di Angelo Scola
Intervento di Mons. Angelo Scola,Intervento al Meeting di Rimini del 1998:
Due posizioni umane di fronte al destino:
– Prometeo sfida Zeus per compassione degli uomini
– il Risorto obbedisce al Padre per salvarli
1. “Uomini simili a forme di sogno”
Due posizioni umane di fronte al destino: Prometeo sfida Zeus per compassione degli uomini; il Risorto obbedisce al Padre per salvarli.
Prometeo – il nome (pre-veggente), già ne indica la dote principale – era un semidio, figlio di Titano. Ce ne parla Esiodo, nella sua Teogonia, ma soprattutto Eschilo nella geniale tragedia Prometeo Incatenato.
Egli aveva appreso da Atena tutte le arti utili alla civiltà (dalla matematica alla medicina, dall’architettura all’astronomia, dall’arte della navigazione alla metallurgia…) e le aveva diffuse tra i mortali.
Afferma il Prometeo di Eschilo: “…gli uomini prima non capivano e io li ho resi coscienti e padroni del loro intelletto… Prima guardavano e non vedevano, ascoltavano e non sentivano, simili a forme di sogno, vivevano a caso una vita lunga e confusa”.
Dunque il figlio di Titano, mosso a compassione per i mortali – simili a forme di sogno, che vivevano a caso una vita lunga e confusa – si schiera dalla loro parte contro Zeus che odia gli uomini, perché sente la loro salvezza (il diventar coscienti e padroni di sé) come una minaccia al suo potere. Prometeo si fa così salvatore degli uomini, sottraendo agli dei il fuoco, fattore genetico di civiltà. Per punirlo, Zeus decide di infliggergli un supplizio atroce: lo fa incatenare nudo sulla vetta più alta del Caucaso, condannandolo a soffrire il freddo e la fame che aveva voluto risparmiare ai mortali. Ogni giorno un enorme avvoltoio viene a cibarsi del suo fegato immortale che ogni notte si rigenera.
Ma Prometeo, la cui condanna è definita, resiste, indomito nella volontà, contro il sopruso del capriccioso Zeus.
Chi di noi non si sente appassionatamente vicino al semidio greco, che paga di persona per il bene degli uomini fragili e bisognosi e, anche nel supplizio eterno, non rinuncia, con volontà titanica e solitaria, ad un atteggiamento di sfida?
Non è questa una posizione umana carica di eroica dignità di fronte al destino che, almeno per un ultimo aspetto, ci è imposto? Nessuno, infatti, può evitare la fragilità, il dolore, la morte. Tutti vi siamo esposti e, in qualche modo, condannati.
Non per nulla un profondo conoscitore del teatro, H.U. von Balthasar, ha scritto che la tragedia greca è quasi un sacramento, cioè un simbolo efficace dell’umana, drammatica condizione. La stessa tragedia di Cristo è ben lungi dal distruggere quella di Prometeo. Anzi Gesù, soffrendo come un reietto sul palo ignominioso della croce perché gli uomini siano salvati, porta fino in fondo quella compassione per la condizione umana indomabilmente perseguita da Prometeo.
2. Il “volere solitario”: prometeismi attuali
Ma ha ancora senso oggi, soprattutto nelle moderne società avanzate del nord del pianeta, parlare di Prometeo e della sua compassione per gli uomini? Infatti – drasticamente ridimensionato dall’ottimismo scientista dopo le guerre mondiali, il disastro di Hiroshima, l’Olocausto, i Gulag e il crollo delle ideologie – la stessa parola compassione (etimologicamente “patire con”) sembra essere rimasta vittima di quella specie di irradiazione maligna, in grado di modificarne il significato originario, che ha colpito altre parole fondamentali nell’umana esperienza. (Penso a verità, amore, libertà, giustizia, ecc.).
E che dire della categoria di salvezza? Non ha forse subito lo stesso destino?
Nella tragedia di Eschilo il coro delle Ninfe Oceanine, testimoni sagge e pietose delle sofferenze di Prometeo, ci offre la risposta:
“Nel tuo volere solitario, onori troppo gli uomini, Prometeo.
Amico mio, guarda che ingrata grazia (oxymoron): dov’è la forza, dov’è l’aiuto degli effimeri? Non hai veduto la fragilità simile a un sogno in cui è impigliata la cieca stirpe degli uomini?”
Già poco prima Eschilo aveva definito i mortali come “simili a forme di sogno”.
Ecco il nesso tra il Prometeo di duemila anni fa e tutti i prometei (e i prometeismi) di oggi: il sogno sembra essere oggi più che mai la cifra distintiva dell’umana condizione. Ne segnala non solo la fragilità radicale (ontologica) – già citata da Eschilo -, ma anche il suo illusorio antidoto: vivere sognando, come fuga anestetica contro questa precarietà ontologica.
Il fenomeno sociale del New Age cui, secondo studiosi documentati, più di mezzo miliardo di persone ispira la propria esistenza, può essere considerato – soprattutto nella recentissima versione del Next Age – l’emblema della vita intesa come sogno nei due sensi indicati.
“Il Next Age può essere descritto come il passaggio del New Age dalla terza alla prima persona singolare… Il singolo può entrare nel suo Next Age personale e raggiungere uno stato superiore di prosperità, salute, soddisfazione (anche sul piano sessuale, che nel Next Age viene spesso in primo piano). La società può anche andare in rovina; ma la singola persona che ha accesso a determinate tecniche entrerà comunque in una sua età dell’oro personalissima e privata”. Bastano Pensiero positivo (celebrato da cantanti di successo) e self help. Insegnano a “concentrarsi sulle proprie azioni e responsabilità individuali, senza troppo preoccuparsi del contesto sociale” (ibid.). Alla fine lo slogan del New Age diventa: “ciascuno crea la sua realtà”.
