevale (17). Conobbe la figura di Ulisse e se ne formò un giudizio attraverso la mediazione degli autori latini, a loro volta ispirati chi a Omero chi ai poeti greci successivi: e se Cicerone, o Orazio, o Seneca accennano a Ulisse come modello di pazienza, temperanza e desiderio di conoscenza, Virgilio nell’Eneide dà un’immagine composita, fortemente negativa nel contesto della caduta di Troia (con riferimenti significativi ad episodi quali il processo di Palamede o il furto del Palladio, oltre naturalmente al cavallo di legno) o nell’accenno pieno d’avversione e timore all’isola d’Itaca; sfumata in compassione per l’esilio e di ammirazione per le imprese nelle parole dell’ex-compagno Achemenide; e Stazio, nell’Achilleide, ci presenta un Ulisse operatore d’inganni insieme con Diomede, ma pur sempre a vantaggio della spedizione greca, cui viene reso Achille. Nel complesso la mentalità pratica, tendenzialmente pragmatica, romana rivaluta Ulisse: non a caso le parole più dure contro di lui sono messe da Virgilio in bocca al traditore Sinone, o da Ovidio in bocca al rivale Aiace, in quell’esercitazione retorica che è il dibattito fra Ulisse ed Aiace per il possesso delle armi d’Achille nelle Metamorfosi. In Ulisse la concreta morale romana, di stampo vuoi epicureo, vuoi stoico, vuoi accademico ma in chiave latina, trova, o sottolinea, qualità a lei vicine, vale a dire, come si accennava prima, la resistenza alla fatica, alla sventura e alle passioni, ed anche l’aver visto e conosciuto città e costumi di uomini; la durezza del guerriero, l’uso e l’abuso dell’astuzia, sembrano notazioni marginali, ormai d’obbligo ma secondarie; piuttosto traspare la simpatia per l’esule, visibile, oltre che nel passo virgiliano, in molti accenni nelle opere di Ovidio dall’esilio (18).
La fonte immediata dell’episodio dantesco della morte di Ulisse è un altro passo di Ovidio (19): quando Enea giunge a Gaeta “che non aveva ancora il nome della nutrice”, incontra un compagno di Ulisse, Macareo, che gli narra l’episodio di Ulisse e di Circe e termina dicendo che la maga aveva preannunciato ai Greci, “pigri e tardi” per l’attesa, una lunga e pericolosa navigazione, per cui egli ha preferito fermarsi: e di Ulisse altro non dice e non sa. Da questa vaga predizione di Circe, che sostituisce quella ben più circostanziata dell’Odissea, prende le mosse l’immaginazione dantesca: ché l’antichità ignorava un non ritorno di Ulisse in patria, o anche un suo definitivo ripartire; al massimo, traendo spunto dall’omerica predizione di Tiresia all’imbocco del regno dei morti, aveva pensato ad un viaggio cui Ulisse era costretto per placare la collera del dio del mare, talvolta anche ad altri brevi episodi di allontanamento da Itaca, ma sempre per motivi contingenti e non volontari, e conclusi comunque con un definitivo rientro in patria. E’ interessante però notare come la profezia di Tiresia termini con l’ambiguità di ogni pagana profezia, parlando della morte di Ulisse “lontano dal mare” o, con diversa interpretazione, “venuta dal mare”, quasi ad aprire il campo a varianti del mito che in realtà nessun autore antico scelse di operare (20).
