Virgilio padre dell’Occidente, di Luigi Alfonsi
Arma virumque cano: chi è questo vir, questo uomo forte, pietate insignis? Chi è Enea? Egli è il protagonista dell’epopea, l’eroe: e poi è il figlio di una dea e destinato ad essere il capostipite della stirpe più illustre e potent della storia! Eppure è il più perseguitato, solo, provato, affannato eroe epico, quello la cui identità è più marcatamente segnata dalla sfortuna, sia per l’ira di Giunone che lo osteggia, sia più profondamente perchè il cielo lo ha scelto per morire per’ tutti: perdere le persone più care, le certezze, la quiete facile, e fin il proprio nome per giungere ad sidera caeli. Strana via veramente per un eroe epico pensato in età pagana.
1. Nel I libro dell’Eneide Enea, dopo essere stato presentato nel proemio (vv. 1-11) nelle linee essenziali della sua esperienza, compare per la prima volta sulla scena dell’azione narrata al momento in cui l’ira di Giunone fa scatenare contro di lui una violenta burrasca sul mare di Sicilia:
Extemplo Aeneae solvuntur frigore membra:
ingemit et duplicis tendens ad sidera palmas
talia voce refert: O terque quaterque beati,
quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis
contigit oppetere, o Danaum fortissime gentis
Tydide, mene Iliacis occumbere campis
non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra,
saevus ubi Aecidae telo iacet Hector, ubi ingens
Sarpedon, ubi tot Simois correpta sub undis
scuta virum galeasque et forti a corpora volvit? (vv. 92-101)
L’immaginazione del lettore vede l’eroe prostrTO, con le palme levate al cielo del quale è in balìa; quello che in altri luoghi è un forte corpo di combattente ed atleta appare qui impotente, agghiacciato dal terrore. Addirittura il vir della protasi, dal quale deve pervenire la stirpe dei Latini e un giorno la grande Roma, e al quale dunque è assegnato uno straordinario destino di grandezza e di gloria, in questo momento vorrebbe non aver nemmeno iniziato la sua perigliosa e contrastata ricerca della nuova sede nella sua angoscia rimpiange di non essere perito sotto le mura di Troia coi suoi compagni e di non aver ricevuto la gloria, secondo un sistema di valori consolidato, morendo eroicamente nell’estrema difesa della città ormai sconfitta. L’autore ci offre come prima immagine quella di un Enea vulnerabile, vinto dall’incertezza, dal dubbio, dalla stanchezza, dalla tentazione dell’abbandono. Tale scelta, che è confermata dalla seconda apparizione di Enea (v. quanto si dirà più oltre sui vv. 180-222), non esprime una intenzione di fare apparire l’eroe debole o incerto – anche se egli solamente dopo la grande prova di Cartagine verrà definito certus, sicuro della propria missione (V, 2) – quanto piuttosto conferisce alla persona di Enea una dialettica interna, un contrasto e uno spessore che vanno ben oltre la descrizione psicologica per toccare più vasti problemi dell’esistenza dell’uomo. In realtà fin dall’inizio del poema Virgilio ha presentato con tratti dolorosi il lungo peregrinare del capo dei Teucri: multum iactatus (v. 3), multa passus (v. 5), tot casus (v. 9), tot labores (v. 10) sono espressioni che tornano poi spesso in questo I libro e ne costituiscono come l’ossatura semantica: contraria fata … eadem fortuna viros tot casibus actos insequitur. Quem das finem, rex magne, laborum? (vv. 239-41): così Venere si lamenta con Giove delle persecuzioni cui è sottoposto il figlio; ma pure vecti ventis (v. 524), exhaustos iam casibus (v. 599); anche la regina Didone resta colpita dalla bellezza ma pure casu viri tanto (v. 614), ed infine chiede che Enea le narri analiticamente insidias … casus … errores (vv. 754-55). La percezione che questo viaggio verso il destino assegnatogli dal fato sia un esilio dominato da una forza misteriosa e incombente a cui l’eroe è sottoposto è comunque sintetizzata nell’iniziale formula fato profugus (v. 2), esule, pellegrino su di una via incerta (cfr. ignari erramus, v. 333), che solo il fato garantisce senza nulla togliere in asprezza (errabant acti fatis v. 32), anzi lasciandogli la sconcertante impressione di essere in balìa del caso piuttosto che di un volere divino (vecti ventis, v. 524; fortuna…insequitur, vv. 240-41). Miseri essi si definiscono (v. 524) e così li chiama Didone (v. 630) ed infatti i Troiani sbarcano in maniera fortunosa sulle spiagge di Cartagine (quos aequore turbo / dispulerat penitusque alias averterat oras, vv. 511-12), sulle quali finiscono stremati (defessi Aeneades, v. 157; fessas navis, v. 168; fessi, v. 178), bramosi solo di mettere i piedi sulla terra ferma al sicuro dei flutti, laceri e con le provviste fradice e dimezzate.
2. Il labor condizione del vivere umano è stato riconosciuto quale costante della sensibilità virgiliana (Lana): vale la pena di ricordare il profondo Labor omnia vicit / improbus et duris urgens in rebus egestas delle Georgiche (I, 145-46). Anche in questo I libro ci si accorge che la fatica è più dello scotto che l’uomo paga ai capricci degli dèi che lo avversano (Iunonis ob iram, v. 4), nè coincide con la romantica idea dell’eroe sfortunato (bello di fama e di sventura, idea che peraltro costituisce invece l’inizio dell’infatuazione di Didone per Enea: cfr. vv. 613-14), in lotta costante con il mondo che lo circonda: al contrario, pio Virgilio chiama Enea (insignem pietate virum, v. 10, cfr. v. 306), così pure lo chiama Ilioneo (quo iustior alter / nec pietate fuit … maior, vv. 544-45), così anche si definisce egli stesso (sum pius Aenea, v. 378), e la risposta a cosa comporti l’esser pio è tutto il poema, col suo abisso di umanità. La fatica è la situazione di questo uomo pio che vive costantemente fra due poli: l’angoscia e la certezza, la sofferenza e la fedeltà al fato che lo ha destinato all’alta missione.
3. Questa dialettica traspare bene in due circostanze in cui lo stesso Enea si rivela, nei suoi comportamenti e nel modo in cui parla di sè e del viaggio che insieme ai compagni ha intrapreso. Si tratta in primo luogo del discorso che Enea tiene ai suoi compagni, avviliti appena dopo lo sbarco sulla spiaggia della Libia; e poi dell’altro discorso col quale egli si presenta alla vergine tiria, che in realtà è la madre Venere. Il primo brano si distende lungo i vv. 180-222. Sbarcato a terra il padre Enea come prima cosa scruta l’orizzonte, se mai veda altri superstiti, se scorga le altre navi che la tempesta ha strappato e disperso. Egli è oppresso dal dolore di aver potuto perdere i suoi, che giovani e valenti amici abbiano incontrato la morte in mare (ma quanti ne vedrà poi morire al suo fianco). E’ questo un eroe capace di vero affetto per quelli che lo hanno seguito e checondividono la sua misteriosa sorte, è attento al loro destino di cui si sente responsabile. Si fa carico anche della loro condizione attuale tanto da non concedersi riposo fino a che non abbia procurato di che sfamare i naufraghi, cacciando sette cervi quante erano le navi scampate. Egli pensa anche al morale, sente il bisogno di rincuorarli e di restituire loro la fiducia in ciò che insieme stanno compiendo:
O socii – neque enim ignari sumus ante malorum
o passi graviora, dabit deus his quoque finem.
Vos et Scyllaeam rabiem penitusque sonantis
accestis scopulos, vos et Cyclopea saxa
experti, revocate animos maestumque timorem
mittite: forsan et haec olim meminisse iuvabit.
Per varios casus, per tot discrimina rerum
tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
ostendunt, illic fas regna resurgere Troiae.
Durate et vosmet rebus servate secundis. (vv. 198-207)
Queste le parole ai compagni. Ma Virgilio aggiunge (vv. 208-209): Talia voce refert curisque ingentibus aeger / spem voltu simulat, premit altum corde dolorem. E mentre quelli mangiano, risollevati dalle sue parole, ripresa un po’ di speranza di ritrovare i dispersi, egli si allontana da solo, per non essere visto: Praecipue pius Aeneas nunc acris Orontis, / nunc Amyci casum gemit et crudelia secum / fata Lyci fortemque Gyan fortemque Cloanthum (vv. 220-222). E’ fuori dubbio che gli dèi porranno fine al nostro vagare, la meta è nota, è il Lazio, e comunque sia, attraverso gli ostacoli e i pericoli che siamo ormai avvezzi ad affrontare, finiremo col giungervi: i fati vogliono così e per forza così sarà. Ma lui stesso a stento dissimula il suo dubbio, la sua angoscia, la paura di non farcela più dopo sette anni a reggere l’impari contesa con gli dèi contrari; lui stesso deve durare. Egli rivela di avere un cuore forte perchè sa portare da solo la sua angoscia e tutto il peso della sua singolare missione, in cui gli amici sono fatalmente implicati. Del resto,come si vede più oltre, egli non ha neanche il conforto di appoggiarsi alla propria madre, che sempre si nasconde a lui sotto apparenze fallaci (crudelis tu quoque! le grida Enea al limite della disperazione: v. 607); tutto lo svolgimento del poema lo vede sempre più solo, quando via via perde il padre, gli amici, la nutrice, i suoi guerrieri migliori. Egli ha saputo non piangere davanti agli altri, quando il suo cuore era in ansia per ciascuno degli amici che chiama per nome ad uno ad uno. Qui la compresenza di angoscia e certezza dà una immagine più complessa dell’Enea della prima scena, sbattuto dalle onde, che si sente mancare sotto i piedi insieme alla tolda anche il senso della sua vita di quei sette anni. Qui l’elemento del fato coscientemente accettato su di sè sembra far prevalere nella coscienza di Enea la positività ultima delle sue numerose e dolorose vicende. Tuttavia a noi che leggiamo si pongono problemi radicali: soprattutto se l’accettazione del destino consista in un passivo e necessario obbedire rendendosi strumento di un “oltre”, o abbia un qualche risvolto liberante per la persona (in che senso per esempio quel simulat? forse è più vero che il dubbio corrode la certezza e la nega?). Resta comunque vera l’osservazione che la pietas di Enea e il favore del fato non comportano affatto l’esenzione dal dolore. Dalla medesima dicotomia è anche caratterizzata la presentazione di Enea a sua madre ai vv. 378-385:
Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penates
classe veho mecum, fama super aethera notus.
Italiam quaero patriam et genus ab Iove summo.
Bis denis Phrygium conscendi navibus aequor
matre mea monstrante viam, data fata secutus;
vix septem convolsae undis euroque supersunt.
Ipse ignotus egens Libyae deserta peragro,
Europa atque Asia pulsus.
Anche qui, pur nella sicurezza della patria e della stirpe promessa, dei fati e della madre che lo accompagnano, dei penati che porta seco, non può fare a meno di costatare che egli è comunque sbattuto con la flotta su tutti i mari, ignoto lui che è conosciuto in tutto il mondo per le sue vicende, su terra africana, respinto ugualmente dall’Asia da cui proviene e dall’Europa cui è diretto; perennemente a metà strada fra origine e meta, fra la promessa e il suo compiersi. Questi elementi così ripetuti ci fanno sentire un personaggio singolare, una vicenda in qualche modo emblematica che si fissa nella memoria carica del suo disperato bisogno di una risposta. Egli è sempre sulla corda e non ha tregua.
4. Mi pare profondamente tragico, culmine di questa situazione, e simbolico, ciò che Enea e Acate vedono arrivando a Cartagine: essi trovano la popolazione tutta alacre nei lavori per edificare la nuova città, e guardano meravigliati e rapiti le grandi costruzioni e più ancora l’ardore dei Tirii, il cuore tutto positivo con cui si impegnano nei lavori. Davanti a questo spettacolo Enea soffoca un grido che è il segno di tutte le sue speranze e le sue paure: O fortunati, quorum iam moenia surgunt! (v. 437). In quel iam è contenuto quello che durante quei lunghi anni lui e i suoi avevano sospirato e atteso: costruire la nuova Troia, mettere finalmente mano all’opera destinata! Grido che è tanto più miserevole perchè egli non per molto tempo si pasce della immaginazione di quel momento promesso: subito è attratto da una grande pittura che vede su quelle mura innalzate di fresco, in cui è raffigurata la sconfitta di Troia, l’antica patria atterrata e perduta: videt Iliacas ex ordine pugnas / bellaque iam fama totum volgata per orbem, / Atridas Priamumque et saevom ambobus Achillem (vv. 456-58) .Nel vedere dipinta la strage, il tradimento, la fuga, la disperazione e più ancora nel riconoscere i giovani corpi degli amici trafitti e calpestati, straziati e trascinati nella polvere, Enea finalmente piange (constitit lacrimans, v. 459; multa gemens largoque umectat flumine voltum, v. 465; adgnoscit lacrimans, v. 470; ingentem gemitum dat pectore ad imo, v. 485). Sono lacrime piene di pudore e di lucidità. La sofferenza umana sa strapparle anche a chi non ha visto con i suoi occhi e non ha vrssuto, perchè il dolore chiama la compassione (sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt, v. 462). Veramente qui Enea mi pare sospeso fra passato e futuro, fra ciò che ha perso e ciò che spera di possedere, fra quello che ha già patito per la perdita della casa, della moglie, degli amici e per il lungo viaggio, e la gloria che sa di dover ricevere ma che ancora non si avvera. Trafitto dal desiderio e dal peso di questo “non ancora”. Si tratta di una specie di vertigine: è in effetti doloroso pernanervi. Infatti anche il pio Enea perde ad un certo punto il vigore, l’orientamento, la vigilanza, e finisce. con l’ abbandonarsi quasi come ad un’ ancora di salvezza all’amore avvolgente e immemore con Didone.
5. Tutto questo sembra dire che la gloria ha un prezzo, così come la civiltà e il potere di Roma hanno un costo storico. Il labor è appunto questo prezzo che l’’ndividuo deve al fato per il raggiungimento di un bene. E’ anche la costatazione da parte di Virgilio che tutto ciò che è buono e grande non è dato senza che la persona lo conquisti in se stessa e lo raggiunga a costo di una disponibilità, di una umiltà che se non è la croce liberante della redenzione è però comunque un dare sè al di là di sè. Per il lettore si fa pressante il quesito su come Virgilio abbia inteso questo alto prezzo per l’esperienza personale di Enea, cosa egli abbia avuto come esito del suo labor. Il poeta dedica un lungo brano del I libro a dichiarare in anticipo la meta di tutto: si tratta del colloquio fra Venere e Giove, quando la dea chiede impensierita al re supremo come sia possibile che egli abbia cambiato consiglio riguardo ai Teucri fuggiaschi, e se e quando la sua promessa debba avverarsi (vv. 223-296). Qui leggiamo una delle più lunghe fra le profezie su Roma che accompagnano lo svolgersi dell’azione nel corso del poema, e nelle quali Virgilio rispondeva più direttamente all’incarico affidatogli da Augusto di esaltare l’impero dell’Urbe. L’esito certo sarà l’esaltazione di Enea: … sublimemque feres ad sidera caeli / agnanimum Aenean (vv. 259-60). Sennonché dalle successive parole di Giove si vede che il destino di gloria non durerà per lui che tre anni, trenta per Ascanio, e trecento quello della città di Alba Loga: fino a che non giunga il tempo senza limiti di Roma e, nel culmine e quasi al termine della storia, il ritorno alla mitica era della fides della pace. Dunque l’esito ultimo non è in Enea, ma più lontano, oltre lui stesso, in una missione storica, in un destino universale che abbraccia secoli e nazioni, e che pure richiede l’opera del singolo che vi pone il suo cuore. Già all’inizio del poema Virgilio aveva anticipato che tutto sarebbe stato in funzione di Roma: Tantae molis erat Romanam condere gentem. (v. 33). Tuttavia è necessario che un uomo rinunci alla tranquillità della vita e con la sua sofferenza dia carne alla storia. Questo mi pare renda Enea assai più che un mezzo passivo per un fine a lui estraneo: è il problema dell’obbedienza di Enea e della interpretazione (e traduzione) di quel non sponte del libro IV (v. 36l) e di tutta la vicenda dell’abbandono di Didone. Perché il fato si avveri è richiesta l’adesione ed essa costa scelte personali non meccaniche. E’ proprio Enea che con le sue scelte e le sue rinunce (volontarie e no) ha consentito che l’ideale si attuasse, che esistesse ciò che non era, lui quello attraverso cui doveva passare la realizzazione della storia, e questo lo rende il centro della storia. E’ vero del resto che Enea, credendo nel proprio compito, ha sottratto la sua vita all’estrema precarietà dell’essere: senza quel viaggio per lui, come per tutti gli eroi periti sotto le mura di Troia, ci sarebbe stato solo il dolore per quello che aveva perduto e infine la morte.
(Daniela Notarbartolo, 1984)
C’è un cammino di consapevolezza che Enea fa, da quando si sveglia.di colpo con Troia in fiamme, dopo la terribile .apparizione di Ettore: arma amens capio (v. 314); furor iraque mentem praecipitat (vv. 316-317). In questo stato d’animo, l.’unico desiderio è quello di sparire con la città: dice ai compagni che ha raccolto: moriamur et in media arma ruamus / una salus / una sulus victis nullam sperare salutem (vv. 354-355).
Ma nel combattimento che segue comincia ad intuire che il fato che lo aspetta non è quello di morire con la città:
Iliaci cineres et flamma extrema meorum,
testor in occasu vestro nec tela nec ullas vitavisse vices, Danaum et, si fata fuissent
ut caderem meruisse manu (vv. 431-433).
L’apparizione di Venere gli svela che la città cade per volontà divina a cui è vano opporsi:
divom inclementia, divom
has avertit opes sternitque a culmine Troiam (vv. 602-603). .
Venere ripete più volte il concetto, come se il figlio stentasse a capire:
ipse Pater Danais animos viresque secundas / sufficit, ipse deos in Dardana suscita arma (vv. 6I7-618).
E svela ad Enea che il suo fato è diverso: eripe, nate, fugam, finemque impone labori (v. 619). Un fato che è anche promessa di compagnia: nusquam abero et tutum patrio te limine sistam (v. 620).
E’ una·promessa che suona strana ag1i orecchi di Enea: patrio limine? Ed è una decisione che anche Anchise rifiuta: come è possibile che la sua sorte sia diversa da quella della sua terra? Me si caelicolae voluissent ducere vitam / has mihi servassent sedes (vv. 641-642). Posizione che Enea fa sua, decidendo di tornare a combattere: solo un prodigio finalmente 1i costringe ad abbandonare la città. Nell’immagine di Enea che con Anchise, lulo e Creusa cerca di sottrarsi ai nemici portando gli arredi sacri e i Penati (tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis, v. 717) trovano conferma due immagini profetiche precedenti: quella di Ettore comparso in sogno ad Enea: et manibus vittas Vestamque potentem / aeternumque adytis effert penetralibus ignem (vv. .296-297) che già aveva promesso ad Enea, ancora ignaro, una nuova patria: His (ai Penati) moenia quaere / magna pererrato statues quae denique ponto (vv. 294-295); e quella del primo incontro per le vie di Troia in preda alle fiamme: immagine anch’essa profetica, anche se non subito compresa: Panto, sacerdote della rocca, sacra manu victosque deos parvumque nepotem / ipse trahit cursuque amens ad limina tendit (vv. 320-321): Panto anticipa ad Enea quello che lui e il padre faranno di lì a poco.
Nella fuga, la perdita di Creusa è il fondo di questo smarrimento totale: l’intuizione di un destino evocato dalle profezie svanisce, il segno del prodigio sul capo di Ascanio è dimenticato, come le promesse di Venere: Quem non incusavi amens hominumque deorumque? (v. 745)
E’ necessario che la promessa venga ripetuta dal fantasma stesso di Creusa: una profezia che assume connotati duri e decisi:
Longo tibi exilia et vastum maris aequor arandum:
et terra Hesperiam venies, ubi Lydius arva
inter opima virum leni fluit agmine Tybris;
illic res laeta regnumque et regia coniunx
parta tibi: lacrimas dilectae p.elle Creusae (vv. 780- 784).
Ma Enea si ribella ancora, preso dall’orrore di fronte alla apparizione e al destino di Creusa: non cerca un’altra moglie o una altra patria: la promessa del fato gli è ancora sostanzialmente estranea; perciò la sua obbedienza all’ordine divino ha per lui solo il sapore di una fuga: cessi et sublato montis genitore petivi (v. 804).
(Laura Morsia, 1981
Enea non è ancora consapevole della grandezza del destino assegnatogli, nè può per ora aderire ai segni con cui esso urge: unico seme della sua posizione futura è la pietà per il miserabile vulgus (II, v. 798) raccoltosi intorno ad Anchise mentre lui tornava alla ricerca della moglie. Ed è Anchise che, fondandosi sulla memoria della storia di Troia e sulla fede degli dèi, assume temporaneamente il comando: è lui che dare fatis vela iubebat (v. 9).
Enea vive ora solo lo strappo dalla sua terra e dalla vita precedente: feror exul in altum (v. 11), feror huc (v. 16).
E dopo la partenza, tutto il suo viaggio è contrassegnato dal dramma di doversi aprire a poco a poco ai segni del fato, senza voler imporre ad esso soluzioni ricavate dalla sua esperienza precedente o dalla propria impazienza.
Fanno rotta verso il nord e sbarcano in Tracia, senza tener conto della profezia di Creusa sulla terram Hesperiam (II, v. 781), ma ricordandosi che quella terra fu hospitium antiquum Troiae sociique Penates (v. 15).
Essi pensano che questa sia la terra indicata dal fato: Enea esprime la propria adesione al ruolo di fondatore assegnatogli dando alla città il proprio nome: si rifà in tal modo all’esempio di Troo e di Ilio, capostipiti della sua storia: Aeneadasque, meo nomen de nomine fingo (v. 18).
E’ il primo gesto di adesione al fato che Enea compie. Ma non basta, perchè il fato richiede che maturi tale adesione in Enea e nei compagni e cresca l’intelligenza dei suoi segni. Su quelle rive è stato ucciso Polidoro, lasciato poi senza sepoltura: sono terre maledette, non adatte a fondarvi una città sotto buoni auspici. L’errore fatto non ferma però la ricerca di Enea, che riprende .il mare; già questa decisione conferma e matura la sua obbedienza a1 destino, che favorisce la partenza: lenis crepitans vocat auster in altum (v. 70). Ed Enea lo nota.
Seconda tappa è Delo: è necessario che la profezia udita in quella notte terribile si confermi e si chiarisca: perciò Enea domanda: quem sequimur? quove ire iubes? ubi ponere sedes? (v. 88). Chiedendo questo a nome del suo popolo egli assume più precisamente la responsabilità di guidarlo, e comincia a capire che è grande il compito affidatogli e che non può essere sufficienta la sua comprensione delle cose: domanda perciò che siano chiari i segni da seguire.
Antiquam exquirite matrem (v. 96) .
La risposta degli dèi è però più rivolta ad Anchise, che meglio conserva la memoria del passato, perchè il fato promette il compimento della storia di Troia e quindi il recupero delle sue radici:. Tum genitor, veterum volvens monumenta virorum / audite, o proceres, ait, et spes discite vestras (vv. 102-103).
In lui la memoria del passato è preannunzio della speranza futura. Così ad Anchise sembra che Creta, da cui venne Teucro, sia la terra indicata dal fato. Qui si stabiliscono, fondando Pergamea: così la chiama Enea perchè pensa che il destino gli chieda di trovare un luogo in cui ricostruire e continuare la storia interrotta di Troia:
Pergameamque voco et laetam cognomine gentem
hortor amare focos arcemque attollere tectis (vv. 133-134). .
Approvando la scelta del nome, la sua gente conferma per sé quella immagine di destino che ha Enea. La reste,. scoppiata quando la città è già costruita, indica che non è questo il volere dei fati: l’apparizione dei Penati, inviati da Apollo, ad Enea rivela finalmente il nome della vera patria futura: il chiarirsi del fato è quindi compenso ad una fedeltà comunque vissuta ed affermata: anzi, con il tempo gli equivoci presenti nella adesione di Enea sono chiariti, e cadono. Anchise, subito inforrr.ato dal figlio, riconosce nel nome rivelato, Italia, la terra già preannunziata da Cassandra: ancora una volta un fatto del passato è recuperato e conferma la spes sul futuro. Non c’è rammarico o rancore nella partenza, anche se i troiani devono lasciare una città appena costruita:
Hanc quoque deserimus sedem paucisque relictis
vela damus vastumque cava trabe currimus aequor (vv. 190-191).
Anzi, c’è il sollievo di allontanarsi da una terra infetta, e l’agilità di chi sa che strada prendere, perchè la meta è chiara, almeno come indicazione:
Cedamus Phoebo et moniti meliora sequamur.
Sic ait: et cuncti dicto paremus ovantes (vv. 188-189).’
Cuncti: la decisione di Enea di aderire al fato sta diventando decisione comune.
La tempesta che in mare li sorprende e li getta fuori rotta è ambivalente: segna la perdita di punti di riferimento umani e favorisce quindi l’abbandono al fato, ma è anche difficoltà e disorientamento che culmina nella profezia, anche essa ambivalente, delle Arpie: profezia che essi arriveranno alla meta, ma predice anche la dira fames (v. 254) che li costringerà a mangiare le mense. Di nuovo poi Anchise fa salpare le navi, pregando gli dèi perché allontanino il male: placidi servate pios (v. 266). Anchise sottolinea con questa frase la pietas come caratteristica di tutto il popolo, in quanto fedele ai segni del fato.
Dopo una sosta sulla costa illirica, si dirigono a Butroto, dove regna un figlio di Priamo su gente troiana. Enea commosso guarda la città, costruita ad immagine di Troia scomparsa, ma pur nella gloria del momento non può non accorgersi che lì vede realizzato quello che pensava fosse il suo compito: ridare una città ai Penati di Troia e conltinuarne la storia interrotta; e si accorge come questo progetto, qui realizzato, sia piccolo, senza respiro:
Procedo et parvam Troiam simulataque magnis
Pergama et arentem Xanti cognomine rivum
Ancora una volta ha confuso il fato con un desiderio del suo cuore ed è quindi terribile seguire il destino: salutando la gente di Butroto Enea dirà:
Vivite felices, quibus est fortuna peracta
iam sua: nos alia ex aliis in fata vocamur (vv. 493-494). .
E se pure c’è il rimpianto di una quies (v. 495) a loro non ancora concessa, un altro equivoco è caduto: non lo attende la ricostruzione di Troia come era prima: non si vive di ricordi.
Inoltre, la profezia che gli dèi gli annunciano attraverso Eleno, re e sacerdote della piccola comunità, si fa sempre più precisa: non mancheranno difficoltà e pericoli: l’Italia è poco più di un nome, è infinitamente lontana: longa procul longis via dividit in via terris (v. 383). Ma ad Enea è tracciato un cammino e gli viene indicato come affrontare i vari pericoli.
Ancora una volta Anchise ordina la partenza: costeggeranno le coste meridionali dell’ Italia con varie tappe fino a Drepano, dove muore Anchise, omnis curae casusque levamen (v. 709).
Enea sbaglierà ancora, ma oramai sta imparando a vivere ogni tappa di questo lungo viaggio con il desiderio che il destino si compia.
Introduzione e contestualizzazione
Sul IV libro dell’Eneide pesa una secolare interpretazione che vede in Didone la protagonista, ritratto compiutamente disegnato di una donna appassionata, disposta a lottare fino in fondo per la libertà del suo amore, tragicamente travolta da una decisione esterna a lei; in Enea, invece, un deuteragonista scialbo e freddo, persino cinico nella sua adesione formale ad una pietas di comodo ed obbediente in modo passivo alla prepotente volontà divina. Ora, una tale interpretazione, pur suggestiva, è errata alla radice. Nasce infatti anzitutto dal vezzo, purtroppo diffuso, di leggere una parte di un’opera senza tener conto del significato globale dell’intero: solo la comprensione della globalità può invece illuminare le singole parti, mentre l’analisi, la lettura del particolare, se prescinde da questa visione totale, rischia di tradire l’autore. E’ il pericolo di ogni lettura antologica, di ogni scelta “dei passi migliori” tanto in voga, per criteri estetizzanti o per assenza di tempo, nelle nostre scuole. Essa nasce inoltre da una scorretta lettura del libro stesso: non si tratta, infatti, di reinterpretare con altri occhi, secondo criteri romantici o secondo le ideologie del nostro tempo, il mito di Didone e di Enea. Si tratta anzitutto di ascoltare e comprendere il significato che ha per Virgilio la vicenda nel contesto del poema, il giudizio limpido e rigoroso che emerge, per chi lo sa leggere, dai versi dell’autore. Occorre quindi porsi in questa corretta posizione di ascolto e di comprensione della globalità, da cui il singolo episodio, la singola parola trae luce e senso.
L’Eneide è fondamentalmente la storia di una persona e di un popolo, intimamente legati perché nel destino di Enea sono coinvolti tutti icompagni. Già nel I libro, infatti (vv. 543-558), appare chiaramente questo coinvolgimento: se Enea è perito in mare – dice Ilioneo a Didone – il nostro viaggio si interrompe, possiamo andarcene in Sicilia da Aceste. Senza di Enea, cioè, il popolo troiano non avrebbe più una storia predispostagli dal fato a cui aderire, e potrebbe andare dove vuole: ma sarebbe una libertà illusoria, in cui si riconosce l’assenza di salus e di spes, cioè di significato. Per i Troiani, dunque, il significato è riposto nel viaggio che stanno faticosamente compiendo da quando hanno lasciato Troia: è quanto Enea spiega a Didone nel lungo racconto che costituisce i libri II e III. Questo viaggio è, in sostanza, un ritorno a casa, un nostos, come quello di Odisseo, perché l’Italia è l’antica patria della stirpe. Ma a differenza di ciò che è stato per Odisseo, decidere di partire ha comportato per Enea e i suoi una lacerazione, una frattura: significava lasciare Troia in fiamme, la casa, i compagni, la sposa. Non era un passo facile: persino Anchise, che più di ogni altro forse rappresenta nel poema il legame con la divinità e la tradizione religiosa del suo popolo, preferirebbe morire a Troia, a costo di rimanere insepolto e perciò destinato a non raggiungere i Campi Elisi; persino Enea, di fronte alla perdita di Creusa, abbandona tutto e ritorna in città a ricercare la sua sposa.
Ma un inizio di chiarezza sulla scelta da compiere viene già offerta, pur nella precarietà e nella dolorosa incertezza: è l’apparizione di Ettore, che indica ad Enea il compito fondamentale a lui affidato, cioè la salvezza dei Penati, simbolo di una continuità della tradizione troiana; sono i presagi inviati ad Anchise per illuminarlo nella difficile scelta tra il restare e il partire, e di cui l’anziano padre di Enea sa cogliere e accettare il messaggio; sono infine le parole dette da Creusa ad Enea prima di abbandonarlo: proprio lei, infatti, a cui tocca la parte peggiore (resterà come compagna della magna deum genetrix e non sarà più partecipe della vita di Enea e del figlio) sa incoraggiare lo sposo nel suo cammino, dandogli le prime indicazioni sulla meta da raggiungere e, più ancora, infondendogli la certezza che non haec sine numine divum eveniunt. L’amore per Enea (dulcis coniunx) e per il loro figliolo (nati serva communis amorem) non ostacola, ma motiva, la serena accettazione del posto assegnatole.