Ma su cosa si basa il grande successo di questo spiritualismo consolatorio? A quale condizione si può pensare di poter creare la realtà, anziché accoglierla? Solo se si enfatizza a dismisura una volontà separata dall’intelligenza, ma, soprattutto, dalla totalità della persona e della società.
Anche quando produce fenomeni sociali di massa (New Age), il clima culturale dominante resta spesso espressione di un volere solitario (separato, astratto), lo stesso che Eschilo attribuisce anche a Prometeo: “Nel tuo volere solitario, onori troppo gli uomini… amico mio…”.
Ma Prometeo fallisce. Perché?
Perché cerca la salvezza degli uomini lungo la stessa strada della loro infermità: quel volere solitario, appunto, che rende la realtà e l’io inconsistenti come un sogno. Medico appassionato, propone una medicina che, tragicamente, incrementa la malattia. È, il suo, l’emblema di tutti gli umani tentativi – da quelli eroici dei grandi benefattori dell’umanità a quelli banali di ognuno di noi – di salvarsi da sé (autosoteria).
Certo, il volere solitario del Prometeo di oggi non indica più l’energia titanica dell’io che si erge, solo, nella sfida estrema contro l’Altro – sia pure l’Onnipotente, terribile Zeus -, ma piuttosto lo sforzo di una volontà estenuata – che resta in balia di se stessa anche quando si confonde nei riti di massa – di fronte ad una realtà concepita come una ‘tabula rasa’.
Il Prometeo attuale è una monade chiusa: sordo all’appello della realtà a tal punto da illudersi di poterla creare.
Così all’accoglienza umile ed indomita che la tenace presenza del Mistero nel segno della realtà domanda, si sostituisce la proiezione del nostro sentimento di un Dio “tappabuchi”. La drammatica bellezza dell’amore è ridotta ad una sequenza di effimere emozioni che, agevolmente, si coniugano con comportamenti erotici non privi di tratti animaleschi. L’affascinante intrapresa di costruire una società per quanto possibile giusta e pacifica, si trasforma in una legalistica lotta, talora mortale, tra guardie e ladri.
Questa sorta di debolismo ontologico – prima che gnoseologico o etico – connota gran parte della cultura contemporanea (da quella degli intellettuali più à la page fino a quella dei conduttori dei talk-show più di moda). “Un nulla eravamo, siamo, rimarremo fiorendo: la rosa di Nulla, di Nessuno” (Paul Celan). Per il Prometeo che s’affaccia sulla soglia del terzo millennio la compassione è ridotta a volontaristica condiscendenza verso quella che Eschilo chiama “la fragilità simile a un sogno degli effimeri”.
In suo nome viene attribuita la palma di eroi e di salvatori a tutte quelle figure che o blandiscono le ferite di cui l’io è ricoperto o esaltano illusorie scorciatoie verso la realtà.
Per procedere è ora necessario richiamare i connotati fondamentali dei fattori in gioco (la realtà e l’io, la libertà) nella loro genuina, originale fisionomia.
Lo facciamo all’interno del solco del pensiero classico e cristiano, così come l’esperienza di Chiesa viva in cui siamo stati educati ce li ha fatti riscoprire: nella loro ragionevolezza, cioè nella loro completa convenienza con la nostra umanità.
Partendo quindi da uno sguardo semplice – non alterato da preconcetti, ma attento alla nostra esperienza elementare – chiediamoci ora:
a. che cos’è la realtà? poi, facendo eco all’insuperabile verso leopardiano,
b. “ed io che sono?” ed infine
c. come si attua la libertà umana?
3. Realtà
Tutto ciò che esiste è una comunicazione che l’Essere fa di sé attraverso la realtà. Sorprendendola in azione dentro uno spaccato del nostro quotidiano, potremmo descrivere la realtà come un tessuto a tre fili: rapporti, circostanze e situazioni (complesso di circostanze e di rapporti).
La realtà sempre ci precede, ci sorprende e ci pro-voca (letteralmente ci precede chiamandoci, la preposizione greca pro significa davanti): interpella la nostra libertà, chiedendole di aderire. C’è infatti in essa una incontenibile dinamica comunicativa. Verità è, di conseguenza, la realtà in quanto si fa conoscere togliendosi il velo, comunicandosi (Aletheia, il termine greco che corrisponde all’italiano verità, vuol dire proprio non stare nascosto, cioè svelarsi).
L’essere dunque, mi si svela, mi si fa incontro nei singoli enti: il tramonto sul mio lago, questo Auditorium, la musica di Mozart, il tuo volto, ecc.
Io conosco te e, proprio attraverso di te, l’Essere mi dice qualcosa di sé; mai però in maniera immediata, diretta ed esauriente. Usiamo un’espressione sintetica: l’Essere mi si comunica sempre nel segno. Ogni realtà, tu, sei segno dell’essere.
Dalla dinamica comunicativa tratteggiata emerge, dunque, chiaramente il carattere di e-vento proprio della realtà (dalla realtà [e-] l’essere mi viene incontro [venio]). E la verità è un rapporto: il rapporto nel quale la realtà è conosciuta dal soggetto in modo adeguato (adaequatio rei et intellectus).
Sintetizzando possiamo dire che l’uomo vive immerso nella realtà che chiede di essere abbracciata nell’atto della libertà. Così si apre per lui la strada alla conoscenza della verità.
Per san Tommaso d’Aquino, e per tutti i pensatori della nostra grande tradizione, il livello più elementare della verità consiste proprio nell’abbandonarsi delle energie costitutive dell’io al reale: adaequatio rei et intellectus.
Ecco affacciarsi alla nostra riflessione il grande ed elementare principio del realismo cristiano, che non è anzitutto una teoria filosofica, ma un criterio per l’esistenza di ogni giorno.
4. “Ed io che sono?”