Dante ripercorre, illuminato dall’esperienza di fede, il cammino che la cultura greca aveva percorso “a tentoni”, secondo le parole di S. Paolo all’Areopago. La precarietà della ragione e dell’agire, il pericolo insito nelle più alte manifestazioni umane ‒ l’amore come l’impegno politico, la fedeltà al proprio signore come la scienza ‒ quando divengono criterio assoluto e totalizzante, stanno al fondo della concezione del poema, come vita vissuta, sofferta e giudicata. Eppure ragione e agire, amore e impegno, fedeltà e desiderio di conoscenza sono doni e dignità grandissimi, se liberamente inseriti in un disegno salvifico. L’Ulisse di Dante nasce così, in una visione sintetica che supera ogni antica e moderna contraddizione, recupera tutto il positivo di una tradizione millenaria, pone in giusta luce e motiva il negativo e l’errore, elimina ogni anacronismo scegliendo come segno del limite un divieto già pagano: “acciò che l’uom più oltre non si metta”. Non c’è contrasto fra il consigliere di frodi e l’uomo che considera suprema caratteristica dell’umanità il “seguir virtute e canoscenza”. L’intelligenza in tutte le sue accezioni e le sue valenze è posta da lui come il massimo valore, a cui tutto è sottomesso, la lealtà verso nemici e amici come il rispetto degli dei, gli affetti e i doveri familiari come i confini da non varcare (21). Il Dante politico e uomo di corte, il Dante filosofo e ansioso del vero resta turbato:
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a cio ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi… (vv. 19-22).
La scoperta del vero, il superamento del limite, la realizzazione della suprema conoscenza, folle sogno di Ulisse che tutto gli ha sacrificato e tutto vi ha perduto, riusciranno a Dante: ma non da solo, né in “compagna picciola”. Al Purgatorio, da cui, “com’altrui piacque”, era nato il turbine che aveva fermato Ulisse, segno dell’inconoscibilità all’uomo del mistero eterno, Dante giungerà per un piano di salvezza: e come primo gesto gli sarà chiesto di cingersi con una corona di sottomissione. Dante compie il gesto “com’altrui piacque”, ubbidendo all’inconoscibile che sceglie di rendersi conosciuto (22).
Si diceva prima che Dante ha ripercorso il cammino degli antichi greci. La meditazione che egli opera sulla ragione e sull’agire dell’uomo è simile in modo impressionante alla meditazione antica, ma la speranza, la certezza che anima il poeta cristiano agli antichi non è stata data. Ulisse non aveva la possibilità di giungere dove Dante giunge: salvezza e saggezza (connesse per il greco, in cui sophron, “saggio”, significa “che ha salva la mente”) erano per lui il frenarsi, il fermarsi: del resto anche Virgilio, il dantesco simbolo della ragione, non accompagna Dante per tutto il viaggio e, in vita, è riuscito solamente a illuminare chi veniva dopo di lui, ma non ha conosciuto la via che la Rivelazione ha aperto (23). Come e diversamente da Virgilio, Ulisse evoca la condizione dell’uomo precristiano, la cui massima saggezza era l’accettazione del limite, la cui massima colpa era il negarlo. Ma così Dante ci dà un personaggio costruito su fonti antiche ‒ ambigue e non originali ‒, ripensato nella problematica fondamentale, ma anche diverso e nuovo. L’Ulisse omerico ha resistito alle sirene, è tornato in patria, conosceva se stesso: quello dantesco, consigliere d’inganni come nei poeti postomerici, è anche l’uomo teso alla suprema realizzazione di sé e per ciò stesso violatore dell’antica saggezza. Alla sintesi dell’antico si aggiunge una meditazione sull’uomo di sempre, e in particolare su se stesso e sull’inquieta epoca che si apre davanti a lui.
Sei secoli dopo la creazione dantesca, presso il lager nazista di Buna Monowitz, vicino ad Auschwitz, si svolge una straordinaria lezione d’italiano, che usa come strumento didattico il Canto d’Ulisse (24). Primo Levi, Häftling il cui nome è un numero, testimone e partecipe di una grandiosa opera di annientamento morale e fisico di chi una volta era un uomo, si trova, in una sorta di breve pausa, ad insegnare la propria lingua ad un deportato francese: e sceglie come testo i frammentari ricordi scolastici del passo dantesco. Rivissuta nel lager, la vicenda di Ulisse acquista significati nuovi: il divieto e il folle desiderio di superarlo sono esperienze tragicamente concrete, il “mare aperto” e la “montagna, bruna per la distanza” evocano ricordi lontani; ma la terzina della dignità dell’uomo è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”. E soprattutto il maestro-Häftling si ferma sconvolto sul “com’altrui piacque”, cercando disperatamente “prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più” di far capire all’altro “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”. La dignità dell’uomo e il mistero di Dio e della Sua volontà penetrano per questa via inconsueta, attraverso il pagano Ulisse, il cristiano Dante, l’ebreo Levi, fra gli ingranaggi di una macchina assurda e disumana.