Tutto il III libro esprime sforzo di trasformare tale chiarezza iniziale, tale ipotesi di partenza, in certezza. Il libro può essere infatti letto in questa chiave, come il racconto di una via percorsa a tentoni, ma illuminata da rivelazioni a volte offerte, a volte pazientemente ricercate. Enea e i suoi impegnano la loro libertà nella fiducia con cui partono senza sapere con sicurezza dove il fato li porterà, nella pazienza con cui si rimettono sempre in cammino, dopo ogni sosta sbagliata, dopo ogni tentativo di scegliersi da sè 1a propria sede. Anche i nomi con cui battezzano le città che cominciano a fondare, per poi abbandonarle, mostrano che la consapevolezza e l’adesione totale ad un fato riconosciuto come buono non si acquistano una volta per tutte: Eneadi (la prima città in Tracia) e Pergamea (la seconda a Creta) sono appellativi indicanti ancora una scelta individuale, un legame con la propria persona e col passato senza alcuno sbocco di novità. Solo a poco a poco diverrà chiaro che ad Enea e ai suoi non è richiesta una ripetizione del passato (come Eleno e Andromaca hanno effettuato a Butroto), ma un’ apertura al futuro in cui tutto il passato sia recuperato e acquisti senso.
Quando Enea approda a Cartagine, la completa chiarezza non è ancora raggiunta, perché lo attende la rivelazione definitiva di Anchise nel regno degli Inferi (libro VI) e l’incontro, pregno di un riconoscimento affettuoso, con la terra ricca di tradizioni religiose a cui le sue saranno d’ ora in poi intimamente unite (vedi l’invocazione gioiosa ai vv. 120-122 del libro VII: Salve fatis mihi debita tellus, vosque…o fidi Troiae salvete Penates: hic domus, haec patria est; e l’intero VIII libro).
A Didone e ai Cartaginesi egli racconta quindi una storia di speranza e di obbedienza il cui senso ultimo è ancora da raggiungere, anche se ha illuminato di sé ogni tappa.
Solo apparentemente simile è la storia che Didone sta vivendo: anch’ella esule, anch’ella impegnata nella cosruzione di una città, anch’ella responsabile di un popolo di cui è capo, sacerdotessa e garante delle leggi e del lavoro. Ma il legame fra Enea e i suoi, come si richiamava più sopra, non è solo basato sul comune esilio: neppure sulla capacità di Enea, o sull’esercizio di un potere. E’ il riconoscimento da parte dei compagni della pietas di Enea, cioè del rapporto di dipendenza dagli dèi e dal fato, a renderlo guida responsabile del suo popolo. Didone ha con i suoi una comunanza di sofferenze, e di odio per il tiranno Pigmalione: ma manca loro un più profondo legame. Anche la fortuna che, dopo molti travagli, l’ha fatta approdare in Africa, non è similis, com’ella dice ad Enea nell’accoglierlo, al fatum di lui, perché non ha in sé un significato. Questo equivoco nell’identificare le loro due vicende non sarà dissipato in Didone dal1’ascolto del racconto di Enea: premessa fondamentale di una più radicale incomprensione.
Ma vi è un ultimo aspetto della vicenda che precede il IV libro di cui non ci si può dimenticare: l’intervento di Venere. La figura di questa dea è una delle più difficili da capire e da accettare nel poema. Conscia e sollecita del fato del figlio, di cui tuttavia coglie e apprezza la conclusione gloriosa mentre ne rifiuta tutti gli aspetti di rinuncia e di fatica, ella si inserisce arbitrariamente nalla già difficile storia di Enea per modificarne una tappa: facendo innamorare Didone di lui, intende rendergli più facile la sosta a Cartagine, certa ad ogni buon conto che nulla potrà comunque fermare l’inevitabilità del fato. Venere gioca con i sentimenti di Enea e Didone, ridotta a strumento di una pace illusoria, senza curarsi della loro libertà. Peggio ancora, attua una strumentalizzazione del fato ai suoi fini, più grave forse della chiara opposizione di Giunone.
Nel leggere il IV libro occorre quindi tener conto di tutte queste premesse: solo così sarà possibile comprendere appieno le respansabilità di Enea e Didone nel vivere il loro amore in ogni suo momento, fino alla separazione a cui verranno chiamati.
Qui ci preme sottolineare alcune problematiche basilari:
1. Fra Enea e Didone vi è un fondamentale contrasto sul modo di concepire la propria vita. Enea ha affidato la sua esistenza al fato e a chi fa da tramite con esso: su tale fiducia, tante volte messa alla prova ma salda dentro di lui, fonda le sue scelte e i suoi criteri di giudizio, pronto a riconoscere il proprio errore quando si è momentaneamente sviato. Lungi dall’impoverirlo e limitarlo, questo atteggiamento di pietas g1i conferisce una visione più ampia e profonda della realtà, perchè gli fa comprendere che ogni momento delle. sua vita è inserito in una storia provvidenziale più grande di lui, che lo lega al passato e al futuro. Didone invece vive ogni attimo come se si esaurisse nel presente: rompe col passato, pur nella consapevolezza turbata del giuramento che ha rivolto alla memoria del marito, e si attende dal futuro soltanto il compimento del suo progetto, decisa a rifiutare ogni altro futuro le si prospetti. Questo suo conferire ad ogni momento, ad ogni sentimento un valore assoluto nasce proprio dal non vivere radicata nella consapevolezza di un disegno più grande, da una pretesa di autonomia e di autodeterminazione. Anche la scelta del suicidio, lungamente meditato e preparato, trae origine dalla medesima visione della vita come sua esclusiva proprietà.
2. Quello fra Enea e Didone non è un autentico rapporto d’amore. Già il fatto che sia vissuto in modo chiuso ed esclusivo, senza che altri, ad eccezione di Anna, siano posti in grado di comprenderlo e gioirne, è segno di un amore limitato e ultimamente sterile. Ma è soprattutto fondamentale l’incapacità che mostra Didone di capire e accettare il destino di Enea, il compito a cui è chiamato e l’adesione al quale rappresenta l’essenza stessa di lui. Non può essere un amore autentico quello che rifiuta la vocazione dell’altro per sostituirvi un proprio progetto, sia pur esso il dono completo di sè e, in questo caso, anche del proprio potere regale. Non è fuori luogo un confronto con Creusa, da cui emerge chiaramente la diversa profondità dei due modi di amare. Da parte di Enea, l’adesione a questo amore comporta un offuscarsi dell’originaria chiarezza e un’interruzione del cammino; perfino una perdita d’identità, che lo porta, 1ui troiano, dimentico della promessa ricevuta e della sua lunga storia di fedeltà e di pazienza, a sorvegliare in abiti fenici la costruzione di una città che non gli è stata destinata.
3. Vorremmo richiamare il legame di responsabilità che lega, seppure nel diverso modo già descritto, Enea ai Troiani e Didone ai Cartaginesi. Tradire questa responsabilità significa qualcosa di più grave che un venire meno a precisi compi ti politici: per i Troiani l’esito è un essere tagliati fuoti dall’unica prospettiva che avesse un vero significato, essere condannati all’inazione di chi non posdsiede né patria né speranza; per i Cartaginesi l’esito è anzitutto l’interruzione del lavoro, il venir meno di ogni creatività (vv. 86-89). Ancora più chiaramente, l’angosciata invocazione di Anna alla sorella suicida testimonia come la scelta autonoma di morire sia stata un tradimento anche verso il popolo (vv. 682-3).
4. Quanto si è detto a proposito dell’ intervento di Venere, quanto si può dire a maggior ragione dell’ accordo di Venere e Giunone limita evidentemente un’effettiva responsabilità di Didone e di Enea nella genesi del loro rapporto, e di Didone in particolare nella passione violenta con cui lo vive. Ma Virgilio non esclude mai un margine di libertà nei suoi personaggi: non libera nell’innamorarsi, Didone è invece chiaramente responsabile di aver aderito in modo egocentrico a questo amore, e di non sapere accettare che una volontà e un criterio più grandi vi soi sovrappongano. I termini con cui Virgilioo designa la passione di Didone sono in questo senso espliciti: v. ad esempio volnus (v. 1), pestis (v. 91), furor (v. 91), culpa (v. 19 e 172). Se i primi tre possono indicare la negatività dell’amore che altri hanno fatto sorgere in Didone, il quarto è inequivocabile nell’esprimere una responsabilità: nel primo contesto è Didone stessa a definire così l’eventuale accettazione di questo amore; nel secondo il giudizio post rem è di Virgilio stesso, mentre Didone ha ormai rinunciato ad ogni valutazione ed ha scelto la via senza sbocchi della menzogna. Solo la notte precedente il suicidio, infatti, la scelta compiuta tornerà ad apparirle come colpa (crimen: v. 556): ma questa riacquistata consapevolezza diverrà allora un ulteriore motivo di angoscia, una riconferma di non aver più alcuna speranza.
Commento
L’at iniziale collega, per contrasto, l’inizio del IV libro con la fine del III:
Sic pater Aeneas, intentis omnibus, unus
fata renarrabat divum cursusque docebat.
Conticuit tandem factoque hic fine quievit.
Al quiescere di Enea dopo la lunga narrazione, il cui contenuto è stato il viaggio (cursus) e il significatoo del viaggio (fata), corrisponde invece un acuirsi del tormento di Didone, sottolineato da parole come volnus, caeco igni, cura, male sana. La regina è come posseduta (carpitur) da questo sconvolgente sentimento e si apre con 1a sorella che rappresenta per lei una sorta di alter ego (unanimam). Questo primo dialogo è da sottolineare, perché pone premesse fondamentali per la comprensione dell’ intero libro. Dalle parole di Didone emerge anzitutto lo leggerezza e l’incapacità di autentico ascolto con cui ha interpretato la persona e il racconto di Enea secondo un suo criterio riduttivo. Di Enea l’hanno colpita l’aspetto, la forza, la stirpe, il coraggio, le peripezie, mentre la realtà più profonda dell’uomo e della sua storia le è completamente sfuggita. Vede in lui, sentimentalmente, un eroe iactatus fatis, cioè sfortunato e bello nella sventura, non invece chi ha saputo credere fino in fondo che fata viam invenient (III, 395), che fata e cursus erano legati da un rapporto significativo. Per questo l’unica obiezione all’amore è la sua personale situazione (l’aver fatto giuramento di non risposarsi) e non la preoccupazione del destino di Enea, diversamente orientato. ‘Appare chiaro counque che la passione instillatale dal dio Amore, se rappresenta già una follia, la rottura di un equilibrio, non impedisce però ancora a Didone di valutare correttamente, di riconoscere come colpa un’eventuale adesione ad essa. La risposta di Anna esprime limpidamente la logica autonomistica di chi rifiuta che altri decidano del destino dell’uomo, la pretesa di capire tutto, d’inquadrare secondo criteri razionali ciò che sfugge alla ragione: in particolare nei vv. 45-531, quando alle motivazioni pratiche succedono interpretazioni e consigli, questo atteggiamento appare chiaro: è lei a decidere che gli dèi favoriscono questo amore, a preconizzare senza fondamento liete conseguenze per la città dal compimento di esso, a suggerire un patteggiamento con gli dèi a cui, in cambio di sacrificii, deve essere richiesta una venia prima ancora che la colpa sia commessa. Anche in Anna, inoltre, 1a libertà di Enea non è tenuta presente: la proposta è di imporgli con l’inganno, in cambio della rinuncia alla sua vocazione, un rapporto i cui vantaggi sono visti solo per Didone. I versi successivi, che narrano il primo attuarsi di un progetto a cui ormai Didone ha totalmente aderito, già smentiscono l’incosciente ottimismo di Anna: sottolineiamo, in particolare, l’assurdità, l’inutilità dei sacrifici compiuti con un simile atteggiamento irreligioso (quid vota furentem, quid delubra iuvant?) e la simbolica descrizione dell’arresto di ogni lavoro per il venir meno della responsabilità della regina.
Il colloquio fra le due dee non è che la continuazione e la concretizzazione dell’originario progetto di Venere: l’intervento di Giunone, infatti, preoccupata della situazione in cui Didone si trova (vedi parole come peste, furori, miserrima), e più ancora del futuro che avrà Cartagine se il destino di Enea si compirà (già la tempesta del I libro è stata da lei provocata con lo scopo di opporsi alla sua realizzazione), è di fatto vanificato dall’astuzia della rivale. Come si è già detto, Venere è sicura (ne ha avuto conferma da Giove) dell’inevitabilità del fato: per questo non si oppone a che, provvisoriamente, l’inganno da lei teso a Didone abbia conseguenze più vaste di quelle previste in origine. Giunone invece, nonostante il suo ascendente su Giove, di cui Venere di buon grado si vale, è già perdente in partenza: a nulla serve l’astuzia con cui presenta la prospettiva di una Didone asservita ad Enea, dei Cartaginesi offerti in dote a Venere (ella spera, beninteso, che sia Enea a perdere la sua identità di troiano e le sue speranze future in questo patto, cosa che puntualmente si verificherà, almeno fino al richiamo di Giove): Venere, forte della sua sicurezza, finge di non comprendere l’inganno e di favorire le nozze fre i due. Ma il risit con cui suggella l’accordo, comunque si voglia interpretare la frase, esprime la certezza della vittoria. E proprio questo risit la giudica: indica l’incoscienza con cui ella passa sopra ad ogni valore, compresa la vita stessa di Didone, compresa la tensione di Enea alla fedeltà e all’obbedienza, per un malinteso desiderio di assicurare al figlio una tranqui1lità provvisoria, se non addirittura per il piacere di essere nuovamente lei a vincere su Giunone. E’ un esempio della stupefacente laggerezza degli dei, a cui, nei limiti peraltro non angusti del fato, tutto è permesso e tutto è oggetto di gioco. Virgilio ha ereditato questa concezione delle divinità da secoli di mitologia greco-romana; non la modifica, ma la accoglie con disagio e stupore: vedi I, 11 tantaene animis caelestibus irae?, in cui pone, con dolorosa meraviglia, il problema dell’incapacità di perdono di Giunone (memorem … iram: v. 4) e del contrasto fra la pietas di Enea e la continua persecuzione della dea; vedi anche I, 407-409, quando Enea rimprovera la madre, crudelis tu quoque, di non essersi mostrata a lui nel suo vero aspetto, di averlo ingannato senza alcun motivo se non il suo capriccio di dea. La concezione del Fato, non solo come in Omero, superiore anche agli dei, ma provvidenziale pur se non sempre intellegibile nei dolorosi sacrifici che richiede, esprime proprio la ricerca, da parte di Virgilio, di superare una religione basata su divinità assurde e capricciose anche quando sono propizie.
La decisione che Didone e Anna da una parte, Giunone e Venere dall’altra hanno ormai irrevocabilmente presa giunge al compimento. Tutto si verifica secondo i piani predisposti da Giunone; ma la cupa atmosfera che subentra alla festosa scena iniziale per fare da sfondo al primo incontro d’amore di Enea e Didone, benché prevista nel progetto originario, non può non esprimere simbolicamente la negatività, la menzogna insita in questa parodia di matrimonio. Il loro infatti non è un rapporto d’amore puro e semplice: è solennizzato da una sorta d’imitazione sinistra dei riti nuziali romani (Giunone fa da pronuba, cioè da accompagnatrice della sposa, le ninfe sostituiscono con le loro lugubri grida i gioiosi epitalami); 1’equivoco di un rapporto stabile, definitivo, già manifesto nelle parole di Didone (v. 16), di Anna (v. 48), di Giunone (v. 99), qui si perpetua e si concretizza, non più progetto, ma modo di vivere. Didone chiama coniugium ciò che una volta aveva chiamato culpa, ciò che è culpa in effetti: il loro non può infatti essere matrimonio perchè in altro senso orientata è la vocazione di entrambi, anche se entrambi l’hanno dimenticato. Né può essere amore autentico, perché sradicato da un contesto provvidenziale, che solo può dare un senso e una creatività all’amore umano. Virgilio sottolinea questo concetto con le parole che commentano immediatamente il racconto (vv. 169-172): l’unione fra Enea e Didone non è un’apertura alla vita, ma una causa di morte, non è l’affermarsi della verità sulle convenzioni, ma la scelta cosciente della menzogna.
La Fama, personaggio ambiguo perché raffigurato come divinità e contemporaneamente personificazione delle dicerie degli uomini, rappresenta il piacere malevolo con cui, in ogni società umana (poiché solo fra gli uomini è posta a vivere; infatti a Giove la notizia giungerà per altra via), tutti gli eventi che riguardano una persona, in particolare quelli più dolorosi e negativi, vengono raccolti, diffusi e distorti senza misericordia. In tutto il poema la Fama ha questa funzione di messaggera maligna, che canta facta atque infecta: porterà a Didone, in modo inesatto e intempestivo, la notizia dei preparativi della partenza di Enea (vv. 298-299, dove non a caso è detta impia); diffonderà per la città la notizia del suicidio di Didone (v. 666); nei libri successivi, sarà portatrice di ogni notizia luttuosa o comunque rischiosa se interpretata in modo scorretto (cfr. VII,104 e 392; VIII,554; IX,474; XI, 139-141). Simboleggia, insomma, la difficoltà di rapporti autentici fra gli uomini, che siano fondati su un amore per la verità non disgiunto dal rispetto per la persona dell’altro. Puntualmente viene ora raggiunto dalla Fama chi più poteva soffrire per la notizia dell’unione di Didone ed Enea: Iarba, le cui nozze Didone aveva respinto e che si vede preferito il primo venuto. Nelle parole di Iarba a Giove troviamo il riflesso del modo con cui la notizia gli è stata riferita(vedi la dascrizione di Enea ai vv. 215-217). Ma vi è un’altra osservazione da fare. Nei vv. 199-202 è descritta la fervida religiosità di questo re; ma la preghiera che egli ora rivolge a Giove è un chiaro esempio di religiosità negativa; nonostante sia detto supplex, le sue parole esprimono solo la pretesa di un’equivalenza perfetta fra devozione e restituzione da parte del dio; pretesa che la divinità .agisca nell’impedire la libertà altrui, che si esprime anche nella colpa, per tutelare la sua felicità; pretesa che il dio si adegui all’immagine che egli se ne è fatta, pena il vanificarsi di ogni considerazione e di ogni rispetto.
Giove è l’unica divinità imparziale del poema: suo compito e sua preoccupazione è garantire che il fato si compia. L’invocazione di Iarba è da lui accolta non tanto per simpatia o protezione e nei confronti del suo fedele, quanto perché lo richiama ad una attenzione alla storia di Enea da cui si era momentaneamente distolto (probabilmente per i raggiri di Giunone, stando almeno ai vv. 110-115: ma il poeta non lo specifica e forse non ha avuto il tempo di farlo). Il messaggio che invia ad Enea non ha quindi lo scopo di favorire Iarba, ma quello, ben più essenziale, di risvegliare nell’eroe una responsabilità sopita, di fargli memoria del suo passato e del suo futuro: Enea non può dimenticare che è stato salvato per una missione da portare a termine, in cui non lui solo è coinvolto, ma il figlio e tutta una stirpe (vv. 227-234); non può continuare a vivere una tranquillità destituita di ogni speranza (vv. 235 e 271). Il tramite fra Giove ed Enea è Mercurio, nuntius come nuntia è la Fama, ma opposto ad essa nella fedeltà con cui comunica il messaggio e nell’autorevolezza costruttiva che le sue pur dure perole possiedono. La reazione di Enea va interpretata con attenzione, per evitare una lettura frettolosa e superficiale: horror (v. 28O) indica per i latini la sensazione di sbigottimento che si prova al manifestarsi della divinità, all’improvviso palesarsi di una realtà più grande di noi. Al dio che gli richiama alla memoria (monitu) autorevolmente (imperio) la sua missione, Enea non può opporre che questo sbigottito silenzio, in cui già si matura la decisione di rinnovare l’obbedienza. E’ una decisione immediata, ma dolorosa fin dalla sua genesi: si tratta di dulcis… relinquere terras e di persuadere la regina, che, nella passione, non saprà certo comprendere (furentem). Primo segno costruttivo dell’obbedienza di Enaa è, d’altro canto, la gioiosa alacrità con cui i Troiani riprendono il lavoro, laeti che egli abbia riassunto il suo compito e la sua responsabilità (cfr. anche più avanti i vv. 397-407).
Nell’incertezza sul modo migliore di affrontare Didone, Enea aveva sperato di trovare mollissima fandi / tempora (vv. 293-4), persuaso che la donna tantos rumpi non speret amores (v. 292). Ma Didone, paradossalmente, viveva il loro rapporto d’amore con un senso di precarietà molto maggiore di Enea. Proprio perchè in esso aveva riposto ogni speranza, aveva impegnato il suo presente e il suo futuro accettando l’equivoco della presunta definitività, la regina era omnia tuta timens, cioè continuamente angosciata di perdere questa artificiosa sicurezza con cui aveva scelto di identificare il significato di sé e della la sua vita. Enea, ancorato anche nei momenti dell’oblio ad una stabilità fondata su una realtà più grande dell’uomo e perciò non precaria, non conosce questa angoscia e questo timore: sa che nessuna perdita, nessuna frattura, nessun distacco pur doloroso l’ha infatti mai privato del senso ultimo del suo vivere. Non è, come molti hanno supposto, un modo inferiore di amare, ma, più profondamente, una diversa coscienza di sé e della storia. La fondamentale immaturità con cui Didone aveva affrontato l’unione con Enea si rivela più esplicitamente nelle parole che gli rivolge, dopo aver attraversato, come invasata, tutta Cartagine: quello di lei è un amore non basato sulla fiducia (accoglie le diceria della Fama senza neppure chiedersi se realmente Enea è capace di tradimento); nutrito di illusioni e di autoinganni (vedi v. 316 per conubia nostra, per inceptos hymemaeos) iù o meno coscientemente disonesto (vedi i vv. 309-311), in cui usa, per convincere Enea a restare, proprio gli stessi pretesti suggeriti da Anna ai vv. 51-53); egocentrico (tutte le sue parole sono piene di lei, delle sue benemerenze, dei suoi sacrifici, della sua difficile situazione, della sua solitidine; anche il mene fugis? del v. 314 fa comprendere come per Didone solo una motivazione che la riguardi, seppure negativamente, può esser all’origine delle scelte di Enea). Appare soprattutto evidente un ribaltamento di prospettiva, per cui un rapporto da lei coscientemente desiderato e ricercato, tutte le conseeguenze del quale erano state vagliate nell’iniziale colloquio con Anna, viene ora rinfacciato come un dono fatto ad Enea e di si richiede la ricompensa. Nessuna parola che esprima un’intuizione del dramma di lui, se non l’accenno, carico d’incomprensione e forse di dispregio, agli arva aliena domosque ignotas (v. 311). I versi 331-332, come i successivi 393-396, rivelano invece chiaramente questo dramma: Enea è angosciato dal dolore di lei che vorrebbe poter consolare, tormentato lui stesso dall’amore: ma nella sua desolazione sa che l’unica certezza è riposta nel monitus di Giove e con fatica vi aderisce fermamente. Anche la risposta a Didone esprime questa dolorosa certezza. Si è voluta vedere una freddezza in Enea, per la brevità e la sobrietà con cui risponde alle accuse e alle invocazioni di Didone, con cui accenna appena di sfuggita al ricordo che serberà di lei. Ma se soltanto le prime brevi parole (vv. 333-339) costituiscono una diretta risposta alle accuse di lei, o meglio un richiamo a ciò che Didone già sapeva, e aveva più o meno coscientemente distorto, altre cose gli urgevano e richiedevano pressantemente di essere ricordate a lui stesso e alla donna: i vv. 340-361 sono un riepilogo e un recupero di tutta la sua storia, dal doloroso distacco da Troia all’apparizione di Mercurio, così immediatamente percepita (v. 358) che non si può più cancellare o eludere. La dolorosa necessità della rinuncia, incominciata per lui ben prima dall’arrivo a Cartagine, si esprime in frasi inequivocabili: hic amor, haec patria est (v. 347), Italiam non sponte sequor (v. 361), e nel fas del v. 350 che riprende il nefas di Didone (v. 306). Ma ella non può capire perchè, come si è più volte sottolineato, non ha mai capito: per questo è psicologicamente comprensibile l’ira con cui reagisce alle parole di lui, come l’ira con cui aveva reagito alle parole della Fama: i motivi di Enea non possono essere per lei che pretesti e invenzioni per nascondere una volontà di tradimento. Anche qui notiamo inoltre un ribaltamento di prospettiva, una visione egocentrica: pius non è Enea, ma gli dèi che siano disposti a vendicarla; ogni altra divinità è respinta come ingiusta (vv. 371-2) o derisa nella sua fedeltà al fato (vv. 376-380).
Al fervore gioioso dei Troiani, che riempiono di attività e di clamori il porto di Cartagine, si contrappone l’angoscia della regina, che si sente ormai esclusa dalla vita di Enea. Il messaggio che gli manda, tramite la sorella, non contiene più pretese o minacce, ma solo la preghiera di procrastinare la partenza, concedendole del tempo perch’ ella si abitui al dolore. Ma la rassegnazione al distacco, se pur differito, è solo apparente: di fatto Didone ancora rifiuta le motivazioni di Enea, non capisce l’ansia che lo spinge (quo ruit?), ritiene, in fondo, che sia lui a desiderare di partire, o per ambizione (v. 432), o per disamore verso di lei (vv. 425-428). E se, apparentemente, ella si mostra disposta ad imparare a soffrire (v. 429), la morte è già presente nelle sue parole, anche se alle orecchie di Anna la frase finale doveva, volutamente, suonare non preoccupante. Ma Enea non può cedere alle preghiere delle due donne, anche se magno persentit pectore curas. Il paragone con la quercia (vv. 441-449) è, a nostro parere, la chiave di lettura che deve guidarci nel comprendere fino in fondo l’essenza della personadi Enea, la consistenza stessa della sua pietas. Non per insensibilità o per passività mens immota manet, ma perché radicato nella roccia e teso verso l’alto è l’albero cui egli somiglia, perché saldo in una certezza imperitura e in un’obbedienza fiduciosa, pur nella sofferenza, egli si è conservato. L’alternativa a questo atteggiamento non è la libera realizzazione di sé, come Didone e per qualche tempo Enea stesso, forse, avevano pensato, ma la perdita del senso del vivere: perciò Didonee, rifiutando questa certezza a cui altra non può sostituirne, si avvia inevitabilmente verso la morte. Dapprima è solo un taedium vitae, un desiderio di morire (vv. 450-1); poi, dopo i presagi che l’atterriscono, in una solitudine che neppure Anns è chiamata a condividere (v. 456), decrevit mori (v. 475). La decisione, espressa con chiarezza dal verbo e dalle parole che lo seguono (vv. 475-476), è presa in autonomia e solitudine: d’ora in poi le sue parole e le sue azioni avranno un senso per lei e uno per gli altri. Sorrolineiamo in particolare l’atteggiamento con cui si rivolge ad Anna (v. 477), le parole con cui le annuncia il suo piano (vv. 478-480), l’haud ignara futuri che suggella i preparativi del rito, funebre per lei, magico per gli altri, soprattutto i vv. 519-520 in cui l’ambiguità della situazione appare evidente dalla stessa collocazione delle parole: nel prendere a testimoni gli dèi ella sa già che morrà e che gli astri sono invocati utilmente perché consapevoli del fato che deve compiersi.
L’ambiguità sottolineata nei precedenti versi coinvolge ora, in un angoscioso monologo notturno, anche la stessa Didone, nonostante la decisione di morire sia stata presa. Ed è psicologicamente comprensibile questa divisione nell’animo della donna: sconvolta da sentimenti contrastanti, ella riconsidera le uniche vie d’uscita che riesca a concepire, tutte vane, se non assurde in partenza: benché apparentemente sia alla ricerca di altre soluzioni, sembra voglia inconsciamente riconfermarsi nella certezza che il suicidio è ormai l’unica prospettiva. La possibilità di ritornare alla vita pracedente, nella responsabilità serena che l’aveva caratterizzata al suo primo apparire nel poema (I, vv. 505-508), non è neppure presa in considerazione: il crimen è stato ormai commesso, la fides a Sicheo non è stata serbata. E Didone non sa più tornare indietro: le sue parole non esprimono un pentimento per la colpa commessa, ma l’umiliante riconoscimento della propria stoltezza (v. 547) e, soprattutto, la tragica convinzione di aver imboccato, accettando l’amore, una via irreversibile, che ella non ha più la capacità di mutare e che può chiudersi solo con la morte. Enea è invece saldo nella sua decisione di ricominciare il cammino (certus eundi): ma a farlo partire senza indugi è un nuovo intervento di Mercurio. Le parole del dio, ora che non riecheggiano puntualmente la volontà del fato, sono volutamente ambigue: egli dice infatti che la regina si prepara al suicidio, e che presto tutto il litorale sarà ribollente di uomini e di fuochi: ma l’annuncio è dato in modo che si possa diversamente interpretarlo, come se dolos dirumque nefas fossero meditati da Didone non contro se stessa o i suoi, ma contro i Troiani. Il vero significato delle sue parole, dove l’unica espressione inequivocabile, certa mori, à detta quasi di sfuggita, non è compreso da Enea, né forse voleva essere compreso. L’ultima apparizione dell’eroe nel IV libro è comunque ancora un gesto di pietas: è la fiduciosa obbedienza a un dio sconosciuto, dalle parole forse non chiare, ma per la sua riconosciuta divinità invocato come sanctus: sequimur te, sancte deorum, quisquis es (vv. 576-577).
La disperazione di Didone, all’accorgersi della definitiva partenza troiana, acquista toni terribili, in cui dominano l’umiliazione subìta come donna e come regina, il rimpianto per non essersi vendicata finché era in tempo, e la maledizione su tutto il cammino futuro di Enea e della sua stirpe. Ma vi domina soprattutto l’amore, divenuto ormai cieca furia (vedi v. 606: ella vorrebbe aver ucciso Enea, ma anche non essergli sopravvissuta) ed unico criterio di giudizio: la pietas e la fides (vv. 596-599) sono valutate solo nell’ambito amoroso; altrove sono prive di senso, se non addirittura colpevoli quando con le supreme esigenze dell’amore vengono a contrasto. Giocando sull’equivoco (vedi il discorso a Barce, e in particolare l’ambiguità dei vv. 638-640), Didone ottiene allora di essere sola per portare a termine il suo progetto di suicidio. Le ultime parole pronunciate prima di colpirsi con la spada donatale da Enea rivelano ancora una volta, e in modo definitivo, l’interpretazione soggettiva della vita che ha sempre guidato le sue azioni e le sue scelte (vv. 653-658): pur nel dolore che la tormenta, ella esprime con fierezza la convinzione di aver portato a termine il compito affidatole, di non aver quindi più nulla che la leghi alla vita. Perciò si sente libera di decidere da sé il tempo giusto per morire. Ma l’autonomia della decisione appare subito nella sua tragica negatività: lo mostra il dolore di Cartagine (concussam … urbem): sconvolta dall’atto della regina che l’ha privata della sua guida, del suo capo responsabile, per cui è come se la città intera crollasse (vv. 655-671); lo mostrano gli accorati rimproveri di Anna, ingannata da Didone che ha voluto morire sola e che pre ha coinvolto nel suo suicidio la sorella, il popolo, gli anziani e la città (vv. 602-603). Il dolore della città, le parole di Anna che ora abbiamo ricordato esprimono con estrema chiarezza il limite della decisione di Didone: aveva creduto di poter disporre liberamente della sua vita, dimenticando che nessuno è responsabile solo di se stesso, ma ogni sua azione si ripercuote su tutti coloro che gli sono vicini, che dipendono, politicamente o affettivamente, da lui. Ma più grave appare il gesto di Didone nei confronti del fato: ella infatti non riesce a morire, e una straziante agonia protrae la sua vita, perché nec fato, merita nec morte peribat. La scelta contraria al proprio destino si rivela insufficiente: occorre un intervento divino, l’estremo gesto affettuoso di Giunone verso la sua protetta, perché il suicidio abbia il proprio compimento.