Più di duemila anni dopo Eschilo, ma con la stessa percezione tragica, Sartre ha defininto l’uomo “una passione inutile”. Partiamo dall’accettarne la sfida e chiediamoci: il desiderio di compimento così tenacemente radicato nell’uomo (passione) è dunque inutile perché destinato a rimanere insoddisfatto? Il suo orizzonte ultimo è la frustrazione? Allora la vita è davvero un sogno? “Che è mai la vita” si chiede Calderón. “Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande dei beni è il più piccolo perché tutta la vita è un sogno”. Nessuno può salvarsi da questo tragico destino? Il fallimento di Prometeo è dunque l’ultima parola sulla vicenda umana?
Passione, desiderio, compimento, soddisfazione sono tutti termini che rimandano ad un problema antico quanto l’uomo e, indubbiamente, sempre attuale: il problema della felicità. Sartre ci aiuta così a capire la profondità della domanda di Leopardi. “Ed io che sono?” è un interrogativo molto più penetrante di quello solito, che suona “Ed io chi sono?”. Non si può separare la domanda sull’io da quella sulla sua felicità (compimento)! Solo così essa appare la più concreta di tutte: è la questione di vita o di morte (salvezza). Gesù stesso non l’ha evitata, ma l’ha addirittura, radicalizzata. L’indeciso Nicodemo, l’inquieta Samaritana, l’astuto Zaccheo, il rude Pietro, l’intenso Giovanni… in ogni pagina del vangelo Gesù si propone all’uomo come la via, la verità e la vita, Colui che affronta simultaneamente i due corni dell’unica questione: che è l’uomo e come può essere felice?
Per cercare una risposta gettiamo uno sguardo sulla nostra esperienza. Consideriamo l’uomo, ancora una volta, così come si rivela alla nostra coscienza quando è in azione. In questo modo ciascuno di noi può agevolmente constatare in sé l’esistenza di tre dimensioni, ognuna delle quali costituita da due poli, che stanno in una certa tensione tra di loro, come i poli di una calamita. Sinteticamente: noi siamo anima e corpo (la prima polarità), uomo e donna (ecco la seconda), individuo e comunità (la terza).
Sono uno (io) ma, all’interno di questo uno, si dà un due (anima e corpo): una dualità che non spezza mai l’unità.
L’uomo è sempre identicamente una persona, ma concretamente esiste sempre e solo o come uomo, o come donna (due).
Se dilato l’originaria appartenenza del mio io dalla comunità elementare dell’uomo-donna (famiglia) alla grande comunità sociale, ancora una volta colgo l’individuo (uno) come inseparabile correlato a comunità sociali (due).
Possiamo chiamare questa legge che caratterizza la creatura, legge dell’unità duale.
La prima polarità, quella tra spirito e corpo, mostra che grazie al corpo l’uomo si percepisce come parte del cosmo e partecipa, con tutta la sua sensibilità e la sua ragione, delle leggi della natura (per esempio: per sopravvivere deve nutrirsi, come tutti gli altri esseri viventi, di cui condivide i bisogni primari). Nello stesso tempo però, grazie allo spirito, egli trascende il cosmo e partecipa di una natura spirituale (grazie alla quale, per esempio, egli è cosciente dell’insufficienza di ogni cibo – anche il più prelibato – a soddisfarne la fame profonda), natura che egli ha in comune con gli altri uomini. La formula unità duale ci permette di evitare due pericoli opposti fra loro: lo spiritualismo che disprezza la realtà del corpo e il materialismo che considera lo spirito un epifenomeno della materia. Nessuna di queste due posizioni rende ragione della natura dell’uomo.
La seconda polarità, quella dell’uomo-donna, ci dice che nessun uomo, in sé, è in grado di esaurire da solo tutto l’uomo: ha sempre davanti a sé l’altro modo, irriducibilmente diverso rispetto al suo, di essere uomo. L’io verifica dentro di sé una carenza che lo apre ad un fuori da sé. Questa evidente, originaria esperienza ci fa percepire che la sessualità non è una dimensione derivata, ma costitutiva dell’umano. Allo stesso tempo, attraverso di essa, l’uomo scopre il nesso con la generazione e, quindi, con la realtà della morte. La drammaticità della umana esistenza raggiunge a questo punto uno dei suoi momenti più alti.
La seconda polarità, uomo-donna, è anche segno primigenio della terza: individuo-comunità. Due sono i dati che essa aggiunge al quadro antropologico che stiamo tracciando. Da una parte documenta la socialità originaria dell’uomo e, dall’altra, permette di percepirne il carattere storico.
Cosa ci dice la legge dell’unità duale – attenti bene: unità duale, non dualità unificata – che caratterizza ogni creatura? Essa esprime una grande indiscussa verità: l’altro – come individuo, persona, comunità – non è solo fuori di me ma, in un certo senso, è in me. È così indicata la strada per rispondere alla domanda leopardiana di felicità: l’essere per l’altro è condizione di verità del mio io. Il desiderio di felicità costitutivo dell’uomo può trovare la propria soddisfazione solo attraverso l’altro. Ecco l’affascinante paradosso della umana condizione: il mio io sei tu.
5. La libertà
Emerge imponente, a questo punto, la questione della libertà. Proviamo a descriverne sinteticamente la dinamica. La libertà è messa in moto dalla realtà che – incontrando l’uomo – lo attrae, accende il suo desiderio. San Tommaso lo chiama amor naturalis. Si tratta qui di un desiderio ontologico, proprio dell’uomo in quanto tale, al quale la realtà si presenta come amabile. Non stiamo parlando del desiderio psicologico, che ne è solo una labile espressione!