Il consigliere
La sintesi dantesca non si ripete. Gli autori che nella letteratura occidentale reinterpretano la figura di Ulisse ormai conosciuta negli originali greci o in traduzione colgono di questo complesso personaggio solo un aspetto: il consigliere, a volte negativo e sinistro, a volte saggio e costruttivo; l’esule roso dalla nostalgia; l’uomo dall’inesausto desiderio di conoscenza. Un libero tentativo di sintesi nuova lo troviamo solo nella creazione joyciana di Leopold Bloom, in cui però i motivi omerici sono intrecciati a motivi ebraici e irlandesi, Ulisse a Parnell, e i puntuali riferimenti agli episodi dell’Odissea (peraltro soppressi dall’autore nell’edizione definitiva) coesistono con la lettura delle vicende di Bloom come momenti del rituale ebraico. La saggezza borghese di Bloom, il suo desiderio di novità, i sogni d’impossibile evasione, i consigli dati all’inquieto Dedalus-Telemaco in cui rivive il figlioletto morto undicenne, sono compresenti nel “viaggio” di una giornata all’interno di Dublino: e alla fine Leopold-Ulisse rincasa, supera il desiderio di ripartire e sparire, supera bonariamente l’idea di vendicarsi della moglie infedele e si ferma; è Telemaco invece ad andarsene.
Le altre riletture del mito di Ulisse ‒ nella sua veste più tradizionale ‒ sono, come si diceva, ad una dimensione. Dell’Ulisse consigliere scegliamo un solo esempio (25), certamente il più significativo e approfondito: il personaggio creato da Shakespeare in Troilo e Cressida. L’opera, che fa parte delle black comedies o problem plays, è composita e di difficile lettura. Il motivo dell’amore e dell’infedeltà, l’elemento comico rappresentato dal mezzano Pandaro cui è affidata anche la battuta conclusiva, sono calati nell’impianto dell’Iliade, sfide, battaglie, ambascerie, morti di Patroclo e di Ettore, con una folla di personaggi e un ritmo che diviene, alla fine, convulso e dispersivo. Su tutto si leva la voce dissacrante di Tersite, il fool, che ha per ognuno una parola di disprezzo e che così giudica l’intera vicenda: “sempre guerra e lussuria: non c’è null’altro che resti di moda” (Atto V, scena II). In questo contesto la figura di Ulisse è stata interpretata dai critici nei modi più disparati, in chiave negativa o positiva, come la voce dell’autore o come il più bieco fellone. Certo, un po’ dell’antica contraddizione aderisce al personaggio, né potrebbe essere altrimenti in un’opera che sembra avere come protagonista la debolezza umana: Ulisse è un dogfox, un “volpone”, come lo definisce Tersite (peraltro una delle sue definizioni meno malevole), ma i suoi consigli sono accorti e prudenti, saggia, soprattutto nell’ottica del Seicento, la sua idea di governo, i suoi inganni hanno in fondo uno scopo pedagogico e non sono mai distruttivi, i suoi giudizi sulle persone sono, nella loro esperta lungimiranza, sempre esatti. Un episodio in particolare: di fronte a Troilo impaziente di rivedere la donna amata, che si trova nel campo greco e che un’ambasceria gli dà l’opportunità di reincontrare, l’anziano nemico, che intuisce e sa, sceglie la via più brusca per informarlo: lo conduce presso la tenda di Cressida e lo fa assistere al colloquio fra la donna e Diomede, che infrange duramente i sogni dell’amante. Vi è stato chi ha veduto del sadismo nella scelta di Ulisse: ma a Troilo la presenza di Ulisse offre, oltre ai consigli di pazienza e ad un quieto e misurato realismo, la possibilità di sfogo: l’uomo che ha vissuto, che conosce la vita e non si fa illusioni, aiuta con la sua presenza, e anche con la durezza della prova a cui lo sottopone, il ragazzo illuso. Chi ha visto nel rapporto Ulisse-Troilo una somiglianza col rapporto Odisseo omerico-Telemaco o anche Bloom-Dedalus si è forse avvicinato al vero: noi aggiungiamo che si è qui molto lontani dal cinismo del rapporto Odisseo-Neottolemo nel Filottete sofocleo (26).