La partenza dei Troiani da Cartagine é stata un nuovo abbandono alla volontà dei fati: Enea guida la flotta con decisione e sicurezza (certus,v. 2) nonostante i sinistri presagi che il lontano rogo di Didone ha evocato alla partenza; quanto succede è in ogni caso vissuto con pace: anche la tempesta che si scatena e costringe Palinuro a piegare rotta di nuovo verso la Sicilia non provoca impazienza in Enea,e nemmeno in Palinuro stesso,anche se nelle parole c’è già già il primo inconsapevole presagio della morte prematura: Magnanime Aeneas, non, si mihi Iuppiter auctor / spondeat, hoc sperem Italiam contingere caelo (vv. 17-18). Anzi, è Palinuro a suggerire ad Enea,insieme alla nuova rotta, un criterio di comportamento simile a quell’abbandono che Enea vive ormai con sempre maggior chiarezza: …superat quoniam Fortuna sequamur, / quoque vocat, vertamur iter (vv. 22-23). Ciò che il destino costruisce a poco a poco può anche manifestarsi in fatti ed avvenimenti che sembrano contrastare con le decisioni della volontà personale,anche se questa é tesa proprio alla realizzazione di esso; la risposta di Enea, ormai conscio anche di questo,non é dettata dalla impazienza o dal disappunto di vedersi ancora una volta chiuso quel cammino verso l’Italia che alla partenza da Cartagine sembrava così facile; e non esiste in lui traccia di quel disoriontemento con cui aveva vissuto la tempesta che lo aveva fatto arrivare a Cartagine. Vede invece nel nuovo approdo consigliato da Palinuro la possibilità di ritornare, dopo un anno così segnato da esperienze e fatiche, sui luoghi visti quando ancora tutte le più importanti decisioni erano affidate a suo padre Anchise, morto su quelle rive: potrà quindi onorarne la memoria e intanto misurare il cammino di coscienza percorso in questo tempo da lui e dalla sua gente: anche questo approdo è dunque una occasione, non una fatica che inciampa il cammino:
Nunc ultra ad cineres ipsius et ossa parentis
haud equidem sine mente, reor, sine numine divom
adsumus, et portus delati intramus amicos. (vv. 55-58)
Le feste in onore di Anchise sono quindi celebrate non solo in ossequio alla tradizione, ma anche perché permettono a tutto il popolo di rivivere in questa celebrazione la memoria della persona a cui erano affidate le interpretazioni dei primi e cosi vaghi segni del destino: la passione e la cordialità con cui i partecipanti gareggiano non sono dettate solo da semplice agonismo sportivo, ma dal desiderio di celebrare davvero questa commemorazione, facendo proprie la genialità e l’obbedienza di Anchise, e la passione al destino che per primo aveva vissuto fino da quando, nel disorientamento generale, per la prima volta aveva fatto alzare le vele da Troia in fiamme (III, v. 9). Il clima di questo canto é perciò ben diverso da quello dei precedenti: ritorna incessantemente la memoria del passato e della disfatta di Troia, nei gesti antichi del sacrificio ad Anchise, nelle esortazioni di Mnésteo ai compagni:
Hectorei socii, Troiae quos sorte suprema
e nei doni che vengono distribuiti:
Loricam, quam Demoleo detraxerat ipse
victor apud rapidum Simoenta sub Ilio alto. (vv 260–261)
et clipeum efferri iussit, Didymaonis artis,
Neptuni sacro Danais de poste refixum. (vv. 358-360)
o nella gara con l’arco, quando si sceglie a sorte l’ordine con cui tirare:
Tertius Eurytion, tuus, o clarissime frater
Pandare, qui quondam,iussus confundere foedus,
in medios telum torsisti primus Achivos. (vv. 495-497)
Ma Enea e i compagni non si volgono più al passato per rimpiangerlo: c’é un futuro verso cui protendersi, uno spazio ancora da vivere, in cui non mancheranno il dolore e la morte, come sa bene Virgilio, che racconta con particolare affetto la gara di corsa a cui partecipano Eurialo e Niso (vv. 315-339). Pure,c’è una promessa di continuità: nei nomi dei partecipanti alla gara delle navi Virgilio riconosce già i nomi di future famiglie romane, e nella prova dei cavalli vede la prima celebrazione dei giochi poi a Roma tramandati: Troiaque nunc pueri, Troianum dicitur agmen (v. 602). Questi giochi, in particolare, sono una occasione in cui Enea, dopo la dolorosa vicenda di Didone, riscopre il suo popolo e riconosce che esso è più vicino e unito a lui di quanto credesse: la gioia con cui distribuisce i premi,la superiorità indiscussa con cui sono accettati i suoi giudizi,la libertà quasi impudente con cui gli si rivolgono alcuni, come Niso, che pretende il premio dopo esser caduto nella corsa, fanno gustare ad Enea una compagnia e una familiarità forse ritrovate dopo tanto tempo: ma la radice profonda di questa familiarità è nel fatto che Enea è ormai a capo non di una massa inconsapevole,ma di un popolo che sa dove vuole arrivare, e che rivonosce in Enea la guida più autorevole e cosciente in questo viaggio:i frequenti accenni ad Enea come pater (vv. 348, 425, 461, 700) assumono quindi un accento particolare. Alla luce di queste considerazioni, si capisce meglio l’ultima prova che questo popolo deve affrontare e che permetterà di scegliere quelli che salperanno per le coste dell’Italia:anche le donne troiane piangono Anchise,ma lontano,in disparte:
At procul in sola secretae Troades acta
amissum Anchisen flebant cunctaeque profundum
pontum adspectabant flentes (vv. 6l3–615).
Esse non rivivono la sua commemorazione, né si immedesimano con le ragioni e le speranze che lo avevano guidato di spiaggia in spiaggia; a queste donne Giunone manda Iri, perché le spinga a bruciare le navi: nelle parole della dea il viaggio di Enea non è un cammino sempre più preciso alla luce dei segni del destino,ma un eterno vagabondare senza meta:
Septima post Troiae excidium iam vertitur aestas
cum freta, cum terras omnis, tot inhospita saxa
sideraque emensae, ferimur, dum per mare magnum
Italiam sequimur fugientem et volvimur undis (vv. 626-629)
Perché non accontentarsi allora di ciò che sembra essere più simile ai luoghi del ricordo?
Hic quaerite Troiam, / hic domus est, inquit, vobis (vv. 637-638)
Quando tace Iri, apparsa sotto le sembianze di una di esse, dopo aver perfino invocato l’autorità di Cassandra apparsale in sogno, le donne per un breve attimo restano sospese, incerte:
At matres primo ancipites oculisque malignis
ambiguae spectare rates, mirum inter amorem
praesentis terrae fatisque vocantia regna (vv. 654-656)
L’alternativa è loro ancora possibile; Enea aveva già capito un,anno prima che il fato non chiedeva affatto di ricostruire una città ad immagine di Troia (III, vv. 349-350); lo svelarsi della dea, invece, oscura le menti delle donne:
Tum vero attonitae monstris actaeque furore
conclamant rapiuntque focis penetralibus ignem,
pars spoliant aras, frondem ac virgulta facesque
È un furor,come pochi versi dopo nota anche Ascanio, arrivato per primo al galoppo accanto alle navi: qui furor iste novus? (v. 670); il furor é una reale impossibilità di afferrare e comprendere la verità delle cose: é lo stesso termine usato nel IV libro per indicare la condizione umana di Didone. Rispondendo alla invocazione di Enea,Giove spegne il fuoco con un rovescio di tempesta;ma già l’accorrere appassionato di Enea e dei Troiani indica quanto questo popolo abbia ormai a cuore quel destino che prima sembrava essere perseguito solo da Enea. C’è un modo comune di guardare le siuazioni e di risolvere i problemi che via via nascono: e come al l’inizio Enea ha accolto il consiglio di Palinuro sulla scelta della rotta, ora è un altro Troiano, Naute, a suggerirgli che cosa fare; ed è per Enea un conforto grande e pieno di meraviglia scoprire questa comunanza di giudizi e sentimenti: isque his Aenean solatus vocibus infit (v. 708). Il consiglio di Naute è che il destino vada comunque perseguito,e con tutta la pazienza che esso e le avversità richiedono; ma chi non ha imparato in questi sette anni di esilio l’amore al destino,o é stato vinto dalla fatica e dall’età,possa liberamente fermarsi. Quest’ultima difficoltà ha dunque mostrato chi, vivendo con Anchise ed Enea,si è immedesimato nelle ragioni di questo viaggio: solo questi partiranno per le coste italiane: l’ombra stessa di Anchise conferma il consiglio di Naute, sottolineando così di quanta saggezza siano ormai capaci alcuni compagni di Enea (vv. 723-739).
Quelli che hanno confuso il volere del destino con la fondazione di un’altra Troia avranno esattamente ciò che hanno sperato: bastano a Virgilio trenta versi (746-778) per descrivere la fondazione di Acesta, le feste e i sacrifici, ed anche il pentimento di chi ha deciso di restare: solo un anno prima Enea e la sua gente sognavano di potersi fermare lì; ora, mentre compiono veloci i riti di fondazione, preme l’urgenza e il desiderio di riprendere il mare, appena si sia offerto un sacrificio conveniente (vv. 773-778). Questo viaggio verso l’Italia richiede però anche un’altra vittima: Virgilio non ne spiega il motivo, né dice perché debba essere Palinuro, nocchiero e amico carissimo di Enea; ma nella descrizione del Sonno che lo avvince Virgilio ne sottolinea l’innocenza:
aera dimovit tenebrosum et dispulit umbras
te, Palinure, petens,tibi somnia tristia portans
Ed anche nel suo dialogo con la divinità, presentatasi sotto le spoglie di Forbante, c’é tutta la serietà dell’uomo che si sente responsabile della nave a lui affidata e che non vuol lasciarsi ingannare dall’aspetto della distesa marina:
Mene salis placidi voltum fluctusque quietos
ignorare iubes? Mene huic confidere monstro?
Aenean credam, quid enim, fallacibus auris
et caeli totiens deceptus fraude sereni? (vv. 848-851)
Per Virgilio e per Enea il destino assicura un luogo e una continuità al popolo, ma non ancora all’individuo; e la domanda sul perché di questa e di altre simili morti di uomini innocenti che con lui perseguono lo stesso cammino, non trova ancora per Enea una risposta adeguata:
Cum pater amisso fluitantem errare magistro
sensit, et ipse ratem nocturnis rexit in undis,
multa gemens casuque animum concussus amici:
O nimium caelo et pelago confise sereno,
I primi due versi sarebbero stati posti originariamente alla fine del quinto libro, a completamento dell’episodio di Palinuro: così riferisce Servio, aggiungendo che Vario e Tucca, i due curatori, li avrebbero spostati all’inizio del sesto. Fra i moderni, solo il Ribbeck segue l’indicazione di Servio, mentre tutte le altre edizioni lasciano i due versi nella posizione tràdita, anche perché il terzo verso, con una brusca frase al plurale senza soggetto, sembra inadeguato per un incipit. Si tratta comunque di due versi fondamentali: il dolore per la perdita del compagno e per l’apparente tradimento di Apollo (di cui si dirà) non impedisce ad Enea di condurre velocemente la flotta alle coste tanto attese dell’Italia: la metafora dell’auriga che si precipita in vista del traguardo (immittit habenas “lascia andare le redini”) si accompagna al <i”>tandem, “finalmente”, del primo traguardo raggiunto, la colonia euboica di Cuma. Il racconto dell’approdo sembra costruito in opposizione allo sbarco in Africa del primo libro, vv. 166 segg.: se sono necessarie manovre – volgere le navi perché siano pronte a ripartire, schierare le poppe, ancorarle – mentre in Africa la grotta ospitale non aveva richiesto funi né ancore, l’entusiasmo dei giovani che per primi prendono terra si contrappone alla stanchezza dei naufraghi coperti di salsedine, in cerca di una qualunque terraferma; in manus emicat ardens il significato etimologico del verbo di modo finito è rafforzato dal participio, quasi “sprizza fuori bruciante”, come la fiamma che subito dopo viene fatta scaturire dalla selce. Sono i giovani pieni di ardore, non come allora Acate, l’unico capace ancora di responsabilità, a procurare il necessario per tutti: la riduzione del gruppo per l’abbandono degli stanchi e sfiduciati ha dato nuovo impulso a chi ha scelto di partire, i lectos iuvenes, fortissima corda suggeriti da Anchise in sogno (V, 729-30). E se come allora Enea si assenta e sale in alto non è per scrutare il mare che l’ha fatto deviare dal percorso ma per cercare il santuario, la meta raggiunta.</i”>
Nonostante l’at pius Aeneas del v. 9 che, come si diceva, separa il capo dai compagni, già il plurale del v. 13 (ripreso al v. 34) indica un salto temporale e un movimento collettivo; al v. 34 Acate torna da un incarico di cui non si era parlato, e in seguito (vv. 40-41) compiono in più persone – viri, Teucros– gli ordini della Sibilla.
La topografia è complessa: se arces va inteso come un plurale vero e proprio vi sono due colli o due rocche protetti da Apollo: altus può riferirsi alla protezione divina che domina al di sopra oppure riferirsi alla collocazione materiale del tempio su una rocca, cinto dal bosco sacro a Diana / Ecate / Trivia, la dea sorella. Collegato al tempio è l’antro della Sibilla, su cui si accumulano termini indicanti diversità dall’umano consueto, horrendae detto della profetessa, propriamente “tale da suscitare un misterioso timore”, immane dell’antro, aggettivo polisemico che spazia dallo “smisurato” al “terribile”, e procul secreta “luoghi separati lontano” che suscitano un’idea di distanza e nascondimento senza in realtà spiegare la necessaria connessione col santuario; anche alta del v. 41, riferito al luogo in cui la Sibilla invita i Troiani, non è chiaro se definisca il tempio da cui si arriva all’antro, oppure l’antro stesso senza un tramite diretto: alta indicherebbe allora la profondità. Lessico, quindi, più psicologico che descrittivo. Ampiamente descrittiva è invece la lunga presentazione della decorazione del tempio, che costituisce un’ekfrasis mitologica e iconografica di gusto ellenistico: a differenza dal tempio di Cartagine, le cui scene tratte alla guerra di Troia danno ad Enea la certezza di giungere in luoghi in cui è nota e onorata la sua storia, e dal tempio simbolico di Georg. III, 13 segg., che raffigura la gloria di Roma e di Ottaviano, questo non pare avere legami con la vicenda in cui è inserito. Costruito da Dedalo giunto in volo, rappresenta in oro le storie di Atene e Creta: su un battente l’ ambientazione ateniese, con l’uccisione di Androgeo, il figlio di Minosse, e sotto o di fianco l’urna da cui si dovevano estrarre i nomi dei giovani da mandare a Creta, stat…urna, v. 22; sull’altro battente – contra…respondet – l’isola di Creta, dove sono ambientati gli amori bestiali di Pasifae col toro, da cui nasce il biformis Minotauro; sempre sullo stesso battente il labirinto, presentato con l’ampia perifrasi labor ille domus et inextricabilis error. L’imposizione dell’obbligo – tum…natorum, vv. 20/22 – è probabilmente solo raccontata dal poeta e così pure la pietà di Dedalo per la principessa Arianna e il dono del filo: anche se l’abilità dell’artefice, come avviene per lo scudo di Vulcano, potrebbe creare scene movimentate. Rientra nell’attenzione tipicamente virgiliana per la morte dei giovani il commento sul volo di Icaro che il padre non riesce a scolpire: bis patriae cecidere manus (v. 33). Nonostante il tentativo di alcuni critici di connettere gli amori di Pasifae ed Arianna con la sezione degli inferi riservata alle amanti infelici (crudelis amor … Veneris … nefandae … magnum … miseratus amorem), ci pare che il legame sia troppo esile e che il brusco richiamo della Sibilla non hoc ista sibi tempus spectacula poscit interrompa una digressione forse non essenziale. Il richiamo si completa con le indicazioni delle vittime per il sacrificio ai due dèi: sette giovenchi che non hanno provato il giogo (grege de intacto richiama Georg. IV, 540 intacta cervice iuvencus) e sette pecore bidentis, termine che secondo Servio indica la sporgenza di due incisivi tipica dell’età di due anni.
Studiata dall’archeologo Maiuri nel 1932 nella zona di Cuma, all’antro descritto da Virgilio sembra corrispondere una struttura sotterranea costituita da una galleria con corridoi laterali culminante in una stanza centrale, l’adyton del v. 98. Virgilio nuovamente ne dà una descrizione più psicologica che realistica: non dice da dove vi si arriva, se dal tempio o dall’esterno del colle, né se la soglia su cui si ferma la Sibilla è già parte dell’antro (ad limen, v. 45, ante fores, v. 47, ma in antro, v. 77-8), né se gli aditus e gli ostia (vv. 43-45) siano sinonimi oppure indichino gli ingressi per i fedeli e gli sbocchi per la voce profetica, entrambi comunque spontanei nell’aprirsi al momento della preghiera (v. 52 seg, e 81 seg.); e come mai al momento della profezia la Sibilla si trovi nella parte più interna dell’antro, l’adyton, l’inaccessibile recesso; e dove sia collocato l’altare su cui Enea poggia la mano al v. 124. Ne risulta comunque una situazione emozionante e terribile, a cui la vaghezza del luogo aggiunge fascino. L’invasamento della Sibilla ha caratteristiche tipiche, il trasfigurarsi fisico, l’apparente follia, la ribellione al possesso del dio come di un cavallo al suo cavaliere: cfr. in particolare il delirio di Cassandra nell’Agamennone di Eschilo, vv. 1072 segg., e nelle Troiane di Euripide, vv. 308 segg., in cui il Coro paragona la veggente ad una baccante come qui Virgilio (v. 78: bacchatur vates); citiamo anche la ripresa del Tasso, G.L. X, 73, dove Pietro l’Eremita profetizza il destino di Rinaldo: non un color, non serba un volto. La preghiera a cui Enea è sollecitato parte dalla memoria del bene già ricevuto, con la profondità, rara in un pagano, che contraddistingue il personaggio: anche all’approdo in Africa, infatti, le parole rivolte ai compagni si fondavano sull’aiuto divino già provato: dabit deus his quoque finem (I, 199). Di e ad Apollo viene ricordata la compassione (miserate, v. 56), l’aiuto nella guerra e nel viaggio (duce te, v. 59); implicita è la richiesta (solo fuerit, congiuntivo ottativo, senza precisare l’intervento del dio) che cambi la sorte nemica, ora che tandem (cfr. v. 2) Italiae fugientis prendimus oras (cfr. Italiam sequimur fugientem di V, 629). A tutti gli altri dèi, cui è attribuita un’ostilità verso l’eccessiva potenza troiana (l’invidia deorum), è chiesto un perdono ormai possibile per un popolo di esuli: iam fas est parcere genti. Alla Sibilla si chiede di svelare apertamente il futuro, come aveva consigliato Eleno: ipsa canas riprende ipsa canat di III, 457. Poi il voto, un tempio ad Apollo, particolari feste e un sacrario per sortes e fata della Sibilla: storicamente si tratta del tempio di Apollo Palatino, consacrato da Augusto per celebrare la vittoria di Azio, dei Ludi Apollinares istituiti nel 212 (poi diverranno i Ludi Saeculares); i libri Sibillini custoditi, all’epoca di Virgilio, nel tempio di Giove Capitolino con un loro collegio sacerdotale, solo nel 12 a.C. furono trasferiti nello stesso tempio di Apollo. Il responso della profetessa, pur ripetendo il tandem e rassicurando sulla meta raggiunta, contiene eventi terribili: bella, horrida bella (v. 86), un ripetersi degli aspetti drammatici della guerra di Troia. Non si compirà il desiderio che cessi la fortuna nemica (v. 62), e spetterà ad Enea affrontarla: audentior ito / quam tua te fortuna sinet. Da ultimo però l’evento più inatteso, più incredibile (quod minime reris, v. 87), la salvezza aperta da una città greca.
Ma, terminata la profezia, il vero motivo dell’incontro con la Sibilla viene finalmente detto. Con parole piene di nostalgia ed affetto, Enea ripercorre il suo legame col padre dalla fuga da Troia alle lunghe peregrinazioni fino al sogno del quinto libro in cui l’aveva spinto a recarsi a Cuma (V 731 segg.). Poiché la richiesta è molto alta, Enea ricorda i precedenti, Orfeo e Polluce scesi agli inferi per amore della moglie e del fratello, mentre accenna solo a Teseo ed Ercole, dai motivi meno nobili ma come lui di origine divina. La Sibilla tenta di distoglierlo da un viaggio di cui è arduo il ritorno, un progetto folle (insano…labori, v. 135). Ma ha colto due punti del discorso di Enea, la discendenza divina (sate sanguine divum) e l’affetto per il padre (Tros Anchisiade), per cui è disposta a indicare il percorso da seguire. Nelle sue parole, come in quelle di Enea, comincia a intravedersi il mondo degli inferi, e già si nota come la geografia degli inferi virgiliani sia una commistione di elementi mitici non sempre coerenti fra loro, mutuati da diverse fonti. I fiumi infernali erano citati in Omero, Od. X, 513-4, in un contesto ambiguo, perché il là della confluenza non è chiaro se sia sulla terra o nell’Ade, come sarà confusa tutta la descrizione dell’incontro di Odisseo coi morti: là confluiscono nell’Acheronte il Piriflegetonte e il Cocito, che è un ramo dell’acqua di Stige. Platone riprende con ampiezza il tema nel Fedone (vv. 112-3): l’Acheronte scorre all’inverso dell’Oceano presso le cui sorgenti nasce, fino a penetrare sotto terra e formare la palude Acherusia dove si radunano le anime; il Piriflegetonte sgorga fra Oceano e Acheronte, forma una palude infuocata, ne emerge con molti giri a spirale intorno alla Terra, s’immerge nei pressi della palude Acherusia e precipita nel Tartaro; opposto ad esso sgorga il Cocito, che forma la palude Stigia per poi precipitare sotto terra fino alla palude Acherusia in posizione opposta al Piriflegetonte, e inabissarsi infine nel Tartaro. Come si vede, le sorgenti sono in superficie e anche parte del corso, la palude Acherusia costituisce un centro di confluenza ma senza commistione, e il Tartaro accoglie due dei tre fiumi. Da notare che invece nelle Georgiche tutti i fiumi terrestri sgorgano sotto terra, per diffondersi poi nelle diverse direzioni del mondo (IV 363 segg.; per il solo Eridano in questo libro vedi al v. 659). Nei primi accenni che, come si diceva, si trovano nelle parole di Enea e della Sibilla, risulta che l’Acheronte straripando dall’abisso crea il lago Averno (così Servio interpreta tenebrosa palus Acheronte refuso del v. 107), il fiume Cocito circonda i boschi oscuri subito dopo l’ingresso degli inferi, e la palude Stigia costituisce un passaggio obbligato da attraversare.
Tre sono gli incarichi della profetessa prima d’iniziare il cammino: trovare e cogliere un ramo d’oro da donare a Proserpina, celebrare il funerale di un compagno morto di cui non si sa ancora nulla e offrire un sacrificio di vittime nere.
E’ tradizione nel mito che chiunque osi gareggiare in abilità con un dio sia sconfitto: così la tessitrice Aracne, mutata in ragno da Atena, così il musico Marsia, ucciso e scorticato da Apollo. Miseno era il più abile a suonare la tromba di bronzo (tubam, v. 233), e ha provato anche con una conchiglia mentre sostava in riva al mare: demens, et cantu vocat in certamina divos (v. 172). Mi sembra inutile pensare che suonasse in realtà la tromba e la divinità gelosa l’abbia scambiata per il suo strumento, la conchiglia con cui il seguito di Nettuno viene rappresentato: Virgilio parla esplicitamente di una conchiglia, che per incosciente curiosità o sfida Miseno sostituisce all’usuale strumento attirandosi la morte, si credere dignum est aggiunge il poeta, incerto sulla modalità della morte o sulla gelosia divina. I compagni addolorati si addentrano nel bosco, tagliando gli alberi per la pira: quanto c’è di eccessivo nell’accumulo di piante recise è probabilmente dovuto all’imitazione di Ennio, Ann. VI, 181 segg.; anche nel libro undicesimo troveremo un ampio taglio di alberi per le pire funebri, ma la quantità sarà giustificata dal cumulo di morti dei due eserciti (vv. 133 segg.). Enea si addentra anch’egli nel bosco per partecipare all’opera pietosa dei compagni, ma il ritrovamento del cadavere di Miseno ha avvalorato le parole della Sibilla, e quasi involontariamente vaga con gli occhi in cerca del ramo d’oro. Lo guidano due colombe, messaggere di Venere, fino ai bordi dell’Averno dove gli uccelli non giungono, secondo l’etimologia tradizionale (a-ornos, “privo di uccelli”: vv 239 segg.). Qui, su un albero, brilla il ramo, simile al vischio color zafferano che sorge, estraneo alla pianta, sulle querce. Notiamo come proprio questa similitudine ha dato origine alla complessa indagine antropologica di J. G. Frazer, a partire dal titolo: The Golden Bough, 1922, tr. it. Il Ramo d’oro, Boringhieri 1965 (si vedano in particolare i capitoli 65-68). La Sibilla aveva preannunciato che il ramo avrebbe rifiutato di lasciarsi strappare oppure avrebbe obbedito docilmente come segno del consenso divino: ipse volens facilisque sequetur, / si te fata vocant ( vv. 146 segg.). Risulta perciò poco spiegabile il cunctantem del v. 211: se è permesso cogliere il ramo, questo dovrebbe staccarsi senza esitazioni e non pare sufficiente giustificare il participio, oltre tutto in enjambement e quindi in forte rilievo, come una nota psicologica dell’ansia di Enea. Ci troviamo forse davanti ad una terza possibilità, l’energia piena di desiderio (corripit…extemplo avidusque refringit) che forza anche la resistenza (cunctantis in questo senso in Georg. II 235) del destino? Certo la forzatura dei fata è strana per la pietas di Enea.
Resta da compiere il rito funebre, con le modalità romane e l’affettuosa umanità del comandante. Dal defunto aeternum tenet per saecula nomen il promontorio Miseno, particolarmente famoso perché sede della flotta romana: uno dei molti motivi eziologici legati a personaggi del poema, come in seguito Palinuro e all’inizio del libro successivo Caieta.
E’ tempo per il terzo incarico della Sibilla, il sacrificio agli dèi inferi. Ci si sposta all’ingresso del cammino da percorrere, un’apertura rocciosa fra l’Averno e i boschi, neri come segno del luogo cui danno adito: l’accumulo di termini inquietanti (alta, vasto, immanis, scrupea, nigro, tenebris, atris) costituisce nuovamente una descrizione psicologica. Il sacrificio compiuto dalla Sibilla (sacerdos), i ministri ed Enea stesso è espresso con il lessico rituale, secondo i commenti di Servio e di Pascoli: constituit indica che le vittime vengono collocate, non trascinate a forza, invergit indica la libagione agli dèi inferi che si compie capovolgendo la coppa, supponunt indica che la vittima è uccisa tagliando il collo da sotto, mentre per gli dèi superi le si sollevava il capo, solida…viscera che si tratta di un olocausto, con l’intero corpo bruciato. Enea partecipa al rito colpendo le vittime dedicate alle dèe (la Notte, la Terra e Proserpina) non col coltello ma con la spada, che resterà così consacrata per il viaggio da intraprendere (cfr. v. 260: tuque invade viam vaginaque eripe ferrum).
La teofania si manifesta con il mugghiare del terreno, lo scuotersi degli alberi e l’apparizione (visae passivo) di cagne ululanti nel buio che prelude all’alba. La dea – Ecate – non è vista da Enea, ma invade la Sibilla (furens, v. 262), che grida la formula rituale per allontanare i compagni di Enea non solo dall’ingresso, ma da tutto il bosco: non devono vedere neppure l’inizio del cammino.
Con un procedimento che ritornerà in VII 641 segg., Virgilio esce dalla finzione narrativa per rilevare l’importanza del punto in cui è arrivato, l’introduzione all’al di là. Mentre però nel libro settimo chiederà la memoria delle Muse per procedere nel racconto, qui invoca il contenuto a lui già noto, gli dèi inferi, i defunti e i luoghi sotterranei identificati nel Chaos primigenio e in uno dei fiumi infernali, perché gli sia concesso parlarne. Audita è parola rituale dell’iniziazione misterica che ben completa il comando della Sibilla ai profani, indicando le storie segrete rivelate ai misti che era sacrilegio divulgare. Virgilio si pone dunque come un mista rispetto ai segreti dell’al di là: chiede il consenso (numine vestro) di violare il tabu, se la violazione è lecita (fas).
Ma se rispetto al testo è vano chiedersi da chi provengano gli audita, poiché anche rivelare chi presiedeva all’iniziazione dei neofiti era proibito, occorre invece accennare alle fonti principali a cui l’autore ha attinto per la sua descrizione dell’al di là, un’immagine composita a causa della varietà di suggestioni differenti e la vaghezza delle intuizioni pagane: la perfetta organicità dell’oltretomba dantesco esprimerà invece la certezza della fede come corrispondente alla struttura della ragione, pur attingendo in più punti a modelli pagani.