La ragione per cui possiamo qualificare questo desiderio costitutivo come ontologico è data dal fatto che nella vita dell’uomo esso non si spegne mai: il desiderio ontologico mi apre alla totalità. Non si potrebbe, infatti, parlare di felicità o di soddisfazione (espressioni che implicano l’idea di pienezza e di compimento) se ci fosse qualcosa che sfugge alla presa del desiderio umano.
Il carattere di totalità, proprio del desiderio, dimostra che l’uomo gode di una certa capacità rispetto all’essere totale. D’altra parte, però, tutti noi sperimentiamo ogni giorno anche un’incapacità radicale a realizzare il nostro desiderio. La totalità ci eccede da ogni parte. Ci supera. Non solo perché è infinita, ma anche perché noi non riusciamo mai a possedere, del tutto e pienamente, persino un oggetto finito del desiderio…! Per esempio, tu desideri il bene della donna che ami ma, proprio mentre le dici “Ti voglio bene”, percepisci la tua strutturale incapacità di amarla. La realizzazione del desiderio di amore totale persino nei confronti di un essere limitato non è a tua disposizione.
È questo il paradosso della libertà umana: da un lato, essa è capace di adesione all’infinito; dall’altro, non può realizzare da sé questa sua capacità. La felicità, contenuto costitutivo del desiderio, non può essere prodotta dal desiderio stesso. Domanda altro da sé.
Nel cuore stesso della libertà umana ritroviamo dunque la tensione, la polarità di cui abbiamo già parlato: la felicità che io desidero come compimento (primo polo), non è automaticamente alla portata di questo desiderio che pure mi costituisce; chiede altro da sé (secondo polo).
Questa polarità, che il desiderio ontologico rivela, spiega il secondo livello della libertà, generalmente noto come libero arbitrio.
Infatti, se la libertà compie nell’adesione all’Infinito ma io posso attingere solo beni (realtà) finiti, allora il libero arbitrio deve procedere attraverso una continua scelta di beni particolari senza venir mai completamente soddisfatto.
Non rimane, quindi, che una strada per affrontare la polarità costitutiva della libertà: che sia l’Infinito stesso a comunicarsi. E, infatti, la libertà infinita attira a sé la libertà finita, ma lo fa non direttamente, bensì attraverso beni (realtà) particolari. Ogni realtà, ogni bene particolare, è allora il segno prezioso (la realtà è segno!) che apre la libertà finita a quella infinita.
A nessun osservatore attento sfugge che, nella nostra società, viene enfatizzato questo secondo livello della libertà come se fosse tutta la libertà. A questa riduzione, da una parte, ha collaborato un certo filone del pensiero cattolico che non ha tenuto adeguatamente conto del desiderio ontologico (amor naturalis) e ha considerato la libertà come “indifferenza davanti alle varie possibilità di scelta”. Dall’altra, la considerazione della libertà come “assenza di legami”, tipica della nostra epoca, ha favorito l’esaltazione del libero arbitrio separandolo dal cammino verso il fine ultimo.
Considerare il libero arbitrio (secondo livello della libertà) come se fosse tutta la libertà vuol dire, in ultima istanza, farla annegare in una serie indefinita di soddisfazioni finite che non compiono il desiderio originario (primo livello) dell’Infinito (terzo livello).
Così, per esempio, se ti innamori, questa donna – cioè un bene amabile – accende il tuo desiderio. Se tu la scegli e lei ti sceglie, è in realtà l’Infinito che ti chiama attraverso il volto amato. Se tu non prendi in considerazione questo terzo fattore, ti impedisci la totalità, cioè il per sempre e – presto o tardi – non solo l’amore, ma purtroppo anche la tua umanità si spegnerà.
6. Enigma e dramma
Guardando alla nostra esperienza umana elementare abbiamo dato fin qui una risposta a tre domande fondamentali: cos’è la realtà?, “ed io che sono?”, come si esplica l’umana libertà?
Rendendo ora più acuto il nostro sguardo possiamo cogliere nel paradosso uomo, ad un tempo, un enigma e un dramma. Il termine enigma significa (nel suo etimo greco) parlo copertamente ed indica, perciò, un nodo da sciogliere.
In che senso io sono un enigma? È evidente: lo sono perché esisto, ma non ho in me la ragione ultima del mio esistere. Ieri non c’ero, oggi ci sono, domani non ci sarò. Sono un essere che non ha in sé il proprio fondamento. Più enigma di così! Questa natura enigmatica segna l’io nel suo essere e nel suo agire. In ogni circostanza, in ogni rapporto, in ogni atto l’io si rivela, nello stesso tempo, capace di infinito, ma esposto alla finitezza. E si rivela così proprio dentro le situazioni vitali in cui ogni giorno le tre polarità (tensioni) costitutive (anima-corpo; uomo-donna; individuo-società) si fanno sentire. Non c’è bisogno di fare troppi esempi! (La malattia, l’urto delle libertà in famiglia, le incomprensioni negli ambienti, ecc.) Chiamo questa esperienza dramma, nel senso greco della parola (drao, faccio, agisco). È quindi l’enigma a rendere drammatica l’esistenza. Ma c’è differenza tra enigma e dramma. È importante notarlo! Infatti, se anche esistesse soluzione all’enigma dell’uomo, questo non toglierebbe mai il dramma che, inesorabilmente, accompagna ogni atto della nostra esistenza
Per esplicitare fino in fondo il mio pensiero consentitemi un’anticipazione: io sono convinto che Cristo scioglie l’enigma dell’uomo ma questo non significa che Egli ne pre-decida il dramma. Anzi, in un certo senso, lo radicalizza,perché vivere ogni circostanza e rapporto – in cui già il dramma si manifesta – in Gesù Cristo mi chiede, in più, di dire sì o no a Lui.