Il ritorno in patria
Il tema dell’esilio e della nostalgia, pur così importante nell’Odissea, cosi affettuosamente sentito anche dai latini, come si è visto, non ebbe invece grande sviluppo nella tradizione successiva. Fra i non molti autori che colsero del personaggio soprattutto quest’aspetto ne scegliamo due, Foscolo e Pavese (27).
In realtà Foscolo allude due volte, come si sa, ad Ulisse: e il riferimento dei Sepolcri riprende la visione negativa della figura mitica. Se Aiace, suicida perché soccombente nella contesa per le armi di Achille, è un “generoso”, Ulisse ha vinto per il “senno astuto” e il “favor di regi” (v. 222), ingiustamente e, forse, con l’inganno. Le armi assegnate a chi meno le meritava sono tolte dagli dei alla “poppa raminga” (v. 224) e portate dal mare sulla tomba di Aiace. “Poppa raminga”: questa definizione della nave d’Ulisse è l’unico nesso che leghi l’“Itaco” dei Sepolcri all’Ulisse di A Zacinto. L’antica contraddizione si perpetua nel Foscolo, che utilizza il mito come segno, né gli chiede un’assoluta coerenza. Nel carme la figura centrale del passo in questione è Aiace, il generoso cui la morte è stata giusta dispensiera di gloria: nel sonetto la figura centrale è il poeta stesso, esule in modo definitivo dalla sua terra, dalla sua isola: e Ulisse diviene per lui un segno, l’esule nato come lui in un’isola ionia, come lui costretto a vagare e soffrire, ma uscito “bello” dalla sofferenza, ma tornato a baciare la sua terra, mentre Foscolo non tornerà.
Anche per Pavese il mito è un segno: “Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale”. Così nei Dialoghi con Leucò l’autore usa dei miti greci come guida all’immaginazione e come possibilità di approfondire e comprendere ed esprimere la realtà. Due sono i dialoghi ispirati ad Odisseo (questo il suo nome in Pavese): L’isola e Le streghe. Il primo ha come protagonisti Calipso e Odisseo: l’antica dea, che ha rinunciato alla potenza e vive l’immortalità come un eterno istante, come un sonno senza risveglio, è suo malgrado resa inquieta dalla presenza di lui, il mortale che ha un destino, nostalgie e rimpianti; e gli chiede di restare, di accettare un’immortalità consistente nel limitare i propri orizzonti, nello scambiare un’isola con un’altra: cambio positivo, giacché non ha in sé il rischio della disillusione, del trovare il passato diverso da come lo si ricordava: tema caro a Pavese, che ritroviamo ne La luna e i falò. Ma Odisseo rifiuta, perché capisce che l’immortalità di Calipso è solitudine non rassegnata, e perché ha Itaca nel cuore. Nel secondo dialogo Circe parla a Leucotea (la Leucò che dà titolo al libro) dell’incontro con Odisseo: l’amore che li ha uniti per un anno, lei dea col superiore sorriso delle divinità che in nulla si lasciano coinvolgere, lui mortale con la serietà degli uomini che s’impegnano con tutte le persone e le cose, l’ha segnata al fondo: si è lasciata chiamare Penelope, ha alimentato la nostalgia di lui, ne ha ascoltato i ricordi in cui persino il cane aveva un nome. Ed ora che Odisseo è tornato a casa, l’ha trasformato in ricordo, lei che non l’aveva trasformato in maiale né in lupo: e ricordare è caratteristica degli uomini, come Leucotea l’ammonisce (28).