La prima presentazione della sorte dei defunti si trova in diversi passi dell’Odissea, in contraddizione fra loro e corrispondenti a tradizioni diverse. Circe nel libro decimo indica ad Odisseo il percorso per incontrare l’indovino Tiresia: dovranno attraversare l’Oceano fino al paese dei Cimmerii avvolto di caligine; alla confluenza fra i fiumi infernali (per cui v. sopra) riempiranno di sangue una fossa per evocare le anime dei morti. Nel libro undicesimo Odisseo compie le indicazioni di Circe e vede giungere un’orda di anime prive di coscienza, attratte dal sangue; dopo l’incontro con Elpenore, l’amico insepolto che non appartiene ancora ai morti, e il colloquio con Tiresia, l’unico che conserva senno e identità anche dopo la morte, Odisseo permette ad alcuni di bere il sangue e ha colloqui con loro. L’interruzione del racconto con i commenti dei Feaci porta ad una ripresa modificata: se Agamennone deve bere anch’egli il sangue, dopo il colloquio con lui Odisseo sembra essere sceso nell’Ade (chiaro il verbo katelthémen al v. 475) dove incontra defunti che non hanno bisogno di bere il sangue per essere se stessi, Achille, Patroclo, Aiace; poi vede Minosse che giudica le anime nella casa di Ade dalle ampie porte (v. 571), vede i dannati della tradizione e infine l’eidolon di Eracle, una parvenza che ha senno e voce ma a cui corrisponde il vero semidio immortale fra gli dèi. Al termine di quest’ultimo colloquio l’eidolon torna nell’Ade ed Enea alla nave, evitando un nuovo assalto di anime assetate di sangue: si rientra cioè nella situazione originaria, l’incontro fuori dagli inferi. Nel libro XXIV, vv. 1 segg., è Ermes a condurre le anime dei pretendenti uccisi da Odisseo alle correnti di Oceano e alla roccia Leucade, alle porte del Sole e al popolo dei sogni; e presto giunsero al prato di asfodeli, dove abitano le anime, parvenze dei morti (eidola: per il senso che ha qui ricordiamo che in Il. I, 4 il pronome aytoys, “essi” indica i corpi dei defunti, considerati la vera realtà della persona): a fronte della vaghezza dei luoghi citati troviamo la precisazione le case di Ade, nelle profondità della terra (v. 204), dove i nuovi venuti conversano con i morti già presenti. In ogni variante c’è comunque un’idea comune: i grandi peccatori sono puniti, tutti gli altri hanno una sopravvivenza umbratile e malinconica.
Un unico caso diverso troviamo in Od. IV, 561 segg. (accenniamo appena al fatto che la Telemachia, come peraltro il libro XXIV, presenta questioni di autenticità, e quindi di datazione): Proteo conclude la profezia a Menelao annunciandogli il destino ultimo: Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno, / chiuder gli occhi non dèi nella nutrice / di cavalli Argo; ché non vuole il fato. / Te nell’Elisio campo, ed ai confini / manderan della terra i numi eterni, / là ‘ve risiede Radamanto, e scorre / senza cura o pensiero all’uom la vita. / Neve non mai, non lungo verno o pioggia / regna colà; ma di Favonio il dolce / fiato, che sempre l’Oceàno invia, / que’ fortunati abitator rinfresca. / Perché ad Elena sposo, e a Giove stesso / genero sei, tal sortirai ventura. Dunque è già noto il mito dei campi Elisi, posti non sotto terra, ma “ai confini della terra”, con le caratteristiche climatiche del topos e la presenza di Radamanto. Ma tale sorte non sembra dipendere da motivi etici, bensì dalle nozze con una figlia di divinità.
In Esiodo le diverse età hanno dopo la morte un esito diverso: e se gli uomini della prima e della seconda sono divenuti démoni, quelli della stirpe di bronzo sono scesi nell’Ade, mentre la stirpe degli eroi vive ai confini della terra, nelle isole dei beati presso Oceano: in una parte del testo controversa si cita anche la presenza del re Crono. (Op. 167 segg.). Certo il limite di questa diversa destinazione è che riguarda in blocco intere generazioni, non la sorte dei singoli con un giudizio individuale.
Dobbiamo a Pindaro (II Olimpica, ep. III e triade IV) la rielaborazione delle diverse tradizioni, cui si aggiungono elementi orfico-pitagorici e tracce di sostrato mediterraneo. Ne deriva una visione complessa, caratterizzata da una forte eticità. Secondo l’interpretazione più diffusa di un passo controverso i colpevoli di avere animi fragili, deboli (apalamnoi) ne pagano la pena subito dopo la morte già sulla terra: come e con quale esito successivo non è spiegato. I malvagi sono giudicati (da qualcuno indeterminato, tis) e pagano il fio sotto terra dopo un pesante giudizio definitivo; i buoni hanno una vita priva di dolori e di fatiche, negli inferi ma alla perenne luce del sole o, con varia lectio, in un perenne equinozio primaverile, senza l’alternarsi delle stagioni, accanto agli dèi ctonii; chi poi ha trascorso per tre volte senza colpe la vita terrena e quella ultraterrena viene mandato all’ Isola dei Beati, in mezzo all’oceano, regno di Crono e di Radamanto: si allude quindi ad una serie di reincarnazioni delle anime prima della sede definitiva. Fra la vita dei buoni negli inferi e quella nell’Isola dei beati non sembra esserci differenza, godendo entrambi di una situazione analoga a quella terrena, ma con i topoi del bel tempo e dell’assenza di fatica e sofferenze: sembra quindi che Pindaro mescoli gli Elisi e le Isole, duplicando e distinguendo. La lezione omerica è però in parte conservata: nell’Isola dei Beati hanno posto Cadmo e Peleo, entrambi sposi di divinità, come Menelao; mentre la presenza di Achille è una forzatura dovuta alle insistenze di Teti presso Zeus. L’idea della reincarnazione discende dal pensiero orfico/pitagorico, con legami nelle filosofie orientali (cfr. anche Her. II, 123 per l’origine egiziana), senza però l’annientamento finale. Ma in Sicilia era particolarmente vivo il culto di Demetra (Persefone è citata come venerata vicino ad Agrigento), l’antica potnia mediterranea che ha fra le varie ipostasi anche Rea: per questo di Rea moglie di Crono si dice che ha il trono più alto fra gli dèi (Ol. II, vv. 85 e v. anche 13). Che in ogni caso la descrizione abbia accenti iniziatici e salvifici appare chiaro: Pindaro si comporta come un mista.
Ritroviamo l’idea della reincarnazione nel mito di Er che chiude il X libro della Repubblica platonica.
L’ampia trattazione ha la forma di un’esperienza visionaria concessa ad Er dopo la morte perché risvegliatosi la divulghi fra gli uomini: in un grande prato giungono i nuovi defunti, a cui i giudici assegnano un periodo di pene sotto terra o di beni in cielo; da qui partono anche le anime che hanno terminato il periodo di punizioni o premi e devono reincarnarsi, scegliendo presso le Moire la loro nuova vita; prima di andarsene bevono l’acqua del fiume Lete (l’oblio) perché rinati non ricordino la scelta compiuta. Solo alcuni, soprattutto colpevoli di tirannia, precipitano per sempre nel Tartaro, mentre non sembra esserci una beatitudine definitiva. Più complessa è la concezione del Fedro, 246 segg., espressa sotto forma di allegoria connessa con la visione del mondo delle idee da parte delle anime/bighe alate: quando sono incapaci di governarsi e perdono le ali, precipitano e subiscono la prima incarnazione; dopo la morte hanno una vicenda simile a quella del mito di Er: sono giudicate e per mille anni subiscono una pena negli inferi o, in cielo, una vita conforme a quella vissuta; poi avviene la scelta della nuova incarnazione. Questo per le migliori si ripete tre volte (il numero di Pindaro), per tutte le altre altri dieci volte: al termine dei tremila o diecimila anni tutte le anime riprendono le ali e tornano a vedere le idee nell’iperuranio: non si tratta propriamente di un luogo di beatitudine affine all’Elisio, ma la contemplazione delle idee è per le anime il massimo di compimento.
Una nuova visione è il sogno che Cicerone attribuisce a Scipione Emiliano nella parte finale della sua Repubblica: Scipione è trasportato sulla via Lattea dove incontra il padre Emilio Paolo e il nonno adottivo Africano: da loro ha l’incarico di impegnarsi per il bene dello stato, i cui benemeriti avranno nella via Lattea la sede di beatitudine. L’allusione alla dottrina della storia ciclica indica una derivazione del testo oltre che da Platone dai filosofi stoici, probabilmente Posidonio cui era attribuita un’opera visionaria, forse anch’essa in forma di sogno: Norden (op. cit. in bibliografia, pag. 48) ritiene anzi che il riferimento al popolo dei sogni in Omero e alle porte del sonno (v. 892) in Virgilio indichi una trasfigurazione poetica dell’esperienza onirica (e potremmo aggiungervi il tant’era pien di sonno in su quel punto di Inf. I, 11?). Ma non si spiega perché sia la porta dei sogni falsi quella da cui la visione di Enea ha termine.
Tutti i luoghi destinati ai buoni, provvisori o definitivi, non comportano la condivisione della vita degli dèi superi: nelle Isole dei Beati c’è lo spodestato Crono, nei luoghi luminosi di breve soggiorno citati da Pindaro vi sono dèi venerandi, espressione generica che sembra alludere a divinità minori, o dell’antica stirpe. I buoni, i premiati, non tornano alla condizione primigenia di vivere come gli dèi olimpici, quale ebbe la generazione aurea di Esiodo (Op., vv. 106 segg.), o di averne l’amicizia, come Tantalo prima di peccare. In molti dei luoghi immaginati dagli antichi la divinità è assente.
I primi due versi sono nuovamente una descrizione psicologica creata soprattutto dagli aggettivi (obscuri, sola, vacuas, inania) e dalla similitudine col cammino notturno nei boschi, di cui si ricorderà Dante con la sua selva oscura (Inf. I, 2). In realtà la descrizione non corrisponde a luoghi precisi, ma allude a tutto il percorso negli inferi popolati di mostri e da anime incorporee, i cui diversi passaggi vengono presentati successivamente: il vestibolo, l’Acheronte/palude Stigia, lo sbarco difeso da Cerbero, le diverse zone dell’antinferno, il bivio fra il Tartaro e la città di Dite, i campi Elisi.
Prima dell’Acheronte c’è dunque il vestibulum: il termine, che indica propriamente la zona che precede l’ingresso della casa romana, in genere porticata, qui indica un tratto di terreno dominato da un grande albero e popolato da ombre spaventose. Il lungo elenco, che comprende sentimenti personificati e mostri del mito, suscita delle perplessità. Accanto alle contraddizioni frequenti nel testo, come la compresenza delle Eumenidi e dell’Idra qui e nel Tartaro o di Scilla e delle Arpie incontrate come esseri reali nel libro terzo, è il senso ultimo di paure, dolori, false gioie, false visioni e falsi esseri mitici a porre domande. Non sembra sufficiente considerarli un espediente letterario, né rifarsi a testi omerici o esiodei o eschilei in cui si trovano sentimenti personificati (v. Deimos, Phobos, Eris in Il. IV, 440 e i figli della Notte e di Eris in Theog. 211 segg., o Kratos e Bia nel prologo del Prometeo legato), perché in quei testi hanno consistenza appunto di persone, come nell’Eneide stessa ad esempio la Fama. Viene piuttosto da pensare alla filosofia epicurea/lucreziana, cui Virgilio aveva aderito nella giovinezza, che legava il timore della morte ad ogni altra paura o falso desiderio o falsa credenza curati dal tetrafarmaco. Ma se Virgilio riconosce tutto ciò come falso (cava sub imagine formae, v. 294), perché è reale l’Acheronte, che in Lucrezio costituisce il simbolo dell’erroneo timore della morte, tanto da essere citato in tal senso da Virgilio stesso in Georg. II 492? E perché è reale l’intero aldilà e gli esseri che vi abitano (Cerbero mangerà la focaccia!), e premi e punizioni e giudizi e leggi, e insomma quel complesso di realtà dopo la morte a cui soprattutto si oppone Lucrezio? Forse c’è in Virgilio fiducia nel giudizio divino e nelle regole degli inferi, pur dure e dolorose, tanto da scartare tutto ciò che prima di morire (nel vestibolo dell’agonia) l’uomo teme, non perché dopo vi sia il nulla, ma perché dopo c’è un’oggettiva e quindi positiva corrispondenza con la vita vissuta: una risposta al pensiero lucreziano, che si pone contro falsi obiettivi e non accetta la verità e la consistenza della tradizione religiosa.
Ritroviamo i fiumi infernali e le loro confluenze: qui l’Acheronte risulta immissario del Cocito (omnem Cocyto eructat harenam) e formare con questo la palude Stigia (v. 323). L’importanza dell’Acheronte (e della palude che ne deriva) è il suo essere un confine fra la provvisorietà e la definitività, come già per Platone nel passo del Fedone citato. Il portitor è un dio: anziano come gli dèi ctonii ma, essendo dio, di una vecchiaia che ha le caratteristiche della giovinezza, fresca (cruda) e vegeta (viridis). A fronte della folla che prega di passare, pur ignorando ancora quale giudizio attende ciascuno, la scelta è di Caronte (nunc hos nunc accipit illos), salvo l’esclusione per cento anni degli insepolti, come spiega la Sibilla. Il patetico elenco di morti si trova già in Georg. IV, 475-7, dove si affollano ad ascoltare il canto di Orfeo, mentre la similitudine con gli uccelli radunati fra le fronde alla sera o in tempo di pioggia qui si allarga e si raddoppia: i morti sulla riva sono molti come le foglie che cadono d’autunno o gli uccelli che migrano d’inverno. La similitudine delle foglie in particolare ha una lunga storia letteraria, per cui rinviamo alla rubrica Il rinnovarsi di un topos sul sito stesso.
Enea è ancora al di qua dell’Acheronte: la legge divina sugli insepolti non solo lo addolora, ma gli sembra ingiusta (iniquam, v. 332). Netto è invece il giudizio della Sibilla rivolto ad uno degli insepolti, il timoniere Palinuro che vorrebbe aggirare il divieto: unde haec…tibi tam dira cupido?…desine fata deum flecti sperare precando (vv. 373-6). Tutto l’episodio, brevemente preceduto dalla comparsa di due compagni periti in mare, riprende la fine del libro quinto con alcune varianti, in parte dovute a contraddizioni d’autore, in parte ad ignoranza dei personaggi: Enea ricorda con amarezza un responso di Apollo altrimenti sconosciuto, che garantiva l’approdo del timoniere in Italia: come si accennava all’inizio, oltre al dolore per la perdita dell’amico l’apparente slealtà del dio lo ha angosciato;
Palinuro pensa di essere caduto in mare per caso, ma rassicura Enea sulla sincerità del dio, poiché è giunto vivo in Italia nuotando per tre giorni, mentre in realtà nel tempo interno del poema non dovrebbero essere ancora trascorsi; sulla riva è stato ucciso da dei predoni e lasciato insepolto: nunc me fluctus habet versantque in litore venti (cfr. Purg. III, 130 a proposito di Manfredi); entrambi ignorano il ruolo di Nettuno, che ha chiesto a Venere una vittima: V, 817: unum pro multis dabitur caput. Palinuro otterrà comunque sepoltura dagli abitanti del luogo, e il suo nome resterà come quello di Miseno: un nuovo aition.
Nella richiesta alla Sibilla di condurlo agli inferi Enea aveva accennato a Ercole e Teseo, entrambi di stirpe divina, senza precisare i motivi della loro discesa (vv. 122-3). In effetti i loro motivi erano oltraggiosi per i custodi dell’oltretomba: avevano preteso con le armi di essere trasportati sulla barca per poi rapire Cerbero e tentare di rapire addirittura Proserpina: Teseo sarà per questo nel Tartaro. Caronte teme che un nuovo vivente, anch’egli armato, voglia penetrare a forza nel regno dei morti, ma la Sibilla lo rassicura, prima indicando come motivo la pietas verso il padre (vv. 403-5), poi mostrandogli il ramo d’oro. Caronte interrompe il tragitto, torna alla riva di partenza dove fa scendere le anime e imbarca i due passeggeri, il cui peso di vivi fa quasi affondare la barca formata di giunchi intrecciati come le antiche imbarcazioni (tutto è antico nel mondo ctonio), fra cui l’acqua penetra. Sbarcare al di là è difficile: l’intero spazio della riva è occupato da Cerbero, il mostruoso cane a tre teste. La Sibilla lo fa addormentare dandogli da mangiare un’offa intrisa di miele e erbe soporifere (come si diceva, è segno anche della realtà fisica di questo essere). Enea può avanzare oltre la riva: occupat…aditum…evaditque celer ripam (vv. 524-5): non sembra esserci un particolare tipo d’ingresso o di porta, ma solo l’uscita dal fiume, confine fra due mondi. Il tragitto compiuto non avrà ritorno: inremeabilis è la palude, come il labirinto di Creta (cfr. V, 591), “non ripercorribile”. Il ritorno ai vivi avverrà altrove.
Una soglia, in limine primo: inizia la parte forse più discussa dell’oltretomba virgiliano, abitualmente definita come antinferno, una sorta di limbo che comprende categorie di anime diverse, di solito (ma non unanimemente) raggruppate sotto la generica definizione di aoroi, “morti prematuri” (cfr. il funere acerbo del v. 429), benché le circostanze e le responsabilità di tali morti siano molto differenti. I primi (continuo) sono i bambini morti appena nati, i cui pianti sono vagiti di infantes,“ancora incapaci di parlare”: Virgilio li circonda di pietà per non aver avuto parte della dolce vita: il loro pianto infantile non serve solo a presentarli senza descrizione fisica, ma indica anche una condizione dolorosa che si perpetua, un continuo rimpianto. Un solo verso (430) introduce il secondo gruppo, i condannati a morte ingiustamente: seguono tre versi in cui è presentato Minosse, che sembra avere la funzione di giudicare solo qui, individuando i condannati innocenti. La brusca allusione, quasi un inserto, ha probabilmente come fonte l’Apologia platonica, 40e-41b, in cui Socrate trae spunto dalla sua esperienza di condannato ingiustamente: Se uno, giunto nell’Ade, liberato da questi qui che si dicono giudici, troverà i veri giudici che si dice giudichino là, Minosse, Radamante, Eaco, Trittolemo e quanti altri semidei furono giusti nella loro vita, sarebbe forse di poco valore la migrazione?…Per me sarebbe meraviglioso il soggiorno là, quando incontrassi Palamede e Aiace Telamonio e quanti altri degli antichi sono morti per un giudizio ingiusto.
Il terzo gruppo, nei proxima loca, è quello dei suicidi: insontes, “innocenti”, indica che il suicidio non è in sé una colpa (come sarà nell’Inferno dantesco), ma una scelta sbagliata, di cui si pentono rimpiangendo una vita anche povera e faticosa: reminiscenza delle parole di Achille in Od. XI, 489-91: Preferirei essere un contadino al servizio di altro, presso un uomo di bassa condizione che non avesse molti mezzi per vivere, piuttosto che regnare su tutti i morti. . I versi che descrivono la separazione irrevocabile fra i due mondi si trovano in parte anche in Georg. IV, 479-80: la palude Stigia formata dall’Acheronte costituisce il confine (interfusa) vincolante (alligat … coercet). Noviens, presente sia qui sia nel passo delle Georgiche, sembra più che altro un’indicazione numerica mistica, senza che si debba pensare, come Servio, ad una divisione in nove cerchi del mondo sotterraneo: ma forse ha ispirato Dante.
Il quarto settore è quello dei consunti d’ amore, che si aggirano isolati gli uni dagli altri in luoghi ampi (fusi), separati da viuzze nascoste e boschetti del mirto sacro a Venere. Anche la loro condizione è dolorosa, perché il durus amor che li ha logorati non li abbandona (curae non…relinquont): per questo i luoghi si chiamano campi lugentes, “pianure piangenti”, e fra le anime sofferenti non c’è condivisione, ma solitudine. Enea vede alcune donne del mito: Fedra morta suicida per amore del figliastro Ippolito, Procri uccisa per errore dal marito Cefalo che aveva seguito a caccia dubitando della sua fedeltà, Erifile uccisa dal figlio per aver denunciato il marito Anfiarao, Evadne suicida sul rogo dello sposo Capaneo, Pasifae dagli amori bestiali, Laodamia che morì alla notizia dell’uccisione a Troia di Protesilao, Ceneo tornata donna dopo aver trascorso in forma maschile la fine della vita. Si tratta di miti diversi e di situazioni diverse: ad esempio Evadne e Laodamia hanno desiderato il ricongiungimento con l’amato più che soffrire d’amore, mentre Erifile non ha sofferto per amore, ma si è lasciata corrompere costringendo il marito ad andare in guerra. L’impressione è che Virgilio intenda fare una sorta di catalogo delle donne come Omero nell’XI, 225 segg. dell’ Odissea per preparare l’incontro con Didone.
Didone è diversa dalle altre donne perché è giunta da poco (recens a volnere) e non appartiene ad antichi miti, e perché, benché la s’incontri mentre va errando nel bosco, non è isolata: nel bosco il coniunx…pristinus illi… aequat…amorem. Se possiamo chiederci perché Sicheo si trovi fra i sofferenti d’amore (unico uomo citato, oltre tutto), è chiaro che Didone non è nella stessa desolata condizione delle altre anime, poiché lo sposo respondet curis e le corrisponde affettivamente: perciò, pur col rancore per l’abbandono di Enea, non è una personalità spezzata. Dunque una situazione anomala, che coinvolge direttamente il protagonista, non più solo spettatore ma parte in causa. Enea la riconosce anche nella penombra del boschetto, accetta definitivamente il fatto che si è uccisa a causa sua e che non ha voluto capire la sua obbedienza al destino e agli dèi. Pure glielo ribadisce, aggiungendo lo stupore di aver provocato un dolore così grande: una forma di modestia? l’incomprensione reciproca della storia grande di lui e della povera storia affettiva di lei? Virgilio sembra sottolineare questa reciprocità: il quem fugis? del v. 466 richiama il mene fugis? di IV 314 e il paragone di Didone con la dura silex e la marpesia cautes ricorda il duris genuit te cautibus horrens / Caucasus (IV, 365-6) rinfacciato ad Enea. Il poeta vuole cioè fare della donna, all’ultimo, un grande personaggio, adeguato al suo antagonista e dignitoso nel suo silenzio pur ingiusto: come già Omero aveva fatto di Aiace in Od. XI, 543 segg., non a caso citato dall’Anonimo come esempio di sublime.
Arva … ultima, l’ultima parte dell’antinferno, è riservata ai bello clari. Propriamente la definizione non comprende l’essere morti in guerra, e questo spiegherebbe la presenza di Adrasto, l’unico superstite della spedizione contro Tebe secondo le fonti note (generici e non definitivi riguardo alla morte dei sette Il. I, 409 e Hes. op. 162). Ma se si esclude la morte in guerra come tratto comune, questi non sarebbero degli aoroi, “morti prematuramente”, e tutto l’insieme dell’antinferno risulterebbe poco coeso.
Virgilio sceglie come bello clari i partecipanti ai due grandi assedi del mito, quello di Tebe e quello di Troia: del primo, terminato con la sconfitta degli assedianti, ricorda solo alcuni di questi, oltre al re d’Argo Adrasto Tideo suo genero e padre di Diomede e Partenopeo: non sono citati invece i difensori della città, che Eschilo nei Sette a Tebe contrappone uno per uno ai sette capi nemici; del secondo i morti fra gli assediati, i troiani compagni di Enea, che egli gemendo vede longo ordine (v. 482): i primi tre accomunati nella morte già in Omero Il. XVII, 216, i tre figli di Antenore anch’essi accomunati in Il. XI, 59, Ideo ricordato da Omero come auriga di Priamo nel viaggio desolato alla tenda di Achille, da cui conserva ancora carro ed armi. Polibete è invece assente in Omero: il nome e il legame con la dea Cerere derivano a Virgilio da fonte sconosciuta. Ma anche gli assedianti sono presenti fra i bello clari: se il citarli in questo ambito serve a ricordarne il valore, non hanno però l’onore di un nome e fuggono con grida fioche alla vista delle armi di Enea splendenti per umbras: l’hanno riconosciuto? o vedono e temono armi troiane come nell’episodio omerico (Il. XII 470 seg.: i Danai fuggirono / verso le navi ricurve, e sorse un incessante strepito)? o temono soltanto il fulgore delle armi di un vivo fra i morti oscuri?
Come nel caso di Didone, anche qui l’incontro con gli altri serve soprattutto a introdurre la comparsa di Deifobo. Il figlio di Priamo conserva fra i morti la parvenza dell’orribile corpo mutilato dai Greci per il tradimento di Elena: un’apparizione spaventosa che richiama l’apparizione in sogno di Ettore nel secondo libro: squalentem barbam et concretos sanguine crinis / volneraque illa gerens, quae circum plurima muros / accepit patrios (vv. 277-9: anche Ettore nell’al di là è rimasto così?). Il lungo colloquio inizia col ricordo di un cenotafio innalzato all’amico in assenza del cadavere: è per questo che Deifobo, pur insepolto, si trova qui. Poi è Deifobo a raccontare la delazione di Elena e lo scempio subìto: la sua storia contrasta con l’episodio del secondo libro in cui Enea scorge Elena atterrita e progetta di ucciderla (vv. 567-588): episodio che secondo Servio Vario e Tucca soppressero e che nelle edizioni moderne compare fra parentesi quadre, nonostante i tentativi di accordare le due varianti d’autore. Il brusco intervento della Sibilla interrompe il colloquio, lasciando senza risposta le domande di Deifobo su Enea stesso (ed evitando così racconti già noti al lettore).
A conclusione dell’antinferno restano domande aperte e variamente discusse, una in particolare: la situazione degli aoroi è provvisoria o definitiva? Il Norden, basandosi anche su Tertulliano, de anima 56, pensa che gli aoroi restino nella sede attuale finché non si è compiuto il tempo previsto dal fato per la loro vita terrena (op. cit. pag. 41). Verrebbe allora da pensare che la frase con cui Deifobo si accomiata dalla Sibilla accettandone a malincuore il rimprovero, discedam, explebo numerum reddarque tenebris (v. 545), possa alludere alla durata del tempo ancora da trascorrere: “…compirò il numero (di anni)…”. Va però detto che l’interpretazione consueta, sostenuta ampiamente dallo stesso Norden nel commento al verso, intende “completerò il numero di anime (da cui mi sono allontanato)”. Servio, considerando un diverso valore del preverbo, intende invece “diminuirò il numero (lasciando soli voi due)”: poco plausibile, nonostante l’esempio dantesco di Inf. IV, 148: la sesta compagnia in due si scema.
Finora non si era posta all’autore e al lettore una questione. L’accompagnatrice di Enea è anch’essa viva, non appartiene ai morti come l’Africano ed Emilio Paolo nel Somnium di Cicerone o Virgilio in Dante: come conosce l’oltretomba? e come, benché viva, è accettata da Caronte? Nell’antinferno non ha dovuto spiegare le diverse situazioni, che sono solo contemplate e interagite da Enea; il rimprovero che tronca la conversazione con Deifobo è il primo intervento della Sibilla dopo l’offa a Cerbero. Ma ora vi è la necessità di presentare il Tartaro senza una visione diretta, esclusa ad Enea in quanto puro (nulli fas casto, v. 563), ma in realtà quasi impossibile da realizzare poeticamente, sia per la varietà di colpe e pene sia soprattutto per la struttura dell’abisso, che Dante risolverà di volta in volta con diverse modalità di discesa ma che richiederebbe qui troppe spiegazioni. Dunque viene introdotta una visita dei luoghi infernali compiuta dalla Sibilla con la guida e le indicazioni della stessa dea Ecate, un privilegio ottenuto benché casta in quanto custode dell’Averno. Qualcosa comunque del luogo di dannazione colpisce sensi e animo di Enea, alla sinistra del bivio che stanno per lasciare: è anche qui una descrizione più psicologica che realistica, che lascia aperte domande. Vede una fortezza cinta dal fiume Flegetonte (il Piriflegetonte di Platone) torrentibus flammis: il verbo conserva il doppio significato di “vorticose” e “brucianti”; il fiume di fuoco trasporta saxa sonantia, aggiungendo un effetto sonoro all’impressione di colore e calore, senza nessuno motivo apparente e senza che risulti la possibilità di un valico; così pure la torre di ferro che s’innalza ad auras, quasi la cima si perdesse alla vista, non sembra avere una particolare funzione, se non di confermare la somiglianza con una prigione fornita di posto di vedetta. La porta, che neppure gli dèi del cielo potrebbero spezzare, si apre da sola quando è avvenuto il giudizio. Come e dove questo avvenga non è però chiaro: Enea ode, apparentemente al di là della porta, gemiti, frustate, catene: ma il giudizio di Radamanto, che avviene sotto costrizione e tortura con l’intervento delle Furie, dovrebbe precedere l’apertura della porta, di cui una delle Furie, Tisifone, è guardiana, sostituita all’interno, secondo quanto dice la Sibilla, dall’Idra (Furie/Eumenidi e Idra erano già fra le vuote parvenze, vv. 280 e 287).
L’elenco dei dannati inizia fundo…in imo (v. 581), dal profondo dell’abisso. Qui sono puniti gli oppositori di Giove, i Titani dell’antica stirpe divina e i due figli adottivi di Aleo, Oto ed Efialte; poi un uomo folle nel suo ardire, Salmoneo che voleva imitare Giove, e ancora un mostro, Tizio figlio della Terra, che aveva assalito Latona: la sua punizione s’ispira a quella più famosa di Prometeo. Anche la punizione dei due successivi, i Làpiti Issìone e suo figlio Pirìtoo, che entrambi tentarono di assalire delle dèe, si ispira al più noto mito di Tantalo, la fame sofferta dinnanzi a cibi sontuosi e sotto la minaccia di un macigno (Pascoli rileva l’ipermetro del v. 602 “a esprimere il traboccare”). L’elenco di dannati del mito è interrotto dall’indicazione di colpe senza i nomi dei colpevoli, anche se gli esegeti hanno cercato di individuare nel mito o nella storia romana dei possibili riferimenti: ma forse è necessario affermare che fra quelli che hic … inclusi poenam expectant (vv. 608 e 614) vi siano anche uomini comuni, non solo famosi o famigerati; e naturalmente gli uomini della storia futura di Roma non potrebbero esserci, come invece sarà nel Tartaro Catilina sullo scudo di Enea, per la preveggenza dell’artefice. Le colpe previste, alcune delle quali tratte dalle XII tavole, sono l’odio verso i fratelli, l’aggressione al padre, la frode al cliens, l’avarizia, la morte in flagrante adulterio, la partecipazione alle guerre civili e il tradimento dei padroni da parte degli schiavi. Per le pene si torna alla tradizione mitica, il sasso rotolato in eterno (attribuita generalmente a Sisifo) e la ruota attribuita ad Issione; più innovativa la pena di Teseo, complice di Piritoo, che sedet aeternumque sedebit dopo una vita di continue imprese; e quella del làpita Flegias, distruttore del tempio di Apollo a Delfi, che in eterno grida il monito di giustizia e pietas, come faranno le anime nel Purgatorio dantesco: questi due dannati, benché siano connessi per amicizia o parentela coi Làpiti citati prima, hanno evidentemente per Virgilio un ruolo a parte, singolare per la particolarità delle pene inverse rispetto alle colpe, secondo un principio foriero di grandi sviluppi. Infine ancora colpe senza nomi, il tradimento della patria per denaro, l’imposizione di un tiranno, la corruzione dei legislatori, l’incesto: con quanti osarono immane nefas e riuscirono a compierlo si conclude il racconto della Sibilla, per evitare l’eccessivo dilungarsi.