Sulle questioni capitali fin qui brevemente delineate (realtà, io, libertà), che svelano la natura enigmatica e drammatica dell’uomo, abbiamo chiamato a confronto due posizioni umane. Qui l’anti-tipo Prometeo e il tipo Cristo giocano la loro credibilità di fronte all’umanità di oggi, quasi sfinita sotto il peso di un volere solitario che rende la vita sogno. Come si gioca questa credibilità?
Prima di rispondere direttamente a questa domanda dobbiamo compiere un altro passo, proprio per prendere sul serio la questione dell’enigma e del dramma dell’uomo. E questo ci è possibile solo considerandolo nella sua storicità effettuale. Già lo abbiamo fatto dal punto di vista del singolo parlando dell’io in azione, sempre storicamente situato. Conviene ora considerare più da vicinola dimensione socio-culturale della storicità umana. Ciò ci conduce a guardare in faccia taluni tratti della cultura oggi dominante. Inoltre, proprio perché mai il dramma dell’io e della comunità può essere deciso a priori (pre-deciso), questi fenomeni socio-culturali invadono anche la vita delle comunità cristiane e le mettono alla prova, costituiscono cioè – in senso evangelico – una tentazione.
7. Spiritualismo
Per quanto possa sembrare strano – anche in molti ambiti cristiani – si predica e si pratica in modo massiccio una spiritualità disincarnata, così che Cristo non è più l’evento centrale, ma diventa un pretesto per l’elaborazione di un proprio personale cammino verso il divino. Ciò che in questo caso è condannabile ovviamente, non è il personale, ma è il disincarnato, cioè il fatto che simili itinerari spirituali non prendano sul serio il metodo (la logica) dell’incarnazione, con il quale la Trinità stessa ha voluto comunicarsi a noi in Cristo Gesù. L’affermazione di Gesù “Io sono la via” viene vanificata, ridotta – nei fatti – ad un puro modo di dire
L’esistenza in Cristo, intesa come vocazione e come missione, perde così il suo ancoraggio al concretum sacramentale e si smarrisce perché, come dice acutamente l’imperativo kierkegaardiano, “Se Dio si è fatto uomo, allora tu devi” anzitutto misurarti con questo dato.
A ben vedere questo stato di cose rivela l’incapacità di cogliere la logica dell’incarnazione che passa attraverso il segno (logica sacramentale).
I seguaci di Gesù d Nazareth furono liberamente e pazientemente accompagnati dal Maestro a cogliere la Sua divinità attraverso la Sua umanità: “In tal modo la sua umanità appare come ‘il sacramento’, cioè il segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice”.
Questa affermazione è di capitale importanza perché il cristiano viva l’appartenenza ecclesiale in libera corrispondenza filiale al Padre attraverso il dono sacramentale dello Spirito di Gesù Cristo. Nella logica dell’incarnazione ogni circostanza (evitabile ed inevitabile), ogni rapporto umano, ha forza di segno sacramentale. In ogni circostanza e in ogni rapporto Cristo accade alla mia libertà provocandola all’adesione o al rifiuto Senza pre-decidere per me, Cristo offre alla mia libertà – aperta all’infinito ma incapace strutturalmente di conseguirlo da sé – la possibilità di essere liberata.
Senza i sacramenti in senso stretto (in particolare l’eucarestia) come esperienza della Chiesa in quanto sacramento radicale, non si impara la forma sacramentale (di segno) propria di ogni circostanza e di ogni rapporto; ma, fin che non si sperimenta nel quotidiano la logica sacramentale propria di ogni circostanza e di ogni rapporto, non si ha esperienza di Cristo come evento, che libera la mia libertà chiamandola al coinvolgimento con sé. E non si riesce a cogliere fino in fondo quale dono grandioso siano i sacramenti e, soprattutto, l’Eucaristia: corpo donato e sangue versato! Viviamo nella carne! E San Giovanni ci ammonisce: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne” è Spirito da Dio, altrimenti è lo spirito dell’anticristo.
A questo ordine di considerazioni si potrebbe a prima vista obiettare: come si può parlare di spiritualismo in un tempo come il nostro, in cui il corpo è esaltato oltre ogni limite?
Attenzione: è esaltato un corpo separato dalla totalità della persona! Il corpo che non è più il segno (sacramento) di tutta la persona. E, infatti, l’utopia salutista oggi dominante concepisce, in un certo senso, il corpo secondo la modalità propria della medicina moderna.
Più come Körper (cadavere) che come Leib (organismo vitale). In quest’ottica, per il medico l’atto diagnostico per eccellenza è, paradossalmente, quello dell’anatomo-patologo che verifica sul cadavere la causa esiziale (di morte). Allo stesso modo l’infinita sequenza dei riti salutistici con cui la società dei consumi ogni giorno di più ci sollecita per promettere l’eternità di questo corpo mortale, lo separa (lo astrae) dalla totalità dell’io. Ma, se il corpo non è più segno (sacramento) di tutta la persona, esso perde il suo significato. Il corpo infatti è principio di individuazione della persona umana e di relazione all’altro. Se è assolutizzato (astratto) diventa invece fattore di alienazione da sé e di separazione dall’altro. Affiora, così una visione antropologica piatta, non drammatica, in cui la polarità costitutiva di anima-corpo va perduta.
8. Androginismo
Con questa affermazione siamo in grado di comprendere un altro fenomeno socio-culturale oggi assai diffuso che rappresenta una “tentazione” per noi cristiani. Mi riferisco all’androginismo (dal greco andrós, uomo e gyné, donna): una considerazione dell’uomo come bisessuato, come capace di entrambi i sessi
È la conseguenza del fatto che la mentalità oggi dominante (il clima culturale) ha smarrito il senso del mistero nuziale inteso, da una parte, come intreccio indissolubile di differenza sessuale, amore e fecondità e, dall’altra, come l’insieme articolato delle forme dell’amore (a partire da quella della sponsalità intratrinitaria per giungere a quella cristologica, a quella ecclesiologica e a quella propria della relazione salvifica tra l’uomo e Dio, ma anche fino a ricomprendere, abbassandosi, la dimensione sessuale del livello intracosmico) che sempre implicano, in modo diverso, i fattori propri della nuzialità uomo-donna (analogatum princeps dell’amore sponsale).