Il viaggio
L’ansia di conoscenza dell’Ulisse dantesco segna profondamente la letteratura successiva: certamente l’immagine del personaggio che prevale nella tradizione occidentale, non solo letteraria ma anche popolare, è quella del viaggiatore avventuroso, curioso, avido di esperienze e ribelle al riposo o ai divieti: un personaggio variegato e sfumato, a volte parente di Gulliver, a volte degli esploratori o dei corsari, a volte di Sinbad o dell’Ebreo errante. Al di là delle varietà una vicenda accomuna tutti questi Ulissi: la nuova e definitiva partenza dopo il ritorno ad Itaca (la variante dantesca per cui il ritorno addirittura non avviene è dopo di lui abbandonata). E’ curioso come l’atteggiamento che da Ulisse prende nome, l’ulissismo, sia estraneo al personaggio mitico nella sua gestazione antica. La navigazione-simbolo degli antichi, la spedizione che ha infranto un tabu, non è quella di Ulisse: su un piano mitico è quella degli Argonauti, la prima in assoluto nella cronologia antica (e se ne ricorderà il Monti nell’ode Al Signor di Montgolfier), su un piano storico è quella di Serse, che ha violato i limiti imposti ai Persiani e le leggi della natura, o quella di Alessandro, che è giunto ai confini del mondo conosciuto e ha preteso onori divini. Il viaggio di Ulisse, che pure arriva al misterioso paese dei Cimmerii dove si apre l’Aldilà, come il viaggio di Enea, che pure penetra negli Inferi, sono sì avvertiti dagli antichi come straordinari, ma senza alcuna caratteristica di eccesso, o di ansia di novità. L’ulissismo non è una nozione antica, né dalla maggioranza degli autori classici sarebbe accolto in modo positivo.
Soprattutto l’Ottocento e il Novecento hanno scelto questa immagine del personaggio. Si tratta del resto di una tematica continuamente presente nella cultura a noi più vicina nel tempo, anche quando il riferimento esplicito ad Ulisse manca; l’idea di una meta perseguita, di una sfida, di un’ansia di procedere e di conquistare permea molta parte della letteratura dell’occidente: basti pensare a Melville, o ad Hemingway, o a Buzzati. Come primo esempio scegliamo l’Ulysses di Tennyson. E’ il monologo del vecchio re, ormai da anni rientrato in patria e reinserito nel suo compito di legislatore, ma che si sente profondamente estraneo e al compito e al suo popolo. Egli che molto ha visto e conosciuto, che è divenuto un nome, che è parte di tutto ciò che ha incontrato, è tuttavia uno sconosciuto per i suoi; a loro rimarrà Telemaco, che più del padre è adatto a regnare; ad Ulisse si apre il mondo non ancora esplorato, “il cui confine si dilegua sempre e sempre quando io avanzo” (vv. 20-21). L’appello che rivolge ai compagni è per certi versi simile all’ “orazion picciola” dantesca: ma anche se una direzione è prevista ‒ l’occidente ‒, anche se una meta ‒ e quale meta! le isole dei morti ‒ è ipotizzata, pure né la direzione né la meta né la stessa conoscenza di un mondo nuovo sembrano l’essenziale, lo scopo ultimo del viaggio. Lo scopo è non fermarsi, non arrugginire come una spada nel fodero, esercitare la volontà sfidando il tempo e la vecchiaia come una volta a Troia si sfidavano perfino gli dei, sfruttare la vita fino all’estremo istante della morte, dovunque e comunque essa venga.