L’ultimo tratto dopo il bivio avviene ancora allo scuro: per opaca viarum (v. 633). Al termine un nuovo edificio, la reggia di Dite e Proserpina, costruita dai Ciclopi con una porta ad arco (adverso fornice, v. 631) che per essere varcata richiede la purificazione rituale e il dono del ramo d’oro. Al di là si apre l’Elysium (così definito ai vv. 542 e 744), il luogo dei beati, pensato come un fulgido paesaggio terrestre, così come lietamente terrestri sono i passatempi di chi vi risiede: amene verzure, boschi prosperi, l’alloro profumato di Apollo, ampio cielo, sole e stelle propri, un fiume (nel topos del locus amoenus non può mancare l’acqua corrente: qui si tratta dell’Eridano, il cui corso prosegue sulla terra: cfr. Georg. IV, 371 segg.) descrivono i locos laetos, mentre gli abitanti esercitano le membra (inutile chiedersi se hanno un corpo), gareggiano, danzano, suonano, banchettano cantando, conservano la passione per cavalli e carri: tale immaginario pagano della beatitudine si ritrova ad esempio nelle tombe etrusche, mentre manca qui la caratteristica di assenza di fatica presente in altre descrizioni coeve, ad esempio quella delle Isole dei Beati in Hor.epod. XVI, 41 segg., mutuata da Esiodo e Pindaro. Alcuni fra i beati sono riconosciuti: poeti come Orfeo (descritto ma non nominato) e Museo, antenati dei Troiani come Ilo, Assaraco e Dardano; di altri si parla per categorie: i morti combattendo per la patria (quindi più meritevoli dei bello clari, anche se i Troiani erano morti per la propria città), i sacerdoti casti, i poeti degni di Apollo, gli inventori di arti civilizzatrici, e quanti altri ebbero meriti degni di ricordo.
La Sibilla ha qui bisogno di una guida per orientarsi nell’Elisio, non è più autosufficiente. Chiede dove si trova Anchise al mitico cantore Museo, che spiega la totale libertà di movimento delle anime, non divise per categorie e costrette in singoli luoghi come nell’antinferno, poi li accompagna su una vetta da cui si scende nel fondo di una valle appartata.
Anchise è differente dagli altri beati, la cui generica felicità implica assenza di preoccupazioni e desideri. E’ rimasto in attesa dell’arrivo di Enea, sperando, contando i giorni, pensando ai pericoli, temendo per la sosta a Cartagine: cura (v. 691) metui (693) contrastano con l’Elisio; così pure l’appartarsi nella valle con le anime che stanno per reincarnarsi, passando in rassegna la storia futura invece di ripetere giocondamente il passato. Enea ne condivide affetto e nostalgia, ricordando le apparizioni in sogno: quella in particolare di V, 721 segg. ma anche quelle citate a Didone in IV, 351 segg. Non sa – né il poeta ce lo dice – se Anchise conosce il presente: comunque lo rassicura, stant sale Tyrrheno classes, sono giunte alla meta. Il triplice tentativo di abbracciare il padre ripete con gli stessi versi l’inutile abbraccio a Creusa del primo libro ( vv. 792-4), là più drammatico per la sparizione della donna (deseruit tenuisque recessit in auras, peraltro riferito ad Anchise alla fine del sogno del V libro), qui solo patetico e interrotto dalla novità del luogo e delle innumerae gentes. La vanità delle anime divenute intoccabili – eidola, imagines – è comunque un topos che ha la sua origine in Od. XI, 206-7 e tornerà in Purg. II, 80-81.
Nella valle isolata – ma non avvolta nel silenzio (virgulta sonantia) e serena (domos placidas) – scorre l’ultimo dei fiumi infernali, il Lete dell’oblio, sulle cui rive si trova una folla di anime: il verbo volabant e la similitudine con le api che in estate circondano ronzando fiori bianchi e variopinti alleggeriscono la scena, togliendole la somiglianza con l’accalcarsi delle anime sull’Acheronte. Non più la Sibilla, ormai solo accompagnatrice, ma Anchise risponde alle domande di Enea (il ruolo che era dell’Africano e di Emilio Paolo nel Somnium): anzitutto spiega che quelle anime bevono l’oblio del fiume perché stanno per reincarnarsi, e vorrebbe già presentare i Romani futuri; poi, di fronte allo stupore del figlio che vi sia nelle anime lucis tam dira cupido (v. 721), enuncia la particolare concezione del mondo.
Il contesto è d’origine stoica, da cui trae l’idea immanente di un spirito divino diffuso nell’universo, che tutto partecipa della mens e dell’igneus vigor. Ma soprattutto platonica è l’idea che i corpi siano una prigione per le anime (clausae tenebris et carcere caeco, v. 734), costringendole a timore e desiderio (in particolare rilevati dall’epicureismo in opposizione all’atarassia) e poi anche a dolore e gioia. La morte lascia le anime contaminate dalla convivenza coi corpi: è necessaria quindi una purificazione, che avviene attraverso tre elementi empedoclei, acqua, aria, fuoco: una sorta di purgatorio da cui sono esclusi i dannati (resta naturalmente la questione degli aoroi) e che avviene in luoghi sconosciuti alla visione di Enea. Anchise stesso vi è passato: la frase quisque suos patimur manis (v. 743) qualunque sia il senso di manis (morte, destino, demoni…), porta improvvisamente in primo piano lo stesso narratore, uscendo dalla trattazione generica. La narrazione procede poi autobiografica: i purificati giungono nell’Elisio e qui restano in pochi, fa cui Anchise stesso, mentre gli altri dopo mille anni si reincarnano: è un dio a chiamarli perché bevano le acque del Lete, senza che vi sia scelta del nuovo destino. Ma la sorte ultima di tutti coloro che hanno soggiornato nell’Elisio è il ritorno all’anima universale: per i pauci dopo che il tempo trascorso nell’Elisio ha completamente liberato l’anima dalle ultime tracce del corpo, per gli altri dopo la serie di reincarnazioni. Virgilio non parla di un tempo preciso né per gli uni né per gli altri, e non è neppure chiaro se longa dies, perfecto temporis orbe (v. 745) alluda ad un termine definito dal dio per i pauci o alla concezione stoica dei cicli; elementi esterni, quali il Fedro platonico, portano a indicare diecimila anni come tempo canonico per l’ultima tappa di ognuno: verrebbe da dire con Dante puro e disposto a salire alle stelle.
Notiamo infine come una più breve trattazione si trova in Georg. IV, 219 segg., riferita in particolare al legame delle api con l’intero cosmo abitato dal dio: in quel contesto non vi è traccia di distinzioni morali, ma l’annuncio entusiasta della vittoria sulla morte: nec morti esse locum, sed viva volare (scil. omnia) / sideris in numerum atque alto succedere caelo.
In realtà è evidente che, al di là di tradizioni mistiche e letterarie, la teoria della metempsicosi è introdotta qui dal poeta perché Enea possa avere una prefigurazione della futura stirpe come conferma della sua chiamata: del resto, se lo scopo di Enea per la discesa agli inferi era quello di ritrovare il padre, lo scopo di Anchise, come era chiaro già nel sogno del libro quinto, era appunto quello di mostrargli l’esito di una storia che eccedeva la vita obbediente del figlio: tum genus omne tuum et, quae dentur moenia, disces (V, 737). Inutile quindi chiedersi perché le anime sulla riva del Lete non abbiano l’aspetto della vita passata ma già quello delle vita futura e, in fondo, accentuare l’aspetto encomiastico di questa parte del libro. Il poema virgiliano, all’interno dell’epica antica, è qualcosa di nuovo, non classificabile né come mitologico né come storico: attraverso differenti modelli e con diverse modalità viene raccontata un’antica vicenda che fa trasparire, come in filigrana, tutta una storia futura, ancora non terminata, perché la promessa delle profezie indica una continuità che va oltre il presente stesso del poeta. In alcuni momenti fondamentali la storia futura diviene esplicita: uno è appunto (l’altro sarà nell’ottavo libro la descrizione dello scudo) la presentazione delle anime che si incarneranno nei personaggi della storia:
Nunc age, Dardanum prolem quae deinde sequatur
gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,
inlustris animas nostrumque in nomen ituras,
expediam dictis et te tua fata docebo
sono le parole con cui Anchise inizia a mostrarli ad Enea, fondendo l’origine troiana con la nuova stirpe italica. I primi nominati sono i futuri re albani, in ordine sparso, come vaghe e contradittorie erano le leggende relative, nate per riempire i secoli fra la guerra di Troia e la fondazione di Roma. Anzitutto Silvio, figlio tardivo di Enea nato da Lavinia e il cui nome è etimologizzato dai boschi (silvis) in cui è cresciuto; poi Proca, Capi, Numitore e un Silvio Enea che avrà la pietas e il valore dell’avo. A tutti questi è attribuita la fondazione di città (otto delle trenta profetizzate dai piccoli della scrofa bianca in VII, 44) in terre per ora anonime. Poi, alleato del nonno Numitore Romolo, figlio di Marte e di Ilia di origine troiana, come indica la scelta del nome; variando il mito Virgilio attribuisce alla madre l’averlo allevato, come Lavinia aveva allevato Silvio (educet, vv. 765 e 779): forse, è stato detto, in ricordo del ruolo avuto dalla madre Azia nell’educazione di Ottaviano. Subito dopo il fondatore di Roma vi è la stirpe dell’altro figlio di Enea, la gens Iulia; fra questi Augusto, Giulio per l’adozione di Cesare, celebrato per le sue conquiste (con una certa libertà storica) estese nello spazio più delle imprese di Ercole o della terra percorsa da Dioniso e per il ritorno nel Lazio dell’epoca aurea di Saturno. Così i due figli di Enea hanno ciascuno la propria storia futura, culminante in Romolo e in Augusto. Quindi riprende la serie storica, dai re agli uomini di età repubblicana, finché presso il trionfatore di Siracusa compare il giovane discendente, lo sventurato Marcello. La storia per il poeta già avvenuta è presentata per Enea come futura, ma non come immodificabile. Anchise esorta le ombre che saranno Pompeo e Cesare (soprattutto quest’ultimo, sanguis meus) a non entrare in guerra fra loro, con un’accorata richiesta che l’allitterazione rende solenne: ne, pueri, ne tanta animis adsuescite bella / neu patriae validas in viscera vertite vires (vv. 832 segg.). E c’è un’ultima speranza che il destino di Marcello possa cambiare: si qua fata aspera rumpas, v. 882.
La sintesi della lunga carrellata di genti è nei vv. 847-853, detti da Anchise haec mirantibus, nello stupore ammirato di Enea e della Sibilla. Ogni popolo ha la sua vocazione: ci sono popoli di artisti, popoli di scienziati, ma la vocazione di Roma, espressa con l’imperativo futuro memento, è quella di governare:
Tu regere imperio populos, Romane, memento.
Hae tibi erunt artes, pacisque inponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos.
Altro futuro, più vicino nel tempo, conosce Anchise: la guerra nel Lazio. Ma non è una rivelazione disperante: come già la Sibilla aveva assicurato l’esito positivo e l’aiuto della città greca, così Anchise spiega quo quemque modo fugiatque feratque laborem (v. 892). E’ stata però soprattutto la presentazione dei discendenti e del loro compito a far accettare ad Enea le nuove fatiche, secondo l’affettuosa pedagogia paterna: quae postquam Anchises natum per singula duxit / incenditque animum famae venientis amore…(vv. 888-9). Sempre Anchise guida Enea e la Sibilla fuori dal mondo degli inferi, attraverso la porta del Sonno da cui escono sogni non veri (si veda più sopra la tesi del Norden). Rapidamente, senza parlare del congedo dal padre e dalla stessa Sibilla, Virgilio riporta Enea dai suoi e poi, per nave, a Gaeta.
Tu quoque litoribus nostris…”. I lidi nostri sono quelli dell’autore, i lidi del Lazio: finalmente toccati dai suoi personaggi, ma solo per una cerimonia funebre, perché non è quel primissimo luogo la meta da raggiungere: neppure è un luogo previsto dalla profezia di Eleno. Un evento inatteso ferma il viaggio, muore la nutrice di Enea, una delle poche donne ad aver lasciato la Sicilia; nella morte l’anziana donna fedele diviene protagonista: è lei a dare fama eterna ai lidi, è il suo onore a stabilirvisi, sono le sue ossa a indicare il nome nuovo (Caieta, “Gaeta”). Dante se ne ricorderà con un voluto anacronismo, facendo ripartire per il viaggio senza ritorno il suo Ulisse da quel luogo là presso a Gaeta / prima che sì Enea la nomasse. (Inf. XXVI, vv. 92-3). Presso Gaeta Dante colloca la sede di Circe, dove Ulisse è rimasto un anno: e questa è anche la topografia virgiliana. Ma il poeta latino mescola la toponomastica del suo tempo, che conosceva il monte, o promontorio, Circeo, corrispondente a Gaeta all’altro estremo del golfo (citato anche al v. 799), e la storica città di Circei, forse l’attuale Terracina, con l’indicazione omerica che pone Circe in un’isola, Eea, dalla collocazione ignota. Così nei versi 10 segg. si ha l’impressione che Circe e il suo misterioso palazzo risonante di canti e urla bestiali abitino la terraferma a ridosso del mare, da cui Nettuno, fedele alla promessa fatta a Venere (V vv.796 segg.), tiene lontani i Troiani; ma la profezia di Eleno parlava di un’isola di Circe Eea che bisognava affrontare: et salis Ausonii lustrandum navibus aequor / infernique lacus Aeaeaeque insula Circae (III 385-6). Non solo il luogo, ma l’esito della profezia mutano, un’incongruenza difficile da sanare.
L’arrivo alla foce del Tevere è preparato da un paesaggio incantato: l’Aurora color zafferano (lutea) sul carro roseo (i due tradizionali colori dell’aurora già omerica, κροκόπεπλος e ῥοδοδάκτυλος), il mare improvvisamente fermo per il placarsi dei venti mandati da Nettuno. La prima immagine della terra promessa è un bosco (lucum), poi il prorompere in mare del Tevere. Singolarmente per ben due versi e mezzo ci si sofferma sugli uccelli gioiosi, forse in contrasto col cupo paesaggio dell’Averno, quam super haut ullae poterant inpune volantes / tendere iter pinnis (VI, 239-40). Il comando di Enea ai compagni perché entrino a ritroso nel fiume è segnato in cesura dall’aggettivo laetus, sempre indicatore in Virgilio di decisione feconda (cfr. ad es. IV, 295).
Una seconda protasi sottolinea l’inoltrarsi nella seconda metà del poema, con l’invocazione ad Erato. La scelta di questa Musa è mutuata dall’inizio del III libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio: ma in quel caso il poeta greco intendeva rilevare il passaggio al tema amoroso, di cui Erato era per lo più considerata protettrice (cfr. Plat. Phaedr. 259c), mentre qui il riferimento alla Musa è generico, un ossequio al modello. Virgilio sente che la sua materia si allarga, coinvolge non il piccolo gruppo di esuli ma molti popoli dalla lunga storia travolti in una guerra terribile: Maior rerum mihi nascitur ordo / maius opus moveo (vv.44-5). Il tono solenne è rilevato da effetti quali l’anafora di dicam, la paronomasia acies actosque, l’enjambement di Hesperiam in cesura semiternaria.
Il nuovo inizio parte dalla storia del Lazio, a cominciare dalla situazione presente, una situazione stabile di pace. Il v.46, dal ritmo lento, ha placidas in rilievo fra due cesure (semiquinaria e semisettenaria, o semiternaria e semisettenaria unitamente a longa): il lungo regno tranquillo del vecchio Latino trascorre così. Poi rapida la genealogia, che risale a Saturno, tradizionalmente re del Lazio al tempo dell’età dell’oro (cfr. Georg. II, v.538). La stirpe di origine divina è però a rischio di finire: fato divum (v.50) non sopravvivono i figli maschi, portenta deum (v.58) impediscono le nozze della figlia. Fra l’uno e l’altro verso citato si inseriscono i due futuri antagonisti di Enea, uniti nello stesso verso 56: Turnus, avis atavisque potens, quem regia coniunx.
Descrizione dei portenta deum: l’uno riguardante l’antico alloro che dà nome alla città di Laurento, l’altro la figlia del re, Lavinia. Il prodigio delle api è interpretato come l’annuncio dell’arrivo di un eroe straniero e di una schiera che torna al luogo d’origine (partis petere agmen easdem / partibus ex eisdem, con allitterazione e poliptoto); il fuoco intorno al capo di Lavinia richiama l’analogo prodigio intorno al capo di Iulo (II, vv.680 segg.) ma è descritto in modo più cupo (nefas – horrendum) e coinvolge tutta la casa: segno che il miracolo, interpretato da Anchise per il piccolo nipote in senso solo positivo, seppure bisognoso di conferma, ha qui, oltre al corrispondente significato di gloria futura, anche un risvolto negativo: fore inlustrem fama fatisque riguarda, con triplice allitterazione, la sposa destinata al padre di Iulo, ma per tutti gli altri è magnum… bellum il significato sotteso.
Il rito a cui ricorre Latino è quello antico dell’incubatio, il sonno profetico all’ombra di un nume, il suo stesso padre Fauno consultato da tutta l’Italia. La voce misteriosa dell’oracolo non contiene solo il monito di affidare la figlia ad uno sposo straniero, ma è anche una profezia del destino futuro della nuova stirpe: quorumque ab stirpe nepotes / omnia sub pedibus, qua Sol utrumque recurrens / aspicit Oceanum, vertique regique videbunt (vv. 99-101). La gloria dei posteri fa dimenticare la guerra adombrata nel prodigio. Latino rivela a tutti il responso e la Fama lo diffonde: dunque all’approdo di Enea sulle rive del Tevere esiste già un’attesa positiva.
Sic Iuppiter ipse monebat: l’emistichio del v.110 trasforma una casualità in un progetto ed un monito: che i pochi cibi disponibili siano posti su adorea liba in modo che si realizzi la minacciosa profezia dell’Arpia Celeno (II, vv. 250-57) è volontà di Giove perché sia riconosciuta la terra raggiunta. Enea attribuisce ad Anchise la profezia delle mensae, in aggiunta o in sostituzione a quella di Celeno: si tratta comunque dell’annuncio della debita tellus, la terra promessa: Salve fatis mihi debita tellus, / vosque – ait – o fidi Troiae salvete Penates: / hic domus, haec patria est.
Hic amor, haec patria est aveva detto a Didone (IV, v. 347): e se l’Italia era una meta da raggiungere per obbedienza, rinunciando all’antica patria e al nuovo amore (Italiam non sponte sequor, IV, v. 361, l’emistichio interrotto che chiudeva il discorso), il saluto qui diviene gioioso per la fine della fatica e la possibilità di riavere una casa: tum sperare domos defessus… (v. 126) sono le parole con cui Anchise accosta in allitterazione case e stanchezza.
La preghiera di Enea accomuna gli dèi ancora ignoti del luogo senza nome, le divinità della patria (Idaeumque Iovem Phrygiamque… matrem, come prima i Penati), la Notte con i suoi astri, i genitori Venere e Anchise. Giove l’accompagna con un tuono e una nube splendente e i compagni comprendono: è il tempo delle debita moenia, le mura promesse, le mura finalmente giuste. Ritorna l’aggettivo laeti (vv. 130 e 147).
I luoghi hanno finalmente un nome: hinc Thybrum fluvium, hic fortis habitare Latinos; e il Numico, fiumicello che si allarga in uno specchio d’acqua prima della foce. Sulla riva la prima sede è pensata castrorum in morem : è la prudenza del capo che chiede pace ma non vuole rischiare. Secondo il procedimento ellenistico dell’ἔκφρασις l’arrivo dei cento messaggeri mandati da Enea è occasione per descrivere il palazzo di Latino: alto sull’acropoli in un luogo misterioso per la natura e sacro per il culto degli avi, sede politica e religiosa insieme: curia, templum… sacris sedes epulis, come poi lo dirà templo divum (v.192). I classici ritratti degli antenati, tipici del vestibolo delle case romane, sono qui in legno, ad indicarne l’antichità (cedro è in iato, quindi fortemente rilevato), e mescolano dèi e progenitori di stirpi, agricoltori e soldati. Ma i trofei appesi sono militari e descritti con insistenza per quattro versi, quasi a presagire un futuro pericoloso per gli stranieri. Per contro l’effigie di Pico, il nonno di Latino, ha elementi decisamente già romani: Quirinali lituo (il bastone ricurvo attributo di Romolo-Quirino)… trabea (la veste di re e sacerdoti)… ancile (lo scudo dei Salii), in contrasto col bizzarro aition che coinvolge Circe.
Le due ῥήσεις di Latino e Ilioneo, nuovamente portavoce dei Troiani come con Didone nel primo libro, sono caratterizzate da cortese ma ferma dignità. Latino invita gli ospiti con un solenne verso ampiamente allitterante (… sede sedens Teucros ad ses’in tecta vocavit: 193); mostra di conoscere la loro storia antica, li chiama Dardanidi, sa la vicenda di Dardano partito dalla città etrusca di Corito; solo confonde le mete di Dardano (la Troade) e del fratello Iasio (Samotracia), com’è normale per una leggenda soltanto confusamente nota (fama est obscurior annis, v.205). Presenta il suo popolo, discendente da Saturno e, come tutti i popoli arcaici, ancora privo di leggi positive – il futuro diritto romano – ma giusto sponte sua e per antica tradizione. Con cautela l’offerta di ospitalità è limitata a stranieri ritenuti solo di passaggio, sive errore viae seu tempestatibus acti (v.199).
Ilioneo risponde eliminando subito l’equivoco: se sono giunti lì è stato per decisione unanime: consilio… animisque volentibus (v.216). Poi contrappone alla stirpe regale di Fauno (evitando di nominare Saturno, che verrebbe opposto a Giove) l’origine da Giove stesso, padre di Dardano, della stirpe troiana e la volontà di Giove che Enea e i suoi siano qui: ab Iove… Iove… Iovis ricorre tre volte nei due versi 219-20. Ricorda la grandezza dell’impero troiano perduto e l’enormità di una guerra che ha contrapposto Asia ed Europa, conosciuta da ogni parte del mondo. Da notare la geografia mitico – scientifica: le estremità della terra sono secondo la tradizione lambite dall’Oceano che la circonda, ma nel mezzo vi sono correttamente le due zone temperate e le due zone torride: una precisazione poco coerente con l’urgenza del discorso, ma tipica dell’erudizione ellenistica. Chiede dis sedem exiguam patriis: il chiasmo rileva che la richiesta è anzitutto per dare un luogo ai Penati e, in subordine, la modestia della richiesta stessa. L’autorevolezza sta nella volontà del fato, sed nos fata deum vestras exquirere terras / imperiis egere suis (vv. 239.40), chiarita dalla profezia di Apollo puntuale nei nomi dei luoghi. Ma, pur supplici, gli stranieri hanno grande dignità, non solo nelle origini divine: Ilioneo insiste su altre offerte di stanziamento, non precisamente note (un’incongruenza virgiliana, o un’astuzia del diplomatico?), e offre doni che ricordano la sacralità di Anchise e la regalità di Priamo.
Il vecchio re medita a lungo prima di rispondere. Capisce che l’oracolo di Fauno si realizza: hinc illum fatis externa ab sede profectum / portendi generum paribusque in regna vocari / auspiciis (vv.255-7). Paribus… auspiciis, “con profezie che si corrispondono”: due attese, due promesse, per un futuro comune. Latino congeda con ricchi doni i messaggeri invitando Enea alla reggia e promettendogli la figlia in sposa.
Giunone era ad Argo, la sua sede prediletta. Tornando a volo vede laetum Aenean classemque : stanno già organizzando la città. Si blocca nell’aria, riandando a tutte le occasioni in cui i Troiani sarebbero dovuti perire, nella rovina di Troia o perseguitati da lei per tutto il viaggio. Ma non è accaduto: invenere viam (v.295). Inconsapevolmente riprende le parole della profezia di Eleno: fata viam invenient (III, v.395).
Adirata di essere da meno di altri dèi che hanno avuto le loro vendette, certa ormai di non poter fermare il destino, decide di trahere atque moras… addere (v.315), prolungare l’attesa facendo perire le genti di entrambi i re, l’odiato troiano e Latino, solo colpevole di accoglienza. Dagli inferi è evocata la Furia Alletto, vergine come sono sterili tutti gli essere ctonii: a lei il compito di suscitare la guerra: disice compositam pacem, sere crimina belli (v.339).
Amata è già predisposta all’ira adventu Teucrum Turnique hymenaeis: chiasmo in allitterazione che indica come un fatto abbia travolto altri progetti. Una lunga orrida descrizione per dieci versi fa seguire al lettore il percorso che il serpente di Alletto compie nel e sul corpo della regina: ma non raggiunge ancora il cuore. La donna conserva equilibrio, argomentazioni ragionevoli, un tono affettuoso rilevato dall’allitterazione della m (mollius… matrum… more e multa in enjambement), un pianto materno. Exulibus è la prima parola, che definisce gli stranieri nel modo più basso; perfidus sarà lo sposo che a tradimento porterà lontana la ragazza: perfidus alta petens abducta virgine praedo (v. 362) con triplice allitterazione anticipa il riferimento a Paride, accortamente legando due situazioni ben differenti ma unite dalla comune stirpe troiana. C’è un’argomentazione più importante: Latino non è il re di tutta l’Italia, gli altri popoli sono liberi e quindi stranieri; i Rutuli in particolare discendono da Danae, figlia di Acrisio le cui origini risalgono all’antico Inaco, re / dio del fiume argivo: dunque Turno è uno straniero, e può corrispondere alla profezia di Fauno.
Ma Latino non cede e il serpente raggiunge il cuore di Amata. L’ira diviene furor e delirio bacchico: come per Didone (IV, vv. 300 segg.), anche per Amata Virgilio identifica nel menadismo la passionalità sfrenata, estranea all’equilibrio romano. Ai vv. 378-386 troviamo la prima similitudine del libro: la regina nella sua rapida corsa è paragonata ad una trottola; ma nel tertium comparationis è compreso anche l’intervento estraneo che muove trottola e donna furente. Con l’aiuto della Fama altre donne sono coinvolte in un moto che ha accenti femministi: iuris materni cura remordet (v.403).
La seconda meta di Alletto è Ardea, la capitale dei Rutuli. Virgilio accenna nuovamente alla variante romana del mito di Danae, il cui nome è stato connesso con Dauno, padre di Turno ed eponimo della Daunia: gettata in mare in una cassa dal padre Acrisio perché divenuta madre ad opera di Giove, la donna è spinta dal vento (praecipiti Noto, v.409) ad occidente, non ad oriente come nel mito greco (cfr. in particolare i riferimenti al mito nei Persiani di Eschilo). In Italia fonda Ardea Acrisioneis… colonis (v.410): sembra quindi che anch’ella, come Didone, abbia accolto altri della terra d’origine nella nuova città, probabile variante virgiliana che accomuna le due donne fondatrici.
Alletto prende le sembianze di un’anziana sacerdotessa di Giunone ed esorta Turno: come quello di Amata a Latino, il primo approccio è un discorso ragionevole. Ma Turno ha l’irruenza presuntuosa e scortese del giovane capo: offende la vecchiaia (sed te victa situ verique effeta senectus con la doppia allitterazione di v/u e s, entrambi suoni sgradevoli) e il compito sacro (cura tibi divom effigies et templa tueri): il modello sembra essere Eteocle dei Sette a Tebe eschilei, in quel caso offensivo verso le ragazze del coro. Alletto riprende il suo aspetto terribile e rinfaccia a Turno le parole avventate, gettandogli una fiaccola sub pectore: in parallelismo con Amata, anche Turno è preso da follia quando la Furia raggiunge il suo cuore: arma amens fremit… scelerata insania belli (vv. 460-61). E anche per lui vi è una similitudine che comprende nel tertium comparationis una causa esterna, l’acqua in bollore a causa del fuoco (vv. 462-466).
La terza meta sono i Troiani stessi, fra cui bisogna serere un crimen belli secondo la richiesta di Giunone (v. 339). Alletto induce subitam rabiem nelle cagne con cui Iulo sta cacciando, anch’esse quindi preda alla follia; le bestie rabbiose stanano un cervo addomesticato dalla famiglia di Tirro, il pastore-capo del re, e Iulo gli lancia una freccia, nec dextrae erranti deus afuit: ogni momento dell’evento è gestito dalla divinità ostile. Ecco l’occasione ricercata: quae prima laborum / causa fuit belloque animos accendit agrestis (vv. 481-2). La prima battaglia inizia dai familiari, chiamati dalla sorellina che si lamenta sul cervo ferito; ma Alletto, che spiava fra i cespugli, balza su un tetto e lancia il segnale noto ai pastori unendo al tipico corno ricurvo la sua voce infernale. Allora il fronte si amplia, comprende contadini di ogni dove di terra latina e sabina: dal lago di Nemi (Triviae lacus) a sud fino al fiume Nera e al fiume e lago Velino nel nord. I Troiani accorrono per salvare Iulo dal linciaggio: sono soldati, combattono con le armi della guerra, combattono per difendere ma anche per uccidere, in un crescendo rilevato dalla similitudine dei vv. 528-30. Il primo morto è il figlio maggiore di Tirro, poi fra gli altri uno sventurato paciere; ma è una battaglia alla pari (ferro ancipiti… aequo… Marte) senza una fine se non nella conta delle vittime. Alletto ha gustato il sangue, vorrebbe proseguire nel suo compito, ma Giunone teme l’intervento di Giove e la congeda. La Furia torna agli inferi attraverso uno dei passaggi fra i due mondi, ancora una zona vulcanica, sui colli irpini.
Virgilio anticipa che il gesto definitivo, la responsabilità ultima della guerra è di Giunone: extremam Saturnia bello / imponit regina manum (vv.572-3: un ampio chiasmo che ha all’interno le due parole fondamentali). I tre bersagli di Alletto confluiscono a Laurento in ordine inverso: prima i contadini coi loro morti, poi Turno, infine i mariti delle baccanti di Amata. Unanime è la richiesta di guerra, commentata gravemente dal poeta: infandum … bellum, contra omina… contra fata deum. Latino respinge le richieste, paragonato ad uno scoglio assalito dalle onde; ma è vecchio, e saevae nutu Iunonis eunt res. Con una malinconica profezia di sventura per i suoi e per Turno si ritira in attesa della morte liberatrice (funere felici spolior, v. 599). Tuttavia il trono vacante crea un problema. Virgilio rinvia al passato l’usanza romana di aprire il tempio di Giano per iniziare una guerra: adesso è compito del console, allora del re; ma Latino rifiuta: abstinuit tactu pater aversusque refugit / foeda ministeria (vv.618-9). Nessun altro uomo può assumersi il compito: interviene dunque direttamente Giunone.
Le officine abbandonano gli attrezzi agricoli e foggiano armi in cinque città: Ardea, Tivoli sull’Aniene, non lontano da questa Antemna e Crustumeri, e Atina nella parte orientale del Lazio.
Il catalogo degli eserciti che faranno guerra ai Troiani è introdotto da un’invocazione alle Muse derivata dall’analoga invocazione di Il. II, 484 segg.: Narratemi ora, Muse che abitate le case dell’Olimpo – voi infatti siete dee, e siete presenti, e sapete tutto, noi invece udiamo solo la fama e non sappiamo. ῎Ιδμεν, come il precedente ἴστε riferito alle dee, indica la conoscenza diretta, per aver visto in presenza; Virgilio vi sostituisce l’idea di memoria, meministi… et memorare potestis, legando le Muse al tema della memoria già greco (cfr. Solone, Elegia alle Muse, v. 1).
Come osservava Pascoli, primus contro il pius Enea Virgilio pone un contemptor divom, a rilevare ulteriormente l’empietà dell’infandum bellum. Ma degli otto versi dedicati al primo contingente, gli Etruschi di Agilla (Cere-Cerveteri), il poeta ne riserba sei al figlio di Mezenzio, bello, coraggioso, degno di un padre migliore. E’ in effetti Lauso che i soldati hanno seguito (ducit … secutos, in apertura e chiusura del v. 652).