Un’affermazione icastica di Balthasar dice l’essenza concreta del mistero nuziale: “L’atto dell’unione di due persone nell’unica carne [che implica differenza sessuale ed amore] ed il frutto di questa unione [fecondità] dovrebbero essere considerati insieme, saltando la distanza nel tempo”. L’eclissi del mistero nuziale sta producendo la tragica illusione che la sessualità possa essere ridotta a pura opzione. Ciascuno avrebbe la possibilità di situarsi, quanto alla sfera sessuale, a seconda di quella che considera la scelta più corrispondente alla propria sensibilità personale. In ultima analisi si viene quindi a dire che eterosessualità, omosessualità e transessualità non sarebbero che libere opzioni lasciate all’individuo: ecco l’androginismo!
Senza poter in questa sede entrare nella delicata questione della relazione tra natura e cultura, che pure è strettamente connessa al tema del corpo sacramentale e senza neppur voler sfiorare le grandi questioni etiche, connesse a queste tematiche (che giustamente la Chiesa, nel suo magistero, incessantemente richiama nonostante l’impopolarità cui va incontro), si deve affermare con forza che anche l’androginismo rivela una incapacità di assumere il corpo come segno sacramentale di tutta quanta la persona (quindi manifesta, come lo spiritualismo, un’incomprensione radicale della logica dell’incarnazione). L’astrazione di una simile posizione – che alla fine non solo non risolve, ma accentua il dramma personale facendolo spesso sfociare in tragedia – dipende dal non saper pensare fino in fondo la differenza sessuale. La differenza sessuale, infatti, mette in campo l’alterità, ma non come qualcosa di esterno all’io, bensì come l’espressione della sua capacità di essere per l’altro che è – come abbiamo visto – il proprium della libertà umana. Ebbene, questo dialogo io-tu è impossibile, tra uomini, senza un corpo individuato fin nello specifico della sua insuperabile differenza sessuale.
La differenza sessuale è infatti un dato originario e non derivato. È parte dell’imago Dei e perciò nell’uomo-donna si dona una corrispondenza tra sguardo (Litz) e volto (Anlitz), tra immagine e contro-immagine.
La differenza sessuale in nulla può ridurre l’identità personale dell’uomo e della donna, né può giustificare discriminazioni di sorta. Può solo condurre all’effettiva e profonda valorizzazione di ciò che questa stessa differenza dice come possibilità di compimento dell’identità personale di ciascuno dei due. Ed essa dice reciprocità, ma reciprocità asimmetrica, proprio perché esprime in profondità l’autodeterminazione della libertà dell’uomo e quindi, in ultima analisi, è un segno rivelatore della stessa differenza ontologica. È data così nella differenza la ragione della fecondità.
L’androginismo, abolendo di fatto la differenza, pensa l’uomo-donna come due metà strutturalmente incompiute, condannate alla ricerca di una fantasiosa unità originaria. Sull’onda della beffa aristofanea del Convito di Platone o sulle ali della doppia creazione – di origine gnostica – dell’uomo celeste asessuato contro l’uomo terrestre sessuato. In questa illusoria prospettiva il riunirsi in “uno” delle due metà costituirebbe il compimento dell’io: invece – secondo me – sarebbe soltanto il luogo di una falsa pace mortale. In questo modo l’unità duale di uomo-donna va perduta e con essa la possibilità di una antropologia veramente adeguata.
Tra l’altro, nell’orizzonte antropologico androgino, si perde di vista la circolarità (circumsessione) degli stati di vita del cristiano che mostra come la dimensione nuziale (o sponsale) sia essenziale alla verginità e viceversa. Ecco aprirsi un compito decisivo per noi cristiani: testimoniare come colui che è chiamato alla verginità compia fino in fondo la nuzialità della propria persona e, nello stesso tempo, come chi è chiamato al matrimonio viva la dimensione verginale come coessenziale alla sua vocazione.
Mi ricordo che Balthasar, più di una volta, ritornò con me su questo tema. Egli era convinto che il matrimonio, propriamente parlando, può essere vocazione solo laddove, attraverso l’indissolubilità vissuta come il segno visibile del rapporto Cristo Sposo-Chiesa Sposa, fa eco alla dimensione verginale dell’esistenza. Implica cioè quel possesso nel distacco (geniale affermazione di Luigi Giussani) che connota la verginità come vocazione.
9. Dualismo pubblico-privato
Una terza tentazione che il mondo di oggi insinua nella comunità cristiana è rappresentata da un radicale dualismo tra dimensione personale e dimensione sociale dell’agire (dualismo privato-pubblico). Esso, insorto a partire dalla modernità, si è radicalizzato nelle democrazie occidentali dopo la seconda guerra mondiale. La moderna evoluzione del diritto, forse dopo la rinascita del giusnaturalismo (Grotius, Pufendorf), ci può offrire una chiave di lettura di questo processo. Questa evoluzione, infatti, è alla base della separazione, nel campo dell’etica, fra la libertà personale e la libertà civile o giuridica, una separazione importata dal campo del diritto. La dicotomia è legata alla concezione moderna dello Stato, basata sulla convinzione che la radice della convivenza sociale può essere solo un contratto, vincolato di solito ad un sistema convenzionale. Locke, Hobbes e Kant, in un certo senso, hanno radicalizzato questa visione. Questo dualismo rifiuta la concezione aristotelica dell’Etica a Nicomaco (che san Tommaso riprese all’inizio della Secunda Pars della Summa Theologiae), secondo la quale l’azione dell’uomo, in quanto agente razionale, deve essere considerata partendo dalla vita intesa come un tutto e, quindi, ordinata secondo i fini e i beni che la caratterizzano essenzialmente. Questa impostazione permetteva di intendere la condotta umana come pratica di una vita buona, fatta di comportamenti personali e sociali con rilevanza privata e pubblica e senza artificiose separatezze tra individuo e comunità. E la stessa riflessione socio-politica (filosofia morale) poteva essere pacificatamente intesa come filosofia pratica di tale condotta.