La lirica di Tennyson fu conosciuta e amata dal Pascoli, che la tradusse: e più volte il Pascoli riprese il personaggio. La tematica di una meta inseguita continuamente, che “si dilegua sempre e sempre quando io avanzo”, per riprendere le parole di Tennyson in chiave pascoliana, è fondamentale nel nostro poeta: ripensiamo alle due poesie intitolate La felicità, chimera sempre inseguita che si rivela infine coincidente con la vita stessa, alla ricerca affannosa e infinita del vero ne Il libro, dove non a caso ricorre il tema delle sirene, all’ascesa solitaria, a cui non seguirà discesa, ne La piccozza, alla delusione del conquistatore giunto al termine del viaggio in Alexandros. Il desiderio del mistero convive nel poeta con la certezza, a volte angosciata, a volte malinconica e rassegnata, che esso non è attingibile: e se nella piccozza caduta all’uomo morente si riflettono le stelle dell’Orsa, quasi un’apertura su una meta più grande di quella raggiunta, il più delle volte la meta s’inverte, è il cammino già percorso, è la casa da cui si è partiti: il significato della ricerca è nella ricerca stessa, oppure nella propria origine. Così nel lungo poema, l’opera più importante dedicata a Ulisse, che ha per titolo L’ultimo viaggio, è un viaggio assai strano quello che l’antico eroe decide di compiere. Da tempo è tornato ad Itaca, non una ma due volte, dopo aver adempiuto al compito impostogli da Tiresia per placare il dio del mare: da nove anni vive di ricordi e dell’attesa della morte. Al decimo il ritorno delle rondini lo spinge a ripartire: ma non per terre nuove. Il suo viaggio intende ripercorrere le tappe del viaggio precedente, per rivedere i luoghi e le persone, affascinanti e misteriosi, che gli hanno dato avventura, e amore, e gloria. Ma le prime tappe sono deludenti: non ritrova né Circe né il Ciclope: tutto è divenuto umano e banale. La delusione lo porta a trascurare frettoloso tutte le altre tappe, teso ormai ad una sola meta: le sirene, il vero, la possibilità di conoscere se stesso, di capire chi è. Ma anche questa possibilità gli viene negata dalle due sirene che lo osservano, immobili e silenziose, naufragare sugli scogli. Il cadavere dell’uomo è accolto, portato dal mare, da Calypso, che geme su chi ha rifiutato da lei l’immortalità e grida la superiorità della non-vita sulla morte. Dunque l’ultimo viaggio è una nuova spedizione e insieme un ritorno sui propri passi, nella speranza vana di rivivere il già vissuto e di cogliere un’occasione perduta, la parola delle sirene. Ma il passato non si ripete, le sirene tacciono, la morte non ha compensi (29).
Più esplicito, in altri poeti del Novecento, è il riferimento soggettivo, il confronto o l’identificazione fra il mito e l’io. D’Annunzio immagina, nel primo libro delle Laudi, un incontro con Ulisse, che naviga nello Ionio: ma il protagonista è l’io narrante, che intuisce nel personaggio mitico uno simile a sé e gli chiede di metterlo alla prova e, se lo riconosce suo pari, di prenderlo seco, altrimenti di ucciderlo; Ulisse, che aveva mostrato la propria superiorità non degnando di uno sguardo i nuovi venuti, a questa profferta volge gli occhi, pur senza rispondere, a “quel giovane orgoglio chiarosonante nel vento”: un orgoglio vicino al suo (30). E Saba intitola Ulisse una breve lirica in cui l’identificazione col personaggio è compiutamente avvenuta: come da giovane egli aveva navigato lungo le coste dalmate, così ora, rifiutando il porto, lo spinge ancora al largo “il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore”: il viaggio reale della giovinezza diviene l’impegno costantemente aperto dell’età matura. Il titolo è evocativo di un retroterra culturale che dà spessore all’autobiografia: e l’Ulisse prescelto è ancora, come per gli autori precedentemente citati, quello dantesco, ma, come in quasi tutti, spogliato di un giudizio trascendente (31).