Viene citata nuovamente la figura di Ercole, la cui presenza in Italia ricorre più volte dal libro quinto all’ottavo, con un accumulo di leggende introdotte dai coloni greci e spesso alternative fra loro. Qui l’eroe di origine argolica (Tirinto era la patria dei suoi) si dice sia passato per il Lazio tornando dalla Spagna, dove aveva ucciso Gerione e ne aveva rubato l’armento. Sul colle Aventino (ma nel libro ottavo sarà privilegiato il Palatino) si era unito di nascosto alla sacerdotessa Rea: evidente analogia con la futura vicenda di Romolo e Remo, che inoltre proprio sull’Aventino gareggeranno per il regno. Ora il figlio, che ha il nome del colle, ostenta emblemi paterni: sullo scudo l’immagine dell’Idra e sul corpo e sul capo un’ispida pelle di leone.
Da Tivoli due giovani di origine argolica, fratelli dell’eponimo della città. Poi un’ampia schiera di gente rustica da Preneste, dai campi su cui sorgerà Gabii, da Anagni capitale degli Ernici, luoghi bagnati dai fiumi Aniene e Amiseno. Li guida il fondatore di Preneste, Ceculo, misteriosamente trovato su un focolare e perciò creduto figlio di Vulcano: omnis… credidit aetas. Un altro figlio di un dio, Messapo di Nettuno, guida etruschi di Fescennio, di Falerio d’antica origine equa, di Flavinia, di Capena, della zona del monte Soratte e del lago e monte Cimino. Sono popoli pacifici, desueta… bello / agmina (vv. 693-4), ma in grado di marciare ordinati cantando. I Sabini sono condotti dal forte Clauso, capostipite dei Claudii imparentati con Augusto: un lungo elenco di luoghi per otto versi, culminanti il primo negli abitanti di Curi, da cui i Romani si chiameranno Quiriti, e l’ultimo nell’infausto nome del fiume Allia, dove nel 390 i Romani saranno sconfitti dai Galli. Aleso, parente o compagno di Agamennone, porta a Turno gente del Massico, Aurunci, Campani e Osci; poi ancora un greco, Ebalo, figlio di Telon emigrato dall’Acarnania a Capri, ma che ha accresciuto l’eredità paterna conquistando altre zone della Campania: i suoi hanno elmi di sughero, armi di bronzo e giavellotti simili a quelli germanici. Ufente, che ha nome da un fiume, conduce un popolo avvezzo alla fatica, alle armi e alla caccia: prototipo degli Italici, che nel IX libro saranno presentati in modo simile (vv. 603 – 613). Con l’esercito dei Marsi viene il sacerdote Umbrone (anche questo un nome di fiume), mandato dal re: Virgilio gli attribuisce la tradizionale abilità dei Marsi nel maneggiare le serpi, ma ne preannuncia anche la morte in guerra, lutto per la sua dea Angizia e per tutta la zona sacra del lago Fucino.
Un’ampia digressione a proposito del successivo comandante introduce la variante italica del mito di Ippolito e Fedra: morto tragicamente per la falsa accusa della matrigna, Ippolito è fatto risorgere dall’amore di Diana e dalle arti mediche di Esculapio; nascosto dalla dea nel bosco della ninfa Egeria perché Giove, che ha punito il medico per la resurrezione di un mortale, non possa trovarlo, Ippolito cambia nome in Virbio, si unisce ad Aricia, eponima della città, e genera l’omonimo figlio, che ora interviene nella guerra.
Ipse introduce il protagonista, Turno, che pure quasi modestamente giunge solo inter primos (v. 782). Un’altra variante mitica, già più volte accennata, accompagna la sua descrizione: sullo scudo è raffigurata in oro la capostipite della stirpe da cui discendono Danae e Turno stesso, Iò, trasformata in giovenca e custodita dal mostro Argo per la gelosia di Giunone, con a fianco il padre Inaco che versa acqua ad indicare che è re /dio di un fiume. La schiera di Turno comprende i Rutuli e gli originari Argivi, e molti popoli del Lazio. Infine una vergine guerriera, Camilla, conduce i Volsci: come non è iniziato con Turno, così il catalogo non finisce con lui, ma con una donna dalla stupefacente grazia: iuventus / turbaque miratur matrum (vv. 812-13).
Dopo il ritiro di Latino Turno si comporta da re e capo dell’esercito: la collocazione delle parole nel primo verso, accostando dopo la cesura il genitivo Laurenti dipendente da arce a Turno (che già era stato definito Laurentis in VII, 650) rileva fortemente il cambio di potere. Oltre a Turno si distinguono per attività tre dei capi presentati nel catalogo, Messapo, Ufente e Mezenzio, che girano per le campagne del Lazio trasformando i contadini in soldati: il verbo vastant mostra il punto di vista del poeta, negativo per la sostituzione della guerra alle opere di pace. Un altro tentativo viene compiuto, l’ambasceria a Diomede, stabilitosi nel paese degli Iapigi, in Puglia, perché esule volontario da Argo dopo il tradimento della moglie. Eleno aveva avvertito Enea che nel sud dell’Italia cuncta malis habitantur moenia Grais (III, v. 398; cfr. vv. segg.): ma aveva citato i Locresi, Idomeneo esule da Creta e Filottete, non Diomede. Tuttavia è evidente che per il nuovo esercito, raccogliticcio e in fondo inesperto, c’è bisogno di uno dei più famosi guerrieri greci, anche se la scelta risulterà ultimamente improvvida. Il messaggio è scorretto: si cerca di attirare Diomede presentando Enea come protetto da molti alleati, intenzionato a impadronirsi dell’Italia; si cerca inoltre di adularlo definendolo più esperto e più capace di previsioni. In Turno regi aut regi … Latino il chiasmo inserisce anche Latino, nome autorevole da citare a chi è probabilmente all’oscuro degli ultimi fatti.
Enea è travolto da eventi inattesi prima ancora di poter incontrare di persona il re e la figlia. L’ansia con cui il suo pensiero è agitato in diverse direzioni viene espressa con metafore ed immagini che avranno una lunga storia di imitazioni. Magno curarum fluctuat aestu (v. 19) verrà ripreso dal Tasso: “in gran tempesta di pensieri ondeggia” (Ger. lib. X, 24 a proposito di Solimano); la similitudine della luce riflessa dall’Ariosto: “qual d’acqua chiara tremolante lume / dal sol percossa o da notturni rai / per gli ampli tetti va con lungo salto” (Or. fur. VIII, st. 71). Nell’imitazione ariostesca Orlando, col ricordo angosciato di Angelica, per le successive cinque ottave si arrovella tra sé e sé prima di cedere al sonno e al sogno. Virgilio invece abbrevia la veglia di Enea, introducendo un singolare notturno: il tradizionale attacco nox erat seguito dal riposo di tutta la realtà (vv. 26-7) qui non si contrappone alla veglia del protagonista (come ad es. in IV, vv. 522 segg.; cfr. su questo sito la pagina La quiete della notte), ma l’induce ad un riposo tardivo.
vv. 31-101
Il dio del Tevere compare in sogno con un aspetto antropomorfo che richiama il suo legame col fiume: è vecchio come in genere le divinità fluviali, sorge inter…frondes, ha sul capo una ghirlanda palustre, la veste glauca è di lino, pianta che, ut ait Plinius, melius irrigatione fluminum quam pluvia nascitur (così Servio). I tre primi versi del suo discorso (36-38) si rivolgono ad Enea unendo Troiani e Latini, Pergamo e Laurento; parola fondamentale è il vocativo expectate, più ancora dell’origine divina (sate gente deum) e della storia pregressa: Enea non è solo destinato e voluto, ma atteso; qui c’è la casa: hic tibi certa domus, certi…Penates (v.39) conferma hic domus, haec patria est di VII, 122. Ancora due conferme: il segno della scrofa bianca, già predetto da Eleno (III, vv. 390 segg.) con le stesse parole, e l’annuncio della Sibilla che una città greca li avrebbe aiutati (VI, vv., 96-7: Via prima salutis, / quod minime reris, Graia pandetur urbe). Quest’ultimo stupefacente annuncio qui trova una precisazione e un’indicazione: c’è sul colle che ne trarrà il nome Palatino una città, Pallanteo, fondata da un colono arcade, Evandro discendente da Pallante, sempre in guerra coi Latini e quindi possibile alleato. Virgilio non specifica null’altro (paucis, del resto, aveva detto il dio: v. 50), né perché Evandro abbia lasciato la Grecia (un cenno ai successivi vv. 333 segg.), né come si sia stabilito nel Lazio, né perché ci sia tale ostilità coi vicini che comunque non sono riusciti a sopraffare il piccolo popolo di immigrati, né che utilità possa avere come alleato un popolo appunto piccolissimo. Per recarvisi Enea dovrà risalire il fiume: il dio gli promette di facilitargli il percorso controcorrente prima ancora di rivelargli il suo nome, la sua identità di dio/fiume: ego sum…caeruleus Thybris (vv. 62 / 64). L’ordine di partire è dato con parole che richiamano quelle di Ettore: cfr. surg’age, nate dea (v.59) con ehu fuge, nate dea (II, v. 289), con assonanza e uguale posizione metrica: c’è un’urgenza simile nei due ordini dati in sogno, oltre al riconoscimento della maternità divina. A Giunone, l’unica dea rimasta ostile (Tumor omnis et irae / concessere deum, vv. 40-41) si dovrà nuovamente sacrificare, come già, inutilmente, all’arrivo in Italia (III, vv.546-7).
Tutto si realizza come detto: la scrofa bianca coi suoi trenta piccoli viene avvistata e sacrificata a Giunone; il Tevere calma la corrente permettendo alle navi di risalirlo: leniit (in enjambement dopo tumentem del v. 86), tacita refluens, mitis, placidae ribadiscono il dono del dio, mentre tutta la natura intorno si stupisce dello spettacolo (mirantur…miratur). L’arrivo a Pallanteo anticipa il tema fondamentale del libro ottavo, il passato e il futuro di Roma.
vv. 102-183
Forte: la prima parola che apre all’incontro con gli Arcadi introduce l’occasione che occuperà di sé molta parte del libro: una festa in onore di Ercole, secondo le modalità e i motivi che verranno esposti in seguito. L’importanza del personaggio risalta già dal patronimico che occupa il primo emistichio del v. 103, fino alla cesura semiquinaria (o con magno semisettenaria); la circostanza del rito permette ai giovani Arcadi, e in particolare al principe Pallante, di veder arrivare le navi sul fiume; permette inoltre al poeta di porre subito in rilievo Pallante, la sua pietas (quos rumpere / sacra vetat, vv. 110-11), il suo coraggio (audax … volat … obvius, v. 111), la prudenza con cui interroga gli stranieri, l’ospitalità con cui li accoglie.
Per la prima volta vediamo Enea trattare direttamente come supplice, senza delegare a Ilioneo e agli altri ambasciatori. E’ lui stesso a rilevare la novità, basata su una fiducia particolare: non legatos…me, me ipse meumque / obieci caput (vv. 143-5). A Pallante presenta sé e i suoi come popolo dalla storia ben nota e come nemici/vittime dei Latini (v.117); a Evandro ricorda, oltre alla fama e ai fati, l’origine comune: Elettra, madre di Dardano, e Maia, madre di Mercurio progenitore degli Arcadi, erano entrambe Pleiadi figlie di Atlante. Meno chiaro il riferimento alla parentela di Evandro con Agamennone e Menelao (v. 130). Gli antichi hanno tentato varie spiegazioni, per lo più raccolte da Servio nel commento al verso: la madre di Evandro sarebbe una Timandra sorella di Clitennestra ed Elena, quindi cognata degli Atridi; figlia di Atlante (ma non una delle Pleiadi) sarebbe anche Dione, moglie di Tantalo progenitore degli Atridi; un altro figlio di Atlante sarebbe Enomao, suocero di Pelope e nonno di Atreo: quest’ultima variante deriverebbe dalla tragedia perduta Atreus di Accio. Al di fuori delle varianti serviane si parla di una figlia di Atlante (anch’ella non fra le Pleiadi), Plutò, madre di Tantalo avuto da Giove. Ma tranne la prima ipotesi (peraltro negata dai vv. 335-6), le altre legherebbero agli Atridi anche Enea, cosa né detta né plausibile, per cui la questione resta aperta.
L’ultima parte della rhesis (vv. 146 segg.) contiene una finzione non diversa, anzi speculare, rispetto all’ambasceria a Diomede: i Dauni/Rutuli intendono impadronirsi di tutta l’Italia e aspettano soltanto di sconfiggere Enea per prendere l’intero potere. Scorrettezza per scorrettezza, o astuzia diplomatica per astuzia.
Ma Evandro quasi non ascolta: il tempo delle strategie verrà dopo. Ora lo colpiscono l’aspetto e la voce di Enea, che gli ricordano Anchise e ne determineranno affetto e accoglienza. C’è probabilmente l’eco dell’incipit del Somnium Scipionis ciceroniano, in cui l’anziano Massinissa rievoca commosso il suo giovanile affetto per Scipione Africano che l’ospite Emiliano gli fa tornare in mente. La ripresa virgiliana è più puntuale, perché fra i due Scipioni non c’è parentela di sangue né ovviamente somiglianza; ma è più forzata la circostanza dell’antica amicizia. Esione, sorella di Priamo, era divenuta compagna del greco Telamone, re di Salamina, e il fratello si era recato a trovarla accompagnato da un seguito di cui faceva parte il cugino Anchise; mentre passavano per l’Arcadia, il giovane Evandro aveva notato fra tutti Anchise, ne era restato affascinato, lo aveva ospitato e ne aveva ricevuto ricchi doni. Strana circostanza, si diceva: Esione è preda di Eracle/Ercole, che la libera da un mostro e poi la cede all’amico Telamone; tutta la tradizione la considera schiava o concubina, e illegittimo il figlio Teucro (così già in Omero, ma cfr. anche l’Aiace di Sofocle e I, 619), per cui la visita in gran pompa del re suo fratello sembra fuori posto, come la parola regna del v.157. Tuttavia il passo è importante: introduce in subordine il ricordo di Ercole, pur non nominato; e soprattutto mostra nuovamente l’importanza di Anchise per la storia del figlio, anche dopo la sua morte. Ottenuta così l’amicizia del re, Enea e i suoi sono invitati a partecipare alla festa interrotta.
vv. 184-306
Tutta la parte centrale del libro è dedicata al mito di Ercole, già più volte ricordato in questo libro e nel precedente come padre di Aventino, uno dei capi italici. Le sue caratteristiche di eroe senza patria, costretto a compiere imprese in oriente e in occidente ma anche impegnato in imprese di sua scelta, grande amatore e padre di figli di diverse origini e stirpi, ne fanno un personaggio anomalo, che nessun popolo può vantare come proprio (basti il confronto con l’ateniese Teseo) ma che con molti può essere collegato. La tragedia greca ne ha visto soprattutto l’aspetto di uomo dei dolori (Le Trachinie di Sofocle, l’Eracle di Euripide), mentre l’apoteosi dopo la morte non è sempre accettata (si vedano negli Eraclidi di Euripide gli amari dubbi di Alcmena, sciolti solo dal miracolo). L’Italia è luogo di passaggio per diverse sue imprese ad ovest (Gerione, le Esperidi) e questo ha permesso al mito romano, di per sé povero di elementi, di inserirvi una figura così rilevante, nel suo aspetto di vincitore di mostri e benefattore ma anche di atleta dall’enorme forza: nel quinto libro si è già detto come abbia ucciso in una gara di pugilato Erice, fratellastro di Enea (vv. 392 segg.): un ricordo che evidentemente non pesa nella memoria del protagonista, né sembra importare all’autore. La stessa storia di Caco suscita delle perplessità. E’ un mostro semiumano, spirante fuoco (atros / ore vomens ignis, vv. 198-9): tale elemento ne fa un figlio di Vulcano, come nel libro settimo Ceculo era ritenuto figlio di Vulcano perché trovato su un focolare (cfr. vv 678 segg.). Si comprende come il fuoco sia elemento non solo benefico ma anche distruttore, e il suo dio abbia legami anche negativi: ma appare un po’ strano il collegamento col mostro in un libro che nella seconda parte vede il dio operare creativamente in favore di Enea. In secondo luogo l’orrida descrizione della cupa spelonca di Caco, inzuppata di sangue umano e ornata di teste putrefatte, stona con l’ultima impresa compiuta a danno di Ercole. Il poeta insiste sulla colpa: furis Caci mens effera, ne quid inausum / aut intractatum scelerisve dolive fuisset (vv. 205-6: si noti il rarissimo piuccheperfetto in una finale, forse a indicare una situazione compiuta che non deve restare tale); ma si tratta del furto di una piccola parte del bestiame, di cui Ercole neppure si accorgerebbe se non vi fossero i muggiti a fermarne la partenza (abitumque pararet, v. 214): un furto inutile e sciocco, quasi una beffa, a cui il trucco delle bestie trascinate a ritroso conferisce un piccolo tratto d’astuzia. E’ singolare che tale astuzia abbia il suo modello nell’Inno omerico ad Ermes, dove il piccolo dio ruba l’armento di Apollo facendolo andare a ritroso per confondere le tracce: l’inno narra la prodezza del monello con spirito e simpatia; e si tratta del dio figlio di Maia, Ermes/Mercurio progenitore di Evandro, difficilmente considerabile come ispiratore di un’orribile colpa.
Evidentemente Virgilio costruisce un aition senza tener conto di possibili incongruenze. Lo scopo è
celebrare l’origine del culto di Ercole e dell’Ara Maxima a Roma, un culto importato. Fin dai versi 185 segg. attraverso le parole di Evandro Virgilio elimina la possibile accusa di aver sostituito divinità straniere alle nazionali: non haec sollemnia nobis / has ex more dapes, hanc tanti numinis aram, / vana superstitio veterumque ignara deorum / imposuit. Il culto di Ercole, unico straniero, è fatto risalire alle origini anche da Livio (I, 7, 15: haec tum sacra Romulus una ex omnibus peregrina suscepit): lo storico racconta la vicenda di Caco, l’amicizia di Ercole con Evandro e la scelta da parte dello stesso Ercole delle due famiglie, i Potitii e i Pinarii (cfr. i vv. 269-70) per sovrintendere ai riti in suo onore. In Virgilio vi sono anche i Luperci, i sacerdoti di Fauno vestiti di pelli, e i Salii, tradizionalmente sacerdoti di Marte ma qui introdotti a cantare in due cori le imprese di Ercole: strozza i serpenti mandati da Giunone al neonato, conquista Troia (la prima caduta della città) ed Ecalia (la funesta patria di Iole), sconfigge mostri come i Centauri, Tifeo e lo stesso Caco o quelli imposti da Euristeo, il toro di Creta, il leone nemeo, Cerbero, l’idra di Lerna: quest’ultima, considerata la più tremenda da vincere, era raffigurata anche sullo scudo del figlio Aventino (VII, vv.657-8). L’eroe, l’antico benefattore e amico, è ora un dio: decus addite divis (v. 301) indica, con allitterazione e assonanza, la recente certa apoteosi.
vv. 307-368
In una passeggiata a tre, Evandro, Enea e Pallante, si dipana la storia del passato, del presente e del futuro. Evandro racconta, Enea guarda affascinato, chiede e ascolta virum monimenta priorum (v.302): il sostantivo connesso con moneo indica tutto ciò che conserva la memoria, luoghi, oggetti, fama, storie. Con arditezza prima di introdurre le leggende del Lazio primigenio il poeta definisce Evandro Romanae conditor arcis (v. 303), spostandosi sul futuro. La prima età del Lazio corrisponde alla prima età dell’umanità lucreziana (Rer. Nat. V, 925 segg.): gente dura, senza mos neque cultus (v. 316: cfr. Lucr. Nec commune bonum poterant spectare neque ullis / moribus inter se scibant nec legibus uti, vv. 958-9), incapace di coltivare e conservare il raccolto, nutrita di frutti selvatici e caccia. Ma questi primitivi abitatori conoscono indigenae fauni nymphaeque (v. 314), vivono già con gli dèi, mentre difficilmente nel testo lucreziano l’accenno ai templa…nympharum si può considerare altro che indicazione convenzionale delle sorgenti. L’arrivo di Saturno in esilio introduce nel Lazio il nome (quoniam latuisset, v. 323) e l’età dell’oro, la creazione di un popolo, le leggi e la pace. Poi l’età peggiore, rilevata dall’allitterazione deterior donec…ac decolor (v.326) e caratterizzata da belli rabies et amor …habendi. Progresso dalla situazione primitiva e regresso per avidità e guerra contaminano le due visioni metastoriche del mondo pagano, il crescente miglioramento umano e il ciclo decrescente delle età già esiodeo. Nell’età degradata si inseriscono le popolazioni storiche e i nuovi nomi di terre e fiumi; s’inserisce anche la storia di Evandro, qui raccontata con qualche notizia in più, l’esilio, rilevato dall’allitterazione pulsum patria pelagique, e l’accumulo di cause che l’hanno stanziato in questi luoghi, la Fortuna, il Fato (legati dal chiasmo del v. 334), gli ordini della ninfa Carmenta sua madre, l’ispirazione di Apollo: brevi e sostanzialmente vuote notizie che però accomunano Evandro ed Enea.
Dopo i tempi, i luoghi: quelli del presente di Evandro col nome della Roma futura: la porta Carmentalis, qui connessa con la madre di Evandro; la grotta Lupercale, sacra al dio italico Luperco con cui si identificava il greco Liceo, l’Apollo dei lupi, ma che nella leggenda romana sarà il luogo in cui la lupa allatterà i gemelli, e Romolo porrà all’intorno un ambito sacro d’accoglienza (Asylum è parola d’origine greca che significa “luogo inviolabile”); l’Argiletum, quartiere di Roma qui etimologizzato come letum…Argi (v. 346), il luogo della disgraziata uccisione di un ospite di tal nome; la rupe che sarà Tarpea dal nome dell’antica traditrice; e soprattutto il Campidoglio: a quest’ultimo sono dedicati otto versi (347-354) perché sarà il cuore di Roma, dove scandet cum tacita virgine pontifex, dirà Orazio (Carm. III, 30, 9). Il contrasto fra l’allora e l’ora è sottolineato dal chiasmo del v. 348: aurea nunc, olim…horrida: ma la presenza divina è già avvertita con un misterioso timore che suscita visioni. Difficilmente il numinoso è stato espresso con maggiore partecipazione: non a caso Seneca riprenderà il passo del v. 352 (quis deum incertum est) habitat deus in uno dei suoi testi più complessi e profondi (ep. 41, 2). Infine due luoghi portano più indietro nel tempo, resti di antiche rocche risalenti a Giano e Saturno: con un salto temporale si torna alla preistoria per ritrovare il nome romano del colle Gianicolo.
La passeggiata è finita: la povera casa del re sorge fra armenti al pascolo dove ci saranno il Foro e uno dei più ricchi quartieri di Roma (le Carinae): il contrasto è usato dal poeta per introdurre un ultimo ricordo di Ercole, che non ha sdegnato la povera ospitalità, e l’esortazione di Evandro, aude, hospes, contemnere opes (v. 364), a suggello della storia narrata che ha visto una causa/esito della decadenza nell’amor…habendi. E’ evidente la connessione con l’invettiva di III, 56-7, quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames!
Ma belli rabies, l’altra causa/esito della decadenza, resta sospesa: è per una guerra che Enea è qui. E dall’Arcadia laziale, come dall’Arcadia bucolica, non resta fuori il male del mondo esterno.
vv. 369-453
E’ di nuovo notte, la seconda descritta, la terza del libro (una è trascorsa nel viaggio). Questo breve notturno, nox ruit … at, vede insonne per la guerra incombente Venere. A letto con Vulcano, si rivolge al marito suscitandone il desiderio amoroso e attirandolo con parole affettuose: carissime coniunx (v.377), sanctum mihi numen (v. 382). Ricorda il suo debito verso Paride (Priami…natis), la preoccupazione per il figlio a Troia, le armi date da Vulcano a Teti e ad Eos per i figli Achille e Memnone (cfr. I, 489), la sua sollecitudine discreta per la fatica del marito (nec…incassumve tuos volui exercere labores, v. 377-8) e per la volontà del destino (Pergama…debita casurasque…arces, in chiasmo, vv. 374-5). Ma ora la nuova guerra è Iovis imperiis (v. 381), non ha un esito già stabilito, e la minaccia personalmente (in me, con ardita manovra amorosa). Vulcano è così preso dal suo fascino che la rimprovera di non avergli chiesto aiuto prima, interpreta a suo modo il destino, riprende il suo in me con si bellare paras, quasi le armi dovessero proteggere lei. Poi si amano e si addormentano abbracciati.
Prima dell’alba il dio si alza per compiere la richiesta della sposa. C’è un accostamento bizzarro: il forte e potente dio e una povera matrona che lavora con le ancelle per mantenere i figli. L’ora ancora notturna, come lo zelo e l’urgenza, accomunano le situazioni, ma queste combaciano a fatica e come spesso avviene la scenetta creata vive di vita propria. Grandiosa la descrizione dell’antro di Vulcano sotto l’isola omonima, dove lavorano i Ciclopi, Bronte (dal nome greco del tuono), Sterope (dal lampo) e Pyracmon (dall’incudine infuocata): quest’ultimo sostituisce Arge nel terzetto già esiodeo, mentre Bronte avrà una lunga storia onomastica, finendo per dare nome ad un centro della Sicilia accorpato da Carlo V, al ducato dell’ammiraglio Nelson e, per volontà del padre ammiratore di Nelson, alle scrittrici sorelle. Le opere lasciate imperfette sono descritte con versi sonanti, ricchi di giochi fonici: ad esempio l’anafora di tres in allitterazione con torti e poi terrificos, l’allitterazione imbris-ignis, l’omeoteleuto sonitumque metumque. Alle immagini tradizionali (il carro di Marte, l’egida di Minerva con la testa di Medusa) si unisce una creazione fantastica, piena di “effetti speciali”: il fulmine formato da quattro gruppi di raggi, fatti di pioggia a zigzag (torti, v. 429, o più semplicemente ‘scagliata’), di nube gravida d’acqua, di fuoco e di vento, da rifinire con luci folgoranti, fuochi e rumori paurosi. L’intervento di Vulcano sposta tutto il lavoro sulla fabbricazione delle armi di Enea: il poeta concentra fin d’ora l’attenzione sullo scudo, che dovrà difendere l’eroe dagli assalti rivolti da tutti contro di lui (unum contra omnia / tela Latinorum, vv. 447-8); come quello dell’Achille omerico anche questo è fatto di strati circolari sovrapposti, sette qui, cinque in Omero: in Il. 20, vv.270 segg., proprio in occasione del duello di Achille con Enea, viene detto che lo scudo fabbricato da Efesto è solo di metallo mentre quello di Enea è, come tutti, più leggero, di cuoio rinforzato in metallo; ma lo scudo che ora Enea avrà è probabile che sia della stessa fattura divina, di metallo soltanto.
vv. 454-607
Alla notte degli dèi succede il mattino degli uomini, al buio dell’antro rotto da fuochi e folgori la luce dell’alba, ai fragori della fucina il canto degli uccelli. Torna la scena idilliaca dell’Arcadia laziale, ma fa da contorno a discorsi di guerra. Il tandem del v. 468 sembra individuare lo stato d’animo di Enea: alla vigilia non era stato possibile fare piani di alleanza, per la festa in corso; ma i Troiani lasciati soli col figlio davano urgenza all’attesa di decisioni e azioni risolutive. Il discorso di Evandro è in sé deludente: exiguae vires sono quelle degli Arcadi, dal piccolo territorio fra il Tevere e i Rutuli. Murum (v.474) pone qualche problema: è un singolare collettivo per indicare i muri delle case o vuole proprio significare che dove mancava un confine naturale come il fiume era eretto un muro di protezione? Certo il verso è ricco di assonanze r-u-m, in cui murum s’inserisce bene, qualunque ne sia in senso.
Evandro ha però altro da proporre. Una nuova profezia richiede per il forte popolo degli Etruschi un capo straniero; fors e fatum cooperano perché Enea giunga proprio ora: fors inopina salutem / ostentat: fatis huc te poscentibus adfers (vv. 476-7, con la varia lectio adfer, imperativo). Prima che la proposta sia spiegata è narrata la terribile storia di Mezenzio, già citato due volte come ‘spregiatore degli dèi’ (VII, 648 e VIII, 7). Era stato re di Agilla, città etrusca fondata dai coloni di Lidia secondo la tradizione erodotea (I, 94). Le sue nefandezze, raccontate con lo stesso gusto del macabro visto per la spelonca di Caco e nel terzo libro per l’episodio di Polidoro (non dissimile da quello che nell’età successiva si incontra in Lucano e nelle tragedie di Seneca, troppo facilmente considerati innovatori), portano alla cacciata del re dalla città. Questo spiega perché si trovi ospite dell’esercito italico, anche se la descrizione della casa incendiata, i compagni uccisi, la fuga inter caedem (v. 492) rende poco chiaro il possesso di un contingente militare di mille uomini, seppure seguaci del figlio (VII v.649 segg.). Comunque l’esito è l’ostilità degli Etruschi contro Rutuli e alleati e l’importanza dell’oracolo che avrà in Enea la possibile risposta. Evandro è troppo vecchio, Pallante è di madre italica e non del tutto straniero, per Enea invece et annis / et generi fata indulgent (vv.511-2). Se il passo rivela l’importanza degli Etruschi per Virgilio (si veda su questo sito il testo della conferenza di M. Sordi Virgilio e la storia romana), fa emergere però una difficoltà: due volte è stato detto che Dardano proveniva da Corito/Cortona, città etrusca (III, 170-1, VII, 209), cosa che comporterebbe un’antica parentela dei Troiani non solo genericamente con l’Italia, ma in particolare proprio con l’Etruria. Perché dunque Enea è per gli Etruschi straniero e corrispondente al capo richiesto dall’oracolo?
Questa in ogni caso è la proposta di Evandro, a cui peraltro non è stata comunicata l’origine etrusca di Dardano, ma solo la parentela con gli Arcadi tramite Atlante (vv. 134 segg.). Enea potrà recarsi dagli Etruschi con quattrocento cavalieri e Pallante imparerà da lui la fatica e l’arte della guerra.
Enea è venuto da Evandro a cercare alleati, e li ottiene. Ma in questo momento decisivo è come se per la prima volta si rendesse conto della realtà ineluttabile della guerra non voluta, del fatto di trovarsi nuovamente, dopo il lungo assedio di Troia, a doversi difendere. Proprio l’atmosfera apparente di pace di Pallanteo rende più difficile credere e accettare, perfino progettare, un’azione: i Troiani rimasti al campo saranno più rapidi nell’organizzarsi di fronte ad una guerra reale. Ci vuole l’intervento divino a scuotere Enea, che ricorda la promessa materna (non nota in precedenza) di procurargli armi di Vulcano e ne riconosce il segnale: l’accettazione della guerra si concreta in un’ amara sfida ai nemici destinati alla morte, poscant acies et foedera rumpant (v.540). Quindi si attiva: porterà con sé al campo etrusco i compagni migliori, su cavalli dati da Evandro; gli altri torneranno sulle navi al campo. E’ singolare che per recare notizie e, si presume, aiuto ai Troiani rimasti a rischio siano scelti i meno validi, che il viaggio di ritorno sia descritto come prona / fertur aqua segnisque secundo defluit amni (vv.548-9), un viaggio pigro (segnis) senza remare (prona aqua, secundo… amni). Dov’è l’ansia che sembrava adombrata dal tandem del v. 468? E inoltre: quando mai le navi arriveranno a portare le notizie? Tutto l’episodio di Eurialo e Niso del libro IX sembra contraddirlo, e l’arrivo per nave di Enea e degli alleati non pare interferisca col pigro viaggio dell’avanguardia.