Oggi, invece, ci troviamo davanti ad un’immagine dell’etica pubblica contrapposta all’etica cosiddetta privata, fedele riflesso della divisione esistente fra libertà personale e libertà civile e giuridica. Un’etica pubblica sempre più formale e basata solo sulle norme, dalla quale si esclude, come osserva giustamente McIntyre, la dimensione della virtù, abbandonata al puro arbitrio di un individuo pensato come separato dalla società.
Si produce una dialettica insanabile fra la sfera dell’interesse soggettivo e il campo delle esigenze morali obiettive, creando una artificiosa opposizione tra desiderio e compito, tra volere e dovere.
Facciamo qualche esempio. Nell’ambito della famiglia constatiamo questo dualismo nell’opposizione tra il desiderio di paternità e di maternità, da una parte, e il figlio come soggetto personale capace di autonomia socio-giuridica, dall’altra. Il figlio non viene più considerato come un frutto gratuito dell’amore dei coniugi, bensì come un oggetto sottoposto alla volontà sovrana dei genitori.
Sia nella coscienza individuale che nell’immaginario collettivo (come si vede nelle legislazioni approvate dalle democrazie cosiddette avanzate), il figlio ha perso rilevanza. Se non è desiderato si ricorre all’aborto. Se invece esistono problemi per procrearlo, tutto è permesso, purché venga soddisfatto il desiderio soggettivo dei genitori (basti pensare alla fecondazione artificiale che trasforma il figlio in oggetto di un processo produttivo).
Un secondo esempio è la dicotomia tra economia e diritto. Non è necessario far riferimento al dibattito, particolarmente attuale e presente in tutte le società occidentali, sullo stato di benessere (Welfare), per riconoscere che il rapporto fra diritti ed economia sta attraversando oggi un grave conflitto. Paradossalmente la riduzione sempre più accentuata dei diritti della persona alla sfera dell’individuo, conseguenza di una lettura formalistico-kantiana della regola d’oro “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, può spiegare questo conflitto. Sostenere, infatti, i diritti della persona svincolando la libertà di coscienza (che si pretende assoluta) dal suo necessario riferimento alla verità, finisce di fatto col favorire la logica della riduzione di ogni bene in termini di denaro e di mercato, che diventano le chiavi per interpretare qualsiasi desiderio-necessità dell’uomo. In questo contesto, i diritti fondamentali finiscono per essere rilevanti solo in quanto si riferiscono alle necessità alle quali il mercato è in grado di rispondere in termini monetari.
Da questo punto di vista, il conflitto fra economia e diritti presuppone un’ulteriore radicalizzazione della dicotomia fra libertà personale e libertà civile che è a sua volta riflesso della separazione fra pubblico e privato.
Dal punto di vista politico, infine, assistiamo alla dialettica fra forme utopistiche non conclamate (segnate dall’ideologia, soprattutto marxista) ed una sorta di ideologia pragmatica del mercato come modalità di affermazione egoistica dell’io, del proprio gruppo o lobby, della propria nazione, del proprio popolo o della propria zona di influenza mondiale (nord-sud).
In questa dicotomia fra privato e pubblico risulta chiaro che la cultura moderna, al di là della sua insistenza radicale sul soggetto, è incapace di offrire le ragioni della polarità costitutiva individuo-società ed ha perduto di vista la polarità uomo-donna.
Oltre che attraverso il discorso antropologico fondamentale sull’unità duale e le polarità (corpo-spirito, uomo-donna, individuo-società), crediamo che sia possibile recuperare l’unità fra sfera privata e sfera pubblica se si privilegia l’attenzione per i corpi intermedi e, in particolare, per la famiglia. Qui si apre alla comunità cristiana una prospettiva esaltante: testimoniare, attraverso concrete forme di vita, che la comunione è un principio di organizzazione materiale dell’esistenza, la quale ruota intorno alle due dimensioni costitutive dell’io: affetti e lavoro.
10. Il Risorto: l’uomo riuscito
Possiamo ora tornare all’alternativa contenuta nel titolo, aggiungendo qualche tassello conclusivo al mosaico delle due posizioni umane indicate.
Prometeo è incatenato, come Cristo è crocifisso, per compassione degli uomini. Ma radicalmente diversa è la loro compassione, perché radicalmente diverso è il gioco delle loro libertà in rapporto alla realtà.
In Prometeo la libertà è spesa tragicamente come indomabile volere solitario, nella contrapposizione a Zeus, il padre-padrone. Egli così non scioglie l’enigma dell’uomo.
In Cristo la libertà è amore perché, in Lui, essa si compie (totalità), per il tenace vincolo dello Spirito, come adesione del Figlio al Padre.
Nella sfida contro Zeus Prometeo ha voluto compromettersi con gli uomini, violando il codice supremo del dio precristiano, inevitabilmente separato e disinteressato al loro destino: “Un dio non entra in relazione con un uomo”, scrive Platone. Nonostante lo sforzo generoso del semi-dio Prometeo la sua persona e la realtà restano immerse in una negatività minacciosa, simboleggiata dalla definitiva perdita di libertà dell’eroe incatenato. E la stirpe degli uomini resta non salvata, impigliata nella doppia inconsistenza, della realtà e dell’io, entrambi fragili come un sogno. Prometeo è, per finire, solo un velleitario antagonista di Zeus.