Hi bellum adsidue ducunt cum gente Latina aveva detto il dio del Tevere a proposito degli Arcadi (v. 55) e Evandro stesso aveva ricordato la minaccia continua dei Rutuli (v. 474). Eppure l’annuncio di una guerra a cui si avviano i cavalieri con Pallante crea un improvviso terrore: con versi ricchi di giochi fonici (l’assonanza vota-metu, l’allitterazione metu… matres ripresa da maior Martis, l’allitterazione propiusque periclo: vv. 556-7) è presentata la paura delle donne, cui segue l’addio angosciato di Evandro al figlio. Per contro i partenti sono arditi, quasi gioiosi: Pallante è paragonato alla stella luminosa del mattino, Venere / Lucifero, il percorso dei cavalli descritto con uno dei più celebri esempi di allitterazioni e onomatopee: quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum (v. 596). Ma davanti al campo etrusco si fermano: l’incontro sarà narrato brevemente nel libro decimo. Adesso è il momento di Venere.
vv. 608-731
Nel primo libro Venere non si era palesata al figlio, lasciandolo deluso e offeso: Quid natum totiens, crudelis tu quoque, falsis / ludis imaginibus? Cur dextrae iungere dextram / non datur ac veras audire et reddere voces? (vv. 407-9). Ora invece l’incontro è esplicito: talibus adfata est dictis seque obtulit ultro (v. 611), dixit et amplexus nati Cytherea petivit (v. 615). Venere è più preoccupata o è cambiata dopo la vicenda infelice di Didone? Enea comunque non commenta l’incontro ed è preso solo dalla bellezza del dono. Dopo una rapida carrellata sull’armatura, il poeta passa a parlare della decorazione dello scudo, avvertendo lettori, critici e illustratori che è non enarrabile textum (v. 625). A differenza dell’Efesto omerico Vulcano non compone immagini di varia umanità, ma res Italas Romanorumque triumphos, il futuro di Roma già noto al dio. Tutt’intorno sono rappresentate le prime vicende di Roma regia e repubblicana: Romolo e Remo, il ratto delle Sabine e il patto fra i due popoli, il tradimento dell’albano Metto Fufezio punito da Tullo Ostilio, la guerra di Porsenna a sostegno di Tarquinio: questa volta è un etrusco nemico, contro cui Aeneadae in ferrum pro libertate ruebant, v. 648; ancora l’assalto dei Galli al Campidoglio, per il quale troviamo anche una descrizione dei materiali e dell’opera artistica, l’oro della rocca, l’argento delle oche, l’oro dei capelli biondi, delle vesti, delle collane sui colli bianchi nella nera notte; il difensore della rocca, Manlio Torquato, è raffigurato in summo (v. 652), nella parte più alta dello scudo imbracciato, come il nuovo difensore, Augusto, occuperà il centro. Inoltre vi sono immagini della religione romana e italica, i Salii, i Luperci, i flamini, le processioni delle matrone, uno scorcio dell’aldi là con due personaggi esemplari, Catilina nel Tartaro e Catone Uticense nei campi Elisi: il Tartaro escluso dalla visione del sesto libro si apre solo per un personaggio concordemente presentato in modo negativo, mentre evidentemente è già in atto il percorso di idealizzazione del Catone nemico di Cesare, che culminerà nel Bellum Civile di Lucano e nel Purgatorio dantesco. I due hanno anche la funzione di accelerare il riferimento storico portandolo a ridosso dell’ultimo grande evento raffigurato nella parte centrale dello scudo, la battaglia di Azio.
Questo è chiaramente non enarrabile textum, perché è una scena movimentata, in più momenti: all’inizio i due schieramenti, da un lato Augusto con gli Itali, senato e popolo, dèi nazionali e dèi maggiori, Agrippa come guida della flotta; dall’altro Antonio, cui è riconosciuto il glorioso passato militare ma che è legato ora (nefas!) ad un oriente barbarico, dagli dèi mostruosi, contrario alla civiltà, la legge e la ragione, che sono proprie dell’occidente. Poi la battaglia, navi contro navi, Marte scolpito nel ferro con le dèe della guerra; Apollo interviene interrompendo la lotta e volgendo in fuga i nemici; Cleopatra, mai chiamata per nome come nell’ode oraziana che peraltro la privilegia su Antonio (I, 37), si rifugia sul Nilo, preparata a quei serpenti che già prima l’attendevano: necdum etiam geminos a tergo respicit anguis, v.697; infine Augusto celebra i trionfi nel tripudio del popolo e nell’ossequio di genti vinte d’ogni parte del mondo, africani, microasiatici, Galli, e i popoli dell’Eufrate, del mar Caspio, dell’Armenia: la descrizione ricorda la corazza dell’Augusto di Prima Porta.
Enea ammira ma non capisce, non sa, come senza sapere aveva ammirato i luoghi di Roma e onorato il tempio di Apollo ad Azio (III, vv.275 segg.). Imbraccia lo scudo portando su di sé la storia futura dei suoi.
(Giulia Regoliosi, 2015)
vv. 1-24
Il primo verso si riferisce agli eventi narrati nel libro VIII, il viaggio di Enea lungo il Tevere fino a Pallanteo, la sosta presso gli Arcadi, il nuovo viaggio a cavallo fino alla confederazione etrusca, la consegna delle armi forgiate da Vulcano. Nell’VIII libro Enea è protagonista assoluto: il gruppo di Troiani che lo accompagna non ha nessun ruolo, neppure di ambasciatori (Enea si presenta da solo) e la ripartizione fra i pochi che lo accompagnano dagli Etruschi e il resto che deve portare per nave notizie ai compagni non aggiunge loro alcuna rilevanza: dagli Etruschi gli accompagnatori importanti sono i cavalieri arcadi col giovane principe Pallante, mentre del ritorno sul Tevere dei messaggeri non si sa più nulla, neppure nei libri successivi (e neppure delle loro navi: anch’esse divenute ninfe?): anzi l’assenza di notizie è il Leitmotiv del libro IX. Un libro singolare, privo di Enea: Virgilio l’utilizza per dare spazio ad altri, anzitutto Turno, poi varie figure dell’esercito italico e altre del campo troiano, i capi rimasti a custodirlo, i giovani audaci, lo stesso Iulo con la sua prima prodezza. Singolare anche perché, se Enea ha in sé ragionevolezza ed equilibrio, molto di ciò che avviene in sua assenza è improvvisato e irrazionale, anche nel coraggio, sia da parte troiana (con la sola eccezione dei due capi lasciati al comando, tardivi però nell’intervento), sia da parte degli italici, divisi fra la futura disciplina romana e l’incuria o l’audacia incosciente di animi ancora indisciplinati.
Già alla fine del quarto libro la dea dell’arcobaleno figlia di Taumante, Iris, appariva legata a Giunone e sua messaggera: là con il compito di permettere a Didone la morte, qui di avvertire Turno: i due antagonisti del fato su cui Giunone ha poggiato la sua opposizione ad Enea. La descrizione l’accosta all’Aurora omerica, “dal croceo peplo” e “dalle rosee dita”: croceis …pinnis (IV, 700) e roseo…ore (IX,5): ma vi si aggiungono come connotati propri l’ingentem…arcum (IX, 12) dai mille…varios…colores (IV, 701), il roscida (IV 700), che richiama la circostanza meteorologica dell’arcobaleno, e la straordinaria chiarità del cielo tagliato dal volo della dea, così da lasciar vedere oltre (IX, 19-21).
Siamo al secondo giorno dalla partenza di Enea, come risulta dal resoconto di Iris (vv. 8-11). Che cosa ha fatto Turno nel frattempo, dopo il prorompere della guerra, la sfilata di guerrieri al termine del libro VII? Virgilio ce lo mostra in una situazione di quiete inconsueta per Turno, definito audacem (v. 3), accentuata dal ritmo grave del verso 4, col solo quinto piede dattilo. Ma il luogo è sacro (luco, che indica un bosco abitato da divinità, sacrata valle) e il fermarvisi può indicare un inconscio (forte) desiderio d’ispirazione. Qui ci viene comunicata un’altra notizia della storia pregressa dei Dauni, iniziata con l’argiva Iò figlia di Inaco (VII, 372 e 789-92) e proseguita con la sua discendente Danae figlia di Acrisio, esule dalla Grecia e, secondo la variante accolta da Virgilio, approdata in Italia e fondatrice di Ardea (VII, 409-11). Il nume del lucus, Pilumno, antica divinità latina, è detto parentis di Turno (v.3): il termine indica una generica ascendenza, forse il nonno o, come sembrerebbe da X 619 (quartus pater) un più lontano antenato. Dalla sua unione con l’argiva Danae discende l’eponimo della regione Dauno, sposo della ninfa Venilia e padre di Turno (X, 76).
Colpisce il fatto che la messaggera non nomini Giunone, anzi precisi che la situazione favorevole per attaccare i Troiani è data dalle circostanze (ultro, v. 7), non provocata dagli dèi (divum…nemo / auderet, vv. 6-7, con l’imperfetto irreale in enjambement a rilevare l’audacia empia di opporsi al fato). Turno però capisce che Iris non si è mossa da sola e dopo averle inutilmente chiesto chi l’ha mandata offre la sua obbedienza alla divinità sconosciuta (quisquis vocas, v.22). Anche Enea, dopo la visione notturna nell’ultima notte di Cartagine, aveva obbedito al dio ignoto: sequimur te, sancte deorum / quisquis es (IV 576-7).
Nel luogo dove Turno sedeva c’è dell’acqua corrente, a completare il topos del locus amoenus: Turno vi attinge per rivolgere agli dèi preghiere e voti. Come spesso in Virgilio, in particolare nelle Bucoliche, il locus amoenus offre una sosta provvisoria, minacciata o interrotta da altre urgenze. (clicca qui per ulteriori notizie)
vv. 25-68
L’esercito degli italici si muove immediatamente, senza che Virgilio ce ne descriva il radunarsi, il dispiegarsi. Ha la solenne bellezza dell’ordinato esercito romano, espressa più che dalla ricchezza di cavalli e vesti (si noti il genitivo arcaico della prima declinazione in –ai), dal paragone coi due grandi fiumi, il Gange gonfio per i sette affluenti che gli si aggiungono perdendo il vigore torrentizio e il Nilo le cui acque fecondatrici sono tornate nelle rive. Il silenzioso procedere concorde è rilevato da parole come sedatis, per tacitum (sintagma usato in poesia in luogo di un avverbio e dopo Livio anche in prosa), se condidit alveo; inoltre dal ritmo cadenzato del verso 31, coi tre spondei centrali e alveo bisillabo. Ritroviamo personaggi incontrati nel libro settimo: all’avanguardia il figlio di Nettuno Messapo, guida di popoli non avvezzi a combattere ma capaci di eseguire gli ordini (VII, 691 segg.); nelle retrovie i figli superstiti di Tirro, con cui era nato il primo casus belli per l’intervento della Furia Alletto (VII, 477 segg.); nel centro dell’esercito il comandante supremo (il verso 29 è considerato spurio in quanto ripetuto rispetto a VII, 784, anche lì riferito a Turno).
L’insediamento troiano sulle rive del Tirreno era stato progettato castrorum in morem (VII, 159), non come le città di pace iniziate e interrotte nel libro terzo: col tempo Enea ha appreso la prudenza e attende, per le debita moenia (VII 146) definitive, la certezza dell’accoglienza. Qui vivono i Troiani in assenza di Enea; con la discreta tranquillità di chi va e viene dalle porte, ma con sentinelle sulle torri. Una di queste, Caico, vede avvicinarsi i nemici: il buio simbolicamente esprime il pericolo e il terrore: nigro…pulvere nubem, tenebras, caligine…atra; e col buio l’inatteso: subitam completa il chiasmo (subitam nigro…pulvere nubem) del verso 33. Pur assente, Enea conserva autorità e obbedienza: prevedendo un assalto, aveva ordinato di accettare l’assedio, senza scendere in campo: optimus armis (v. 40) definisce il capo esperto non solo in battaglie, ma in strategia militare. Tutti rientrano nel fortino, chiudono le porte, si distribuiscono nelle torri e sulle mura; il pudor, la greca αἰδώς che nell’Iliade spinge Ettore ad affrontare Achille, qui è vinto dalla disciplina romana, così come l’ira (forse un richiamo alla μῆνις di Achille?).
L’ordine dell’esercito italico non dura: il dux, Turno, non serba il posto all’interno del contingente. Virgilio ce lo mostra irruente, tanto da precedere il resto delle truppe ut ante volans, “come innanzi volando” (se questo è il valore sintattico di una frase variamente intesa); volans precede immediatamente nel verso l’aggettivo tardum, disgiunto solo dalla semiquinaria, e vi si contrappone. Anche il silenzio del percorso è interrotto dal grido del comandante, cui fanno eco i compagni con grida terribili: horrisono, rilevato in enjambement, è formato dalla stessa radice di horror, horridus, horreo, più volte presenti nel poema, ad esprimere un terrore la cui origine è misteriosa, o improvvisa. Con Turno corrono all’attacco cavalieri scelti: è particolarità di Virgilio la presenza della cavalleria, assente nelle battaglie omeriche; la vedremo in azione soprattutto nel libro undecimo. Ma già nel terzo libro Anchise aveva profetizzato la guerra proprio scorgendo dei cavalli sulle coste dell’ Italia, anche se l’uso agricolo dei cavalli poteva pure essere presagio di pace (III, 539-43)
Solo Turno muove all’attacco del fortino ostinatamente chiuso, imprendibile, mentre i compagni attendono stupiti una sortita che non avviene. Il paragone col lupo ha come tertium comparationis la rabbia impotente per il protrarsi del desiderio: turbidus, asper, improbus ira, rabies, irae, dolor.
Il verso 65 presenta un problema testuale/interpretativo: le variae lectiones si dividono fra qua via e quae via: come già osservava Servio ad loc., via non può essere che nominativo per motivi metrici, e in ogni caso quindi soggetto di excutiat e effundat, variando rispetto a temptet che ha come soggetto Turno; se si sceglie qua secondo Servio deve essere inteso come avverbio (“per dove la via…”), ma potrebbe essere ancora sottintesa ratione (“in che modo la via…”); con quae via il senso è più chiaro (Servio: est sensus absolutior).
vv. 69-122
Classem: la parola, in inizio di verso e lontana dal verbo reggente (invadit) pare quasi la risposta improvvisa all’ansiosa ricerca di Turno. La lunga spiegazione che divide i due termini non è oziosa: è Turno ad accorgersi che a fianco dell’imprendibile fortino c’è un lato scoperto, solo terrapieno e fiume: lì si trova, quasi indifesa, la flotta. L’impulso di bruciarla sembra rispondere ad un gusto folle di distruzione e vendetta, che soltanto dopo il prodigio verrà in qualche modo razionalizzato e spiegato ai compagni: ma forse è l’esito ultimo dell’intervento di Alletto, che aveva in effetti esortato: pictas…exure carinas (VII, 431). Virgilio non dice dove fosse il fuoco da cui Turno prende la prima torcia, come siano sorte le cataste accese (focos, v. 75) da cui tutti traggono fiaccole: la frenesia del capo più che i suoi ordini (urget praesentia Turni, v. 73) provoca l’azione di tutti, in un consenso entusiasta (ovantis, v. 71) quanto illogico: il passarsi di mano in mano del fuoco è rilevato dall’allitterazione della spirante f : flagranti fervidus facibus focos fert fumida favillam, dove in particolare l’accostamento dei primi due aggettivi, riferiti al legno e a Turno, coinvolge anche l’uomo nell’ardore bruciante dell’incendio.
I tre versi successivi (77-79) introducono il lungo flashback, che ha la funzione di raccontare la storia pregressa delle navi e mantenere sospesa la situazione a rischio. La tecnica sembra ricalcare l’uso omerico analizzato da Auerbach nel primo capitolo di Mimesis a proposito dell’origine della cicatrice di Odisseo: qui però non si tratta di una storia di avventure, ma di una misteriosa vicenda insieme religiosa e fiabesca, che ha il suo posto nel compimento del destino di Enea ma può suscitare stupore incredulo nel lettore scaltrito dell’età augustea. E’ necessaria quindi la dichiarazione di un’ininterrotta tradizione umana, rilevata dal chiasmo allitterante del v. 79:
prisca – fides facto / (sed) / fama – perennis.
Ma è necessaria anche l’invocazione alle Muse, che sostengono la memoria degli uomini: cfr. VII 645-6:
Et meministis enim, divae, et memorare potestis:
ad nos vix tenuis famae perlabitur aura.
Si risale all’inizio della fuga, quando la flotta veniva costruita sotto le pendici del monte Ida (III, 5-6). Il monte è sacro alla dea Cibele, la Berecinzia divinità dei Frigi già ricordata da Virgilio nel paragone del libro VI (784-7), che l’accostava alla Roma futura. La Grande Madre orientale era identificata all’interno della religione olimpica con Rea, madre di Zeus / Giove, da lei sottratto a Crono / Saturno e messo in salvo. In questa veste ci viene ora presentata: al figlio ormai divenuto signore degli dèi (e per suo merito, come accenna discretamente domito…Olimpo) chiede che le navi costruite coi suoi alberi non subiscano nessun danno nella navigazione. Sono alberi sacri, sorti nella silva a lei cara, un lucus meta di offerte, cui l’insistita oscurità (nigranti…obscurus, v. 87) conferisce una solennità misteriosa; cfr. per questo topos I, 165 (desuper horrentique atrum nemus imminet umbra) e Sen. ep. 41, 3. La richiesta è preceduta da un accumulo di termini indicanti preoccupazione, sollicitam timor anxius angit … solve metus: prevale l’idea fisica del senso di soffocazione, coi corradicali anxius angit, cui si contrappone solve (propriamente sciogli, come fosse un cappio), anche in allitterazione con sollicitam. Ma ancor prima che il racconto prosegua il lettore sa che questo desiderio non si è realizzato, che navi sono state perdute o danneggiate nella tempesta del primo libro e nell’incendio del libro quinto; non è quasi necessario lo stupito rimprovero di Giove, in cui si contrappongono mortali / immortale, certus / incerta, a indicare la precarietà delle cose degli uomini, che neppure a quelle d’origine divina possono offrire garanzia. E tuttavia ci sarà un dono per le navi che avranno favorito il destino, una volta compiuto il viaggio: diverranno ninfe del mare come le Nereidi che, con doppia allitterazione (secant spumantem / pectore pontum, v. 103), sono osservate muoversi agilmente fra le onde. La promessa ha in sé una vaghezza preoccupante: quaecumque evaserit undis (v. 99) fa comprendere che il desiderio di Cibele / Rea non si compirà, che non tutte le navi giungeranno incolumi. Quasi come contraccambio per l’impossibilità di soddisfare pienamente la madre, Giove annuisce solennemente: è il segno irrevocabile (vedi Il. I. 524-530) che costituisce un giuramento. Tradizionalmente gli dèi giurano per il fiume Stige (cfr. il giuramento di Giunone in XII, 816-7), ma il fiume infuocato qui descritto è invece il Flegetonte, e lo Stige è nominato solo come attributo di Plutone (Stygii…fratris): una sorta di ipallage.
Giove non lo aveva detto, ma l’adempimento della promessa è direttamente compito della dea. Il tentativo d’incendio richiama Cibele, ma in sé non è determinante: il tempo previsto era già terminato, il servizio reso. Il prodigio avviene in più momenti: anzitutto si manifesta una strana luce abbagliante, seguita da una grande nuvola che attraversa il cielo provenendo da oriente: visus è forse passivo, non medio, non “sembrò attraversare”, ma “fu vista attraversare”: il miracolo è reale, anche se l’uso linguistico è inconsueto. Coordinato a nimbus è il poco chiaro Idaei…chori: la parola greca indica un gruppo che danza cantando, e l’aggettivazione fa pensare ai Coribanti, seguaci / sacerdoti di Cibele (v. III, 111 segg.). Le interpretazioni variano dal ritenere che il nimbus racchiuda in sé Cibele col suo corteo (commento di Vitali alla sua più generica traduzione e di Mussini-Marzari Chiesa alla traduzione di Vivaldi, peraltro generica: nembo seguìto dai coribanti dell’Ida) all’idea che il nimbus stesso sia costituito dai Coribanti, con un’endiadi (traduzione di Annibal Caro e commento di Bianchi-Nediani alla traduzione di Albini); il commento di Pagliaro alla versione Vergara rileva la caratteristica tipica dei Coribanti, il clamore, e lo identifica con una sorta di tuono che accompagna nuvola e luce; a sua volta Bacchielli lo esplicita già nella traduzione: un nembo / correre parve con fragor di tuono, /e risuonar per l’aria i cori idèi; e lo commenta sottolineando, con esempi danteschi, proprio l’idea (aggiunta!) del fragore. Lasciamo sospesa la questione, osservando solo che le voci divine sono precedute in genere da un tempo silenzioso, quasi sospeso, finché, come qui, tum vox horrenda per auras / excidit (112-3). Excidit in inizio di verso e in enjambement si coordina alla fine con complet: “precipita e riempie di sé”; fra i due verbi entrambi gli eserciti ugualmente sconvolti. La voce si rivolge anzitutto ai Troiani, esortandoli a non temere per le navi, a non difenderle in armi: i due imperativi negativi sono di uso poetico, come la costruzione di trepidate con l’infinito. Poi implicitamente a Turno, che ha osato un’azione che non gli è e non gli sarà concessa: l’adynaton è quasi un’irrisione. Infine direttamente alle navi: sono libere, vadano a trasformarsi (predicativo) in dee marine. La chiusa è come un suggello o una firma: è la Grande Madre a volere che tutto si compia.
Virgilio non descrive la metamorfosi, rifuggendo dalla minuziosità di Ovidio: in un concitato moto, cui corrisponde una disposizione convulsa delle parole, le navi spezzano gli ormeggi, s’inclinano con un guizzo (delphinum…modo) e s’immergono. Tutto il resto accade sott’acqua e non ci viene detto: a riemergere (reddunt se) sono altrettante figure di ragazze che subito spariscono nel mare loro destinato. Ponto è dativo di moto a luogo, frequente in poesia: quindi “si spingono verso il mare”. Altre interpretazioni, con ponto ablativo di causa efficiente o ablativo di moto in luogo circoscritto, sembrano dimenticare che il prodigio avviene sul Tevere e non sul mare.
I Rutuli comprendono che un nume è contro di loro: l’horror (vox horrenda) e lo stupore per il mirabile monstrum (v. 120) sono condivisi dall’esercito e dal comandante in seconda Messapo, come anche dalla natura stessa, i cavalli, il fiume.
vv. 123-153
E’ difficile dire quanto la lunga tirata di Turno risponda ad una sincera convinzione opposta alla reazione generale appena descritta, o al desiderio di rianimare i compagni con argomentazioni in qualche modo credibili (secondo le modalità dei comandanti romani: cfr. i discorsi in Cesare, Livio, Tacito), o ad un’autoesaltazione divenuta quasi follia. Quanto vi era d’improvvisato e poco chiaro a lui stesso nell’aggredire le navi sembra trovare a posteriori una spiegazione e una conferma: il prodigio ha privato il nemico delle navi, quindi il tentativo di distruggerle era sensato, quindi gli dèi sono dalla nostra parte. Dimentico del fatto che Enea e i suoi hanno chiesto a Latino uno spazio in cui stanziarsi definitivamente (tot vasta per aequora vecti / dis sedem exiguam patriis litusque rogamus, aveva detto Ilioneo, VII, 228-9), Turno immagina che i Troiani vogliano solo fuggire (spes…fugae, v. 131): non più per mare, quindi, auxilium solitum per perenni fuggiaschi, come Turno interpreta il loro continuo peregrinare; né per terra, che è in nostris manibus. Resta solo la completa distruzione (sceleratam excindere gentem, v. 137). Il fatum è minimizzato, o in quanto solo vantato come pretesto d’invasione (si qua Phryges prae se iactant, v. 134), o perché ormai concluso; e l’accostamento di fatis a Venere al v. 135 fa intravedere un favoritismo, quasi un capriccio della dea. Resta da chiedersi che cosa può sapere Turno della discendenza divina di Enea e della protezione insistente di Venere, nota solo a Giunone e naturalmente all’autore, che presta al personaggio la sua onniscienza. La minimizzazione del destino porta con sé l’idea che ognuno sia arbitro del proprio e che il suo s’identifichi con la vendetta per la perdita della donna desiderata: riprendendo l’analogia già di Amata (VII, 363-4), Turno considera la sua situazione simile a quella di Menelao (coniuge praerepta, v. 138), lo sposo legittimo di Elena rapita da un altro troiano. Tuttavia non osa definire la vendetta come fas, usa al posto il verbo del lessico civile, licet.
E’ stato osservato che l’obiezione retorica del v. 140 non si accorda con la concitazione del discorso. Sembra che a questo punto Turno rinsavisca, s’accorga di avere degli interlocutori nei compagni turbati, legga quasi in loro l’obiezione: il rapimento di Elena ha già avuto la sua vendetta nella distruzione della città, non può riverberarsi in questi esuli e, forse, l’analogia non è così credibile. Ma Turno la ribadisce, con una frase dalla sintassi faticosa e contorta, in cui ricorrono i suoni dello spregio, le s e le p: dopo la prima colpa avrebbero dovuto odiare quasi tutto (modo non omne) il sesso femminile. Femineum in enjambement forse non a caso è seguito immediatamente da quibus, quasi si inserisse un nuovo pensiero: i Troiani effeminati e incoscienti si rintanano nel loro fortino, per questo non hanno accettato il combattimento. Così si spiegano i vv. 146-7, considerati da alcuni editori e commentatori fuori posto: l’invito ai compagni di mostrare ai vigliacchi (trepidantia castra, v. 147) la loro superiorità. Anche nei confronti dei Greci, che hanno avuto bisogno di mille navi, delle armi divine, di furti ed inganni, di dieci anni d’assedio. Alcune edizioni espungono il 151, simile a II, 165 e forse una glossa a inertia furta. Si noti l’ironia del poeta nei confronti del suo personaggio, che ricorda le armi di Vulcano donate ad Achille, ignorando che nuove armi (qui l’onniscienza non opera) sono state preparate dal dio per Enea.
La frenesia si spegne con questo insulto ad ogni nemico, i Troiani imbelli (ma capaci di resistere all’assedio, anche se era stato merito di Ettore), gli Etruschi loro alleati, i Greci incapaci e fraudolenti. E’ quasi sera, ora di riposarsi. Con l’ultima illusione (laeti bene gestis…rebus: in realtà nulla era stato ottenuto da loro) e l’attesa della futura battaglia (si noti sperate con l’infinito presente).
vv. 154-175
Si prepara la seconda notte dalla partenza di Enea. La cronologia delle due vicende parallele è confusa, comporta qualche passo incerto, specie nel libro decimo; ma saremmo del parere, con il Büchner (Virgilio, Paideia, Brescia, 1963, pagg. 476 segg.), che la partenza di Enea dopo l’accordo con gli Etruschi avvenga nel prossimo giorno, il terzo, richieda ancora un’altra notte e si completi nel quarto giorno dall’inizio dell’assenza. Benché si sia soltanto a metà dell’attesa, dunque, si comprende ugualmente la preoccupazione dei Troiani rimasti e l’improvvido permesso dato ad Eurialo e Niso di porsi da soli e a piedi in cerca del comandante.
Il famosissimo episodio è preparato da alcuni versi con l’organizzazione notturna dei due eserciti. Nuovamente il comandante in seconda degli Italici è Messapo, che dispone le ronde; dei Troiani i capi lasciati da Enea sono Mnesteo e Seresto: entrambi comandanti di navi (Seresto è uno dei sopravvissuti alla tempesta del primo libro), su cui Enea si è sempre appoggiato al punto da affidare loro, insieme a Sergesto, il compito di preparare di nascosto la flotta in partenza da Cartagine (IV, 288-9). Risulterà chiaro nel prosieguo la differenza fra l’incuria degli assedianti, avvinazzati fino ad addormentarsi, ben lontani quindi dal solenne dispiegarsi con cui era stato presentato il loro arrivo, e la vigilanza degli assediati, sottolineata anche dal tema del notturno ai vv.224 segg.
(Giulia Regoliosi, aprile 2017)
vv. 176-445: un esperimento di lettura
Il modo più banale con cui, nella scuola, ci si può accostare ad un testo poetico latino è di considerarlo semplicemente come strumento di verifica delle conoscenze linguistiche degli allievi, puro esercizio, grammaticale. Un approccio più corretto tende invece a ricercare i contenuti che l’autore ha voluto esprimere. Nel fare questo, a mio giudizio, si rischia, spesso, di cadere in due errori: ragionare sulla traduzione piuttosto che sul testo originale e cercare a tutti i costi il contenuto interessante. E’ evidente come in questi casi si operi uno stacco tra forma e contenuto, dimenticando l’indissolubile legame delle due componenti in ogni opera d’arte, e particolarmente nella poesia, così che la forma è contenuto essa stessa. Nel guidare la lettura di un brano poetico in una classe bisogna naturalmente tener conto della fatica che costa agli studenti leggere e comprendere un testo latino e dovendo, per forza di cose, operare una selezione, è evidentemente giusto scegliere passi contenutisticamente significativi e interessanti, ma non mi sembra corretto leggere in metrica “perchè si deve”, per poi cercare di capire ricomponendo le frasi secondo una costruzione “più normale” o riflettere sul testo sulla base della traduzione; allo stesso modo considerare superficialmente o trascurare del tutto passi contenutisticamente poco rilevanti (come, per esempio nel testo virgiliano, le descrizioni di battaglie, di paesaggi, ecc.) significa rinunciare ad avere una visione completa e più obbiettiva del testo. Una maggior attenzione alla forma può insomma far comprendere come un testo poetico sia anche determinato dal puro desiderio di raccontare e dal gioco delle parole e delle immagini; mette inoltre ben in evidenza i contenuti e i significati più veri.
Partendo da questa preoccupazione, ho voluto tentare l’affronto di un brano molto noto nelle scuole che per 1a varietà delle situazioni narrative offerte si presentava come ottima occasione per una lettura “integrale”. Nell’analisi ho tenuto soprattutto conto di tre elementi: la sintassi poetica, diversa da quella grammaticale, dove l’importanza delle proposizioni e delle parole è determinata dalla loro posizione più o meno preminente all’interno dell’ ordinamento ritmico dei versi; l’uso dell’allitterazione, interessante in Virgilio; la maggiore o minore frequenza, nei singoli versi, della 1iquida r, particolarmente forte che può produrre effetti musicali significativi.