Il Risorto, invece, è il protagonista. Egli radicalizza il significato della tragedia prometeica; cioè assume, senza edulcorarlo, il drammatico destino di ogni uomo. Come? Nella tragedia della croce.
Tuttavia, l’ignominia della croce già si stempera nella pietà elargita al genere umano di Maria che accoglie nelle sue braccia il cadavere di Gesù, per poi lasciar spazio alla vittoria del Risorto sulla morte e sul suo Autore. “Morte sarò la tua morte. Morte dov’è il tuo pungolo?”. Così sono travolte tutte le potestà ed infine il principio personale del male, il Demonio, che – pur avendo il potere di mobilitare le potestà che a vario titolo bloccano l’umana libertà – non può disporre se non di risorse negative, ultimamente incapaci di qualunque costruzione. Solo l’essere per l’altro compie l’io. Questo è ciò che al demonio, per essenza, non può riuscire.
Nell’estrema impotenza del Crocifisso il Padre rivela la Sua onnipotenza. Il Risorto rivela agli uomini che il Padre li ama e li vuole come figli nel Figlio; perciò travolge ogni negatività, anche quella del peccato, rendendosi loro familiare proprio con l’offerta totale di sé nel suo vero corpo: caro cardo salutis.
Il Risorto manifesta così l’autentica struttura delle cose, quella di essere segno rivelatore del Padre che chiama l’uomo ad entrare in una compagnia definitiva con Lui. La realtà, così, emerge nella sua indistruttibile positività (“Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio”). E’ vero lo stupore carico di godimento che avverti di fronte ad un bel tramonto, al volto amato, ad una prova superata…
La realtà non è sogno; essa è segno del Padre che giustamente la liturgia definisce rerum tenax vigor, il tenace vigore dell’essere.
Il Risorto è l’uomo pienamente riuscito che, in totale libertà, può aderire all’appello che il Padre – il cui volto è misericordia – gli rivolge attraverso la realtà.
In Lui l’enigma dell’uomo è definitivamente risolto: l’uomo non ha in sé il fondamento del proprio esistere, ma – nella sequela del Risorto – impara che esiste perché un Padre lo vuole fin dall’origine e lo accompagna fino alla felicità compiuta.
Il Risorto ci indica il cammino attraverso il quale la nostra libertà, scelta dopo scelta, trova nella grazia la stabilità personale delle polarità che la costituiscono.
La tensione originaria anima-corpo trova tutto il suo significato nella verità della risurrezione della carne, frutto della morte di Cristo. Più felicità e compimento di così! “Io risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore”. Tutto l’uomo è salvato e fin da ora il corpo diventa sacramento di tutto l’uomo. La polarità uomo-donna si lega al mistero della relazione Cristo-Chiesa, dove l’amore nuziale non solo trova la sua forma completa, ma allo stesso tempo è liberato dal suo nesso con la morte. E questo sia perché in Cristo la morte è stata vinta, sia, e più precisamente, perché Cristo inaugura una nuova forma di fecondità che non si identifica con la procreazione umana: la sponsalità verginale. Infine, la tensione individuo-comunità trova il suo punto di stabilità nell’esperienza della comunione e, soprattutto, nel suo culmine: la communio sanctorum, poiché nella comunione ecclesiale l’uomo incontra la missione che compie il volto della sua persona. In questo modo, la comunità lungi dall’essere un ostacolo, diventa l’ambito nel quale la libertà viene sostenuta.
11. Decidere per la realtà
Come questo amore sconfinato può farsi credibile ai nostri occhi, prima ancora che a quelli degli altri? Non certo prendendo la scorciatoia del volere solitario che produce solo inganni: quello spiritualista, quello androgino e quello del dualismo pubblico-privato.
Bisogna imboccare la strada maestra della libertà, dove l’io non teme la realtà e trattiene il dramma con le sue inevitabili polarità (tensioni) perché sa per esperienza diretta personale e comunitaria, che il dramma non è l’enigma, ma la strada agonica della felicità.
“Riconosco ciò che è bene, lo approvo e faccio ciò che è male” (Video meliora, proboque deteriora sequor) diceva già il poeta pagano. Consapevole del peccato originale, Paolo aggiunge: “C’è in me una forza per cui non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio”.
Può una libertà fragile e ferita affrontare questo dramma? Sì, se si lascia liberare seguendo Colui che, liberamente, si è donato a noi come perfetta espressione dell’amore incondizionato della Trinità. La fede non è magìa, perché implica, sempre, una decisione. Alla fine si deve scegliere tra Prometeo e il Risorto. E questo tocca a me, tocca a te, tocca a ciascuno di noi.
L’atto che stiamo compiendo ora – quello che ognuno di noi compirà tra un istante, uscendo da qui – è certamente provocato dalle circostanze, ma queste, in quanto segno dell’essere infinito, chiamano in causa, improrogabilmente, la libertà di ciascuno. Sia che lo vogliamo, sia che non lo vogliamo, in ogni atto la realtà impone di decidere. Non si può non decidere per la realtà!
Qui tu divieni attore (co-agonista) del dramma sulla scena del gran teatro del mondo Tu, solo tu: niente è pre-deciso per te e nessun altro luogo può decidere al tuo posto. A te quindi, amico, la scelta! Chi vuoi seguire: Prometeo o il Risorto? E in ogni atto la tua libertà è raggiunta dalla drastica alternativa evangelica: che giova guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?
La drammaticità di questa opzione non è però quella di un volere solitario. Ci è stata data una compagnia che regge e corregge la nostra libertà, subissandola, da tutte le parti, nell’amore (“Pietro, mi ami tu?”). La compagnia di Maria, dei santi, della santa Chiesa di Dio, la quale, per grazia, ci è venuta incontro in una comunità sensibilmente espressa e guidata al destino.