L’episodio che intendo analizzare ha come protagonisti due personaggi già incontrati nell’ Eneide (l.V, vv. 286-361), anzi, si può dire che questo brano è uno sviluppo più articolato e drammatico dei temi caratterizzanti Eurialo e Niso nel racconto della corsa contenuto nel libro quinto. Vale allora la pena di riprendere i punti fondamentali di quel passo. Eurialo, presentato per primo, è qualificato dalla bellezza e giovinezza (v. 295: Euryalus forma insignis viridique iuventa), qualità ribadite anche più avanti (vv. 343-344), Niso dall’ amicizia che 1o lega ad Eurialo (v. 296: Nisus amore pio pueri: da notare quel pueri che può essere inteso sia come genitivo soggettivo che oggettivo). Più oltre vengono messe in risalto le doti fisiche di Niso (vv. 318-319) che lo portano a condurre la corsa fino alla sfortunata caduta e il suo affetto per Eurialo che, nonostante il dispetto di essere fuori gara, aiuta a vincere (v. 334: non tamen Euryali, non ille oblitus amorum; cfr.anche v. 337).
Come l’episodio del libro quinto, anche quello del nono è introdotto da alcuni versi che ci presentano i protagonisti della vicenda e le loro caratteristiche (vv. 176-183):
Nisus erat portae custos, acerrimus armis
Hyrtacides, comitem Aeneae, quem miserat Ida
venatrix, iaculo celerem levibusque sagittis;
et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter
non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma,
ora puer prima signans intonsa iuventa.
His amor unus erat pariterque in bella ruebant:
tum quoque communi portam statione tenebant.
I primi tre esametri sono costituiti da una proposizione principale e una relativa; i tre successivi da una principale e due coordinate col medesimo soggetto; gli ultimi due versi da proposizione principale e due coordinate. Se contiamo il numero delle r singoli versi notiamo che ne presentano due i vv. 177, 178, 181; una il v. 183: nessuna il v. I80; invece i vv. 176, 179, 182 rispettivamente con 5, 4, 5 spiccano sugli altri. In questi tre esametri particolarmente sonori, e più precisamente nei loro primi emistichi, troviamo gli elementi più importanti dei tre periodi che costituiscono l’introduzione all’episodio: i soggetti e i predic.ati delle principali Nisus, Euryalus, amor unus, erat (predicato, sottinteso nella seconda proposizione, ugua1e nelle tre principali).
Simmetrie e variazioni sonore evidenziano i personaggi. Il periodo dedicato a Niso, dal ritmo spezzato, costituito in prevalenza da apposizioni e attributi, sottolinea il valore militare dell’eroe; gli esametri che riguardano Eurialo, più distesi, ci parlano ancora della sua bellezza e giovinezza: gli ultimi due, legati fra l’altro dalla rima, ribadiscono insistentemente l’unità determinata dall’amicizia fra i due (amor unus, pariter, communi statione), così che il verso 183, ricordando la comune guardia alla porta, corregge in qua.lche modo l’affermazione del verso 176 che qualificava Niso come portae custos: se la perizia militare di Niso poteva permettere all’eroe di proteggere da solo l’ingresso, il legame con Eurialo gli faceva dividere questo compito con l’amico. Quando Niso deciderà di intraprendere la pericolosa missione non potrà negare a Eurialo la prospettiva di accompagnarlo, anche se sarà proprio l’inesperienza di Eurialo a determinare la tragica fine·dei due; un’amicizia che si manifesta in costante compagnia, persino nella morte, appare sin dall’inizio il tema dominante trattato dal poeta in quest’episodio. .
Dopo che Niso ha manifestato il suo proposito di raggiungere Enea (vv. 184-196), intento mosso da ardor, dira cupido, che può essere appagata solo dalla fama facti, Eurialo, stupito e colpito dal·desiderio di onori del compagno (v. 197: obstipuit magno laudum percussus amore), reagisce con un discorso che dà ulteriori precisazioni sulle caratteristiche della loro amicizia (vv. 199-206):
Mene igitur socium summis adiungere rebus,
Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
Non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores
sublatum erudiit, nec tecum talia gessi,
magnanimum Aenean et fata extrema secutus:
Est hic, est animus lucis contemptor et istum
qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem.
Nei primi due versi troviamo due proposizioni interrogative simmetricamente contrapposte: alla prima appartiene socium posto prima della cesura del v. 191, che fa rima con solum, posto, nell’esametro e nell’interrogativa successiva, nella medesima posizione. Il fortissimo risalto dato alle due parole sottolinea quanto la prospettata separazione sia inaccettabile per Eurialo. Nei tre esametri seguenti questa separazione appare contraria al pasato, Ofelte, e al presente, Niso ed Enea: in due proposizioni coordinate Ofelte e Niso sono messi sullo stesso piano; l’azione del padre che fra le disgrazie di Troia (il triste ricordo della città è evidenziato musicalmente dall’accentuata frequenza di r nel v. 202) istruì Eurialo è era continuata da Niso nell’agire insieme e tale rapporto è strettamente connesso col viaggio che i due fanno al seguito di Enea. La compagnia di Niso è poi per Eurialo stimolo a comprendere cose più grandi, così che Eurialo è rimasto colpito (percussus) dal desiderio di gloria dell’amico ed ora egli stesso brama quel medesimo onore cui tende Niso (vv. 205-206: est animus… qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem). L’argomentazione di Eurialo tocca i nodi centrali della sua amicizia con Niso e questi controbatte inutilmente (vv. 207-218):
Equidem de te nil tale verebar,
nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem
Iuppiter, aut quicumque oculis haec aspicit aequis.
Sed, si quis, quae multa vides discrimine tali,
si quis in adversum rapiat casusve deusve,
te superesse velim; tua vita dignior aetas.
Sit, qui me raptum pugna pretiove redemptum
mandet humo solita aut si qua id fortuna vetabit
absenti ferat inferias decoretque sepulcro.
Neu matri miserae tanti sim causa doloris,
quae te sola, puer, multis e matribus ausa
persequitur magni nec moenia curat Acestae.
In questo passo risaltano particolarmente .gli elementi essenziali di due proposizioni principali. Nec fas, non (v. 208), rapida negazione con cui Niso elimina ogni dubbio sul coraggio di Eurialo, è posta all’inizio del verso, separata dal resto dell’esametro da una forte cesura tritemimera, mentre risultano poco marcate al confronto le cesure pentemimera. ed eptemimera presenti nello stesso verso e quella pentemimera nel verso successivo. Aggiunge risalto all’affermazione il suo suono aspro e stridente. Il dolce e piano te superesse velim (l’effetto è ottenuto ripetendo più volte la vocale e) risponde invece all’attesa prodotta sul lettore da due versi costituiti da due proposizioni ipotetiche e una incidentale e dal ritmo piuttosto spezzato. Il contenuto del passo sottolinea inoltre come Niso aspiri a ritornare insieme ad Eurialo e mette in luce come anche il rapporto della madre di Eurialo con il figlio basi sulla compagnia e la vicinanza: questa, infatti, rifiutandosi di restare in Sicilia, aveva seguito il figlio in Italia.
Tutta questa prima parte dell’episodio, dunque, evidenzia le caratteristiche e il senso dell’amicizia dei due giovani; avevamo sottolineato il particolare significato che a1l’inizio del passo assumeva la communis statio dei due alla porta: ora, in chiusura, il poeta riprende quel concetto: i due, statione relicta, si avviano insieme, come sempre, al consiglio dei capi (v. 223: ipse comes Niso graditur).
L’episodio prosegue col racconto del colloquio coi capi troiani e dell’esecuzione notturna: Niso, scampato ai nemici, come già nella corsa, non si dimenticherà dell’amico e tornerà indietro per morire con lui. I doni che Enea generosamente offriva ai due giovani, come agli altri concorrenti, chiudevano l’episodio del libro V: qui, invece, sarà la fama a ricompensare l’eroismo dei due. Di questa’seconda parte ricordo soltanto alcuni passi nei quali è ben evidente la connessione tra forma e contenuto.
Il colloquio di Euria1o e Niso con i capi è preceduto da alcuni versi che ricordano il sonno benefico dei più e la veglia piena di preoccupazioni dei capi troiani (vv. 224-230). Sottolinea la tranquillità della notte la lentezza dei primi due esametri, effetto ottenuto con allitterazione prima di ter, per, ter, poi di omn e altre nasali; di a e infine di or. Tale pace è spezzata musicalmente dalle aspre dentali del v. 226 che introduce gli insonni capi troiani, mentre il v. 228 assume un ritmo spezzato e accelerato rispecchiando l’incertezza nel deliberare. Il v. 229 privo di marcate sonorità, con allitterazione di st, t e rima tra longis e hastis, parole situate prima di cesure, ha un ritmo nuovamente pacato e lento: sembra sottolineare la impossibilità di arrivare ad una decisione valida e lo sconforto che ne deriva.
Nei versi dedicati al sopraggiungere dei soldati di Volcente una serie di effetti determina l’impressione di un movimento lento e inesorabile (vv. 367-370). Il soggetto e altri elementi della proposizione principale, con una dipendente, precedono il verbo; il suono re è ripetuto due volte nel primo verso, tre nel terzo, mentre il verso 370, fortemente spezzato e con la metallica allitterazione di cen, è il culmine drammatico del periodo.
Più avanti (vv. 376-377) va sottolineato il suono v ripetuto 4 volte e in tre casi seguito da vocale accentata che tende a unificare il ritmo spezzato delle domande di Volcente. Due versi (384-385) descrivono la tentata fuga di Eurialo, l’intricato verso 384, con allitterazione di r e o evidenzia bene le difficoltà incontrate dal giovane; due sole parole bastano, invece, per esprimere la facilità con cui Niso si mette in salvo (v. 386). .
Dopo le pause del verso 388, contenutisticamente e musicalmente poco importante, la stridente allitterazione in dentale all’inizio del verso 389 (ut stetit et frustra ) esprime bene l’ improvviso accorgersi di Niso dell’assenza di Eurialo. Più avanti la frequenza delle r nel verso 401 sottolinea la drammatica domanda che si pone Niso.
Da ultimo va segnalato l’effetto onomatopeico presente nei versi 411-419, dove il suono dell’asta lanciata da Niso è rappresentato insistendo prima sul suono s ripetuto 4 volte nel v. 411, 3 nei vv. 412 e 413, 1 nel 414 ma 5 nel 415 (hasta volans noctis … umbras / adversi … Sulmonis / fisso transit / vomens / frigidus … longis singultibus … pulsat), e poi (vv. 419-20) ripetendo il suono r accompagnato da labiale o dentale (stridens traiectoque … cerebro / atrox).
vv. 446-472
La vicenda è interrotta da un commento del poeta sulla perenne gloria che avranno i due giovani. Il tono solenne è rilevato dall’uso del vocativo in funzione praticamente di esclamazione (cfr. fortunate senex di ecl. I, 46, peraltro rivolto ad un interlocutore presente) e dal suggestivo v. 448 diviso dalla semiquinaria in due emistichi significativi, l’uno dedicato alla durata nel tempo della stirpe di Enea (dum domus Aeneae), l’altro alla durata nello spazio della rocca del Campidoglio (Capitoli immobile saxum), completati dal verbo accolet in enjambement. Come Orazio nell’ode III, 30 considera la propria fama di poeta eterna quanto la sacralità del Campidoglio, così è per Virgilio la fama di Eurialo e Niso, grazie al suo canto: la modestia del si quid sembra solo un espediente. Che poi Roma e la stirpe di Enea s’identifichino con Augusto e la sua gens d’adozione o più genericamente con il senato, o con la potenza del suo popolo, non mi sembra rilevante.
Piuttosto verrebbe da chiedersi il perché di questo particolare elogio: se era improvvido il permesso di cercare Enea da soli, a piedi e alla cieca (davvero poco credibile che ci fosse stato tempo di andare a caccia lungo il percorso del Tevere!), la sosta nel campo nemico per uccidere e depredare, fra l’altro annunciata, era più che improvvida, assurda: sarebbero dovuti passare in fretta, in silenzio; per quanto addormentati e ubriachi fossero i nemici, c’erano comunque le ronde predisposte da Messapo, anche senza bisogno del plotone latino sopravvenuto inatteso. L’imitazione del libro X dell’Odissea costituisce un modello inadeguato: Odisseo e Diomede dovevano spiare l’accampamento troiano e ne approfittano per uccidere il contingente alleato, mentre Eurialo e Niso hanno un’altra meta da raggiungere con difficoltà e incertezza, quindi senza indugi e rischi inutili. Un episodio amato e apprezzato per secoli, citato anche da Dante, ma di un eroismo senza ragionevolezza.
La notte termina con il triste corteo dei soldati di Volcente, detti Rutuli ma in realtà Latini, verso il campo degli assedianti, dove si scoprono le nuove vittime (Numa non era stato in precedenza nominato) e si riconoscono le prede rubate da Eurialo e Niso. Il dolore riempie nell’ultimo buio il campo (flentes, luctus); la tensione è rilevata da figure quali l’allitterazione Rhamnete reperto con exsangui in enjambement, il chiasmo con allitterazione primis una / caede peremptis, con tot a fare da tragico perno in contrasto con una, l’ipallage tepidaque recentem caede locum, il nuovo chiasmo con allitterazione plenos spumanti sanguine rivos.
Sorge una nuova alba, descritta in tre versi pieni di luce e di colore (croceum, detto non di Aurora ma del letto nuziale) dopo la lunga notte oscura. Tutto è definitivamente scoperto: Turno prepara l’assalto e sono poste su delle lance fra le grida dei nemici le teste dei due giovani, i cui nomi costituiscono l’emistichio di un verso lasciato incompiuto. I Troiani si dispongono sulle mura, pronti alla difesa, quando vedono e riconoscono le teste dei compagni, descritte qui col gusto dell’orrido (atroque fluentia tabo) presente nel poema ad esempio nell’episodio di Polidoro. L’attimo del riconoscimento è espresso dal simul ma è preannunciato dal maesti, quasi un hysteron proteron: il dolore tocca entrambi gli eserciti.
vv. 473-502
Fama è personaggio ricorrente nel poema, a partire dall’ampia descrizione di IV, 174 segg.: porta notizie vere e false, ma soprattutto gode nel recare dolore. Qui vola per urbem, una definizione ben approssimata del fortino difensivo costruito in fretta all’approdo: ma lo scopo dell’autore è di mostrarci la madre di Eurialo come una tipica matrona romana, che all’alba è in casa a filare e tessere: radius è la spola del telaio, pensum la quantità di lana da filare, qui già raccolta in gomitoli che nel cadere si srotolano (revoluta). Le parole con cui la donna si rivolge al figlio dopo avere udito Fama ed essersi precipitata alle mura richiamano l’invettiva di Didone ad Enea, poiché per certi versi simile è il senso di abbandono che le due donne soffrono: Didone si percepisce come tradita, la madre di Eurialo vede inutile lo sforzo di aver seguito il figlio, una fra le pochissime donne dopo la divisione del quinto libro. Notiamo in particolare l’accumulo di pronomi e aggettivi possessivi (IV, 306 seg. mea, te, noster, te, IX 481 segg. hunc ego te, tune ille, meae, te e in seguito hoc mihi de te); crudelis in inizio verso a IV, 310 e IX, 483; il desiderio di morire (moribundam, IV, 323, e l’invocazione ai nemici e a Giove di IX, 493 segg.). Il raffronto è suggestivo: Didone parla ad un interlocutore presente, ancora potenzialmente convincibile, la madre al figlio morto senza più neppure la speranza di ricomporne il cadavere.
Non è solo la pietà a spingere Ilioneo e Iulo (il portavoce e il figlio del comandante, non i capi preposti alla difesa, vv. 171) a far allontanare la donna, pur presi anch’essi dal dolore: incendentem luctus (500) indica il rischio che distragga le guardie, in un momento cruciale. Due soldati la trasportano in casa e inizia la nuova giornata.
vv. 503-524
L’assalto alle mura non è più di un solo uomo in cerca di un possibile ingresso. Ora è un esercito organizzato a muoversi, al suono della tromba di guerra: at tuba terribilem sonitum imita l’enniano at tuba terribili sonitu che si completava con l’onomatopea taratantara dixit. Per primi sono citati i Volsci, il popolo di Camilla, ma probabilmente altri con loro compiono l’attività tipica degli attaccanti: distruggere le fortificazioni esterne, fossato e palizzata, stando coperti dagli scudi uniti sopra le teste (testudo). Osservano gli spalti per vedere dove traspaiono degli spazi vuoti (interlucet…corona) per rivolgere lì l’assalto: notiamo che quaerunt regge prima un oggetto (aditum) e poi una frase verbale (scalis ascendere muros). Ma i Troiani hanno vissuto dieci anni d’assedio, sono tristemente esperti nella difesa con proiettili e pertiche: il verso 511, quasi tutto di spondei, ha un ritmo pesante, a rilevare la fatica logorante dell’assedio. La testuggine regge per un po’, anche per l’impegno volontaristico dei soldati (iuvat); ma un masso più pesante la distrugge: stravit e resolvit costituiscono un hysteron proteron. Non viene più riformata: combattere caeco … Marte è ormai troppo gravoso; si passa alle armi da lancio, con lo scopo di allontanare dalle fortificazioni i difensori (pellere vallo).
I primi due protagonisti chiamati per nome: il terribile Mezenzio (horrendus visu) e il comandante in seconda Messapo. Il primo intende usare nuovamente il fuoco, il secondo rescindit vallum: può avere valore di conato visto che l’azione non ha immediato séguito.
vv. 525-589
L’inizio vero e proprio della battaglia è segnato dall’invocazione alle Muse, Calliope in particolare: alle dee il poeta chiede di immettere (è il senso di adspirate, “soffiate dentro”) nel suo canto stragi e uccisioni commesse da Turno; ma l’aristia di Turno avviene all’interno di una generale prodezza da entrambe le parti, di ogni altro guerriero pur non nominato (quisque); notiamo Orco dativo di moto a luogo. L’altra richiesta, oras evolvite belli, è una ripresa enniana (Ann. 174): propriamente oras evolvere indica lo srotolare a partire dagli orli i volumina, quindi il senso generale sarebbe “aprite insieme a me le grandi storie di guerra”. Ma “svolgete” riproduce bene immagine e senso.
Come al v. 68 classem, così turris apre il v. 529, vista anche qui con gli occhi di Turno come punto privilegiato da attaccare. E’ altissima, sorge all’esterno del fortino (“adatta per la collocazione”: per la difesa o per l’attacco?), collegata alle fortificazioni con ponteggi, difesa dall’alto e dalle feritoie: gli assedianti si affannano a scalzarla. Turno vi getta una fiaccola (non Mezenzio, di cui il poeta sembra scordarsi) e il legno della torre prende fuoco da un lato: notare l’assonanza haesit adesis del v. 536. I difensori all’interno si spostano in massa per evitare la parte incendiata, ma lo sbilanciamento fa crollare la torre che li travolge. Due versi e mezzo per descrivere la terribile caduta: fra il punto d’arrivo ad terram e il verbo veniunt si pone l’immani mole che precipita sopra di loro, le loro stesse armi che li trafiggono, i frammenti di legno che li trapassano nel petto (pectora acc. di relazione o retto dal preverbo trans-).
Due soli fra i difensori cadono all’esterno: elapsi ha letteralmente questo significato, ma può anche significare “sfuggirono” alla morte immediata. Tuttavia per la posizione della torre finiscono in mezzo ai nemici, fuori del fortino, isolati dai compagni. Di uno Virgilio ci accenna la storia: così succintamente e ambiguamente che ha dato adito a molte interpretazioni:
Elenore, un garzone / già sotto Troia a militar mandato / furtivamente (Caro)
Era Elenore un fanciullo / che una schiava, Licinia, avea mandato / furtivamente alla troiana guerra (Vitali)
Il giovinetto Elenore che dato / Licimnia schiava aveva al re Meonio / e, d’armi infauste adorno, a Troia spinto (Bacchielli)
Il fresco Elenore, che al lidio / re di furto allevò Licimnia schiava / ed il mandò con vietate armi a Troia (Albini)
D’età giovanile, il primo, / figlio illegale d’un re della Lidia, Licimnia, una schiava / volle mandarlo a Troia con armi a lui interdette (Vergara)
Il primo, nato dall’amore illegittimo / di una schiava Licimnia col re della Meonia / era stato mandato alla guerra di Troia / dalla madre, sebben non ne avesse diritto (Vivaldi)
Di questi, giovanissimo Elenore, / che al re Meonio la serva Licimnia, furtiva, / aveva rapito, a Troia con armi proibite mandandolo (Calzecchi Onesti)
Qual è la storia? Anzitutto è in questione sustulerat: il verbo può riguardare una nascita, ma solo se è riferito al padre, per il gesto di alzare da terra il bambino legittimandolo; e non ha mai il senso di “allevare”, se non come conseguenza del gesto di legittimazione. Quindi non può essere riferito in tal senso alla madre, tanto meno illegittima. Dovrebbe allora significare qui “sottrarre”, con il consueto dativo, e furtim indicare la modalità di questa sottrazione, non l’amore o la crescita nascosti. Ma che rapporto ha con Elenore, il cui nome, corradicale sia di Elena sia di Eleno, indicherebbe un’origine illustre, la schiava? e perché è lei a mandarlo a Troia? Dobbiamo intendere vetitis…armis nel senso che al giovane era stato proibito dal re, probabilmente suo padre, di andare in guerra: per un oracolo? forse l’“infauste” di Bacchielli sottintende appunto questo. Viene in mente la vicenda del figlio di Creso Ati narrata da Erodoto nel primo libro delle Storie, destinato a morire per un colpo di lancia e tenuto chiuso dal padre nella reggia, fino alla tragica morte durante la caccia: oltre tutto Creso è mitico re di Lidia, come Lidio (dovrebbe significare questo Meonio) è l’anonimo re della storia. In tal caso è il giovane a voler partire di nascosto dal padre, e la schiava (probabilmente non sua madre) lo aiuta a fuggire, non quindi rapendolo ma sottraendolo. Per l’ironia dell’oracolo non muore a Troia, ma il destino lo raggiunge nel Lazio. Notiamo che Annibal Caro prudentemente riduce al minimo la storia (poco più ampiamente anche Vitali), dilungandosi poi nel descrivere le armi, mentre Vivaldi, secondo il solito, interpreta e completa a modo suo.
E’ comunque strano che dopo la militanza a Troia, pur breve se è tuttora primaevus, Elenore non abbia meritato armi più adatte ad un guerriero: la spada priva di guaina e lo scudo senza insegna all’inizio potevano indicare un principe non mandato ufficialmente dal padre (qualcosa di simile all’Ivanhoe di W.Scott), ma ormai avrebbe dovuto superare l’handicap (inglorius) iniziale. Evidentemente Virgilio vuole presentarci un personaggio sfortunato, in grado tuttavia di reagire con dignità di fronte alla morte certa. La similitudine del cinghiale in mezzo ai cacciatori riprende Il. XII, 41 segg., ma il tertium comparationis è diverso: nel testo omerico è il coraggio di Ettore che attacca i Greci presso il muro provocandone l’arretramento, mentre qui si tratta del disperato coraggio del giovane che si precipita contro le lance nemiche per morire.
L’altro superstite, Lico, tenta di fuggire e di risalire il muro raggiungendo le mani tese dei compagni; ma Turno lo coglie, prima colpendolo e poi strappandolo dal muro che si sgretola insieme a lui. Le mani sono il Leitmotiv della scena: manu Lico cerca di aggrapparsi, dextras protendono i socii, manus sono quelle di Turno da cui, folle, sperava di sfuggire, come ferocemente lo insulta il nemico. Questa volta la similitudine non è a favore del vinto, assimilato alla lepre, al cigno, all’agnello, mentre Turno è l’aquila di Giove, o il lupo di Marte.
La fine della torre e dei suoi ultimi difensori provoca un sommovimento generale: gli assedianti si precipitano a riempire le trincee e a gettare fiaccole. La battaglia si accende da entrambe le parti, con un convulso elenco di uccisori e uccisi. Di alcuni Virgilio segue la sorte: un latino, Priverno, colpito da una lancia lascia cadere stoltamente lo scudo, nell’istinto di toccare la ferita: ma il troiano Capi gli inchioda con una freccia la mano al fianco, penetrandolo fino ai polmoni. L’altro è un giovane siciliano: spicca fra tutti perché fornito di armi eccellenti, di abiti eleganti e bell’aspetto: con una variatio molteplice pictus è costruito con l’accusativo di relazione, “dalla clamide ricamata”, clarus con l’ablativo di causa, la rara e costosa porpora spagnola, insignis con l’ablativo di limitazione. Virgilio insiste su questo giovane un po’ dandy, che non ha nome ma, in opposizione alla storia di Elenore, è stato mandato dal padre ad accompagnare i Troiani, è equipaggiato di tutto punto ed ha un preciso background: è cresciuto nel bosco di Marte (varia lectio, forse facilior, matris), presso il fiume Simeto e l’altare dei mitici gemelli Palici. Il v. 585 riprende VII, 764 riferito a Diana, e questo è probabilmente il motivo del singolare Palici nello stesso spazio metrico di Dianae. A ucciderlo con un colpo di fionda è Mezenzio, e l’imponenza del giovane viene ripresa dall’indicazione dell’ampio spazio occupato dal cadavere (multa porrectum extendit harena): l’elegante anonimo viene descritto, si direbbe, solo per morire, poiché di lui non abbiamo alcun gesto, soltanto l’apparenza che lo ha reso cospicuo e gli ha attirato la morte.
vv. 590-671
L’episodio che segue è uno dei più complessi del poema. Apparentemente è l’aristia del giovane capo, Ascanio, finora solo cacciatore, ante feras solitus terrere fugaces; e già l’accenno alle sue imprese di caccia lascia perplessi, perché solleva il ricordo dell’uccisione del cervo, causa immediata della rivolta latina nel VII libro. Ma la scelta del primo – unico come si vedrà- bersaglio è strana. Certo il latino Numano / Remulo è presentato come orgoglioso della recente parentela, tracotante e tronfio nel muoversi, schiamazzante nelle provocazioni, insomma una figura sgradevole, tale da attirarsi l’ira del giovane. Eppure nel vociferare digna atque indigna dà un’immagine delle antiche popolazioni italiche che richiama il genus acre virum di cui ci parla Virgilio stesso nell’elogio dell’Italia delle Georgiche: cfr. i suggestivi vv. 603-613 con Georg. II 167 segg.e con l’immagine dell’età di Saturno alla fine dello stesso libro. Anzi nelle Georgiche non si tratta genericamente di elogiare gli italici, ma Marsi, Sabelli, Liguri, Volsci, e più avanti Sabini ed Etruschi: popoli che confluiranno nello stato romano, ma nell’Eneide –alcuni almeno- sono il nemico. E d’altra parte l’immagine degli orientali eleganti ed effeminati dei vv. 614 segg. faceva parte della propaganda romana ai tempi di Azio. Numano ricorda un po’ l’omerico Tersite che dice ad Agamennone la verità ma viene punito da Odisseo che pure la pensa allo stesso modo, o Drance nel successivo libro XI. E l’autore è come se si sdoppiasse, presentando due punti di vista.
Certamente gli dèi sono dalla parte di Ascanio. Il giovane è presentato fermo nel gesto di tendere l’arco con la freccia incoccata, rivolto contro il bersaglio: prega Giove promettendogli un giovenco bianco dalle corna indorate, alto già come la madre e pronto alle battaglie. Giove appoggia la preghiera con un tuono propizio (dal cielo sereno a sinistra), ma Ascanio non attende il consenso del dio: la freccia è scoccata contemporaneamente (una) dall’arco fatifer: “mortifero”? o bisogna rilevare maggiormente la componente del fatum? L’elogio di Apollo apre al futuro, rappresentato e come garantito dal giovane con la sua prima prodezza: dis genite et geniture deos, chiasmo con doppia allitterazione e doppio poliptoto, ne accentua l’origine divina con un generico plurale e ne preannuncia in modo altrettanto generico la stirpe, destinata per fato a porre fine a tutte le guerre future: fato è in forte posizione centrale, preceduto o seguito da cesura. Quasi in risposta all’antiorientalismo dell’ucciso, il dio profetico sembra dire che se Ascanio è un troiano per discendenza da Assaraco e reagisce all’offesa del suo popolo d’origine, la partenza da Troia gli ha aperto una meta diversa e più grande (nec te Troia capit): un ambito che riunirà senza più guerre popoli diversi.
Del tono solenne del dio fa parte anche la non frequente forma macte costruita con l’ablativo nel senso di bravo per, o di evviva! Ma è evidente che Ascanio non ode l’elogio; anche se il dio adfatur Iulum, è improbabile che dall’alto delle nubi raggiunga con la voce il giovane, per poi raggiungerlo in altro aspetto subito dopo (simul): quindi l’elogio / profezia resta sospeso e inascoltato. Direttamente gli appare nelle sembianze del vecchio Bute, già scudiero (armiger) e custode della casa di Anchise, ora per Ascanio una sorta di precettore / guardiano. In due versi, il primo dei quali (644) ipermetro, è descritto con una serie di accusativi di relazione che specificano l’omnia …similis, e poi adfatur Iulum: stesse parole alla fine dei vv. 640 e 652, ma questa volta si fa udire. Chiamandolo col raro patronimico Aenide, gli conferma il consenso di Apollo, cioè di se stesso, all’impresa ottenuta con arco e freccia, le armi del dio, non solo dei più giovani guerrieri; ma lo esorta a rinunciare alla battaglia. Prima ancora di terminare (medio…sermone) svanisce svelandosi come dio e facendo risuonare dardi e faretra. Il compito di allontanare il ragazzo è lasciato ai capi che hanno riconosciuto il nume: avidum pugnae…Ascanium prohibent, con la doppia allitterazione alternata, ha probabilmente pugnae in dipendenza ἀπὸ κοινοῦ da avidum e (poeticamente al dativo) da prohibent. Ιmmediatamente dopo (con la cesura semiquinaria come cerniera) viene rinnovata da parte degli adulti la battaglia, rimasta in certo modo sospesa. Le due similitudini meteorologiche che occupano i vv. 667-72 rilevano l’abbondanza e il fragore delle armi: in particolare Haedi (“capretti”) sono stelle della costellazione autunnale dell’Auriga.
vv. 672-755
L’archetipo dell’episodio seguente si trova nuovamente nel XII dell’ Iliade, vv. 127 segg.,durante l’attacco dei Troiani al campo greco. Davanti all’ultima porta che si apre nel muro a protezione delle navi vi sono due guardie appartenenti al medesimo popolo, i valorosi Lapiti: sono paragonati ad alte querce profondamente radicate nei monti. Anche davanti alla porta del fortino troiano vi sono due guerrieri, fratelli nati e cresciuti sul monte Ida, paragonati agli alti abeti e ai monti della patria: o forse dobbiamo intendere abietibus …patriis et montibus aequos come un’endiadi, “pari agli abeti dei monti patrii”. La situazione però è diversa: in Omero i due Lapiti guardano l’unica porta del campo lasciata aperta perché vi si possa rifugiare, e il loro compito è impedire che anche i nemici vi penetrino; in Virgilio i due fratelli guardano una porta che deve restare chiusa, per gli ordini lasciati da Enea, ducis imperio commissa: la aprono e vi fanno entrare il nemico.
E’ difficile dire come il poeta interpreti la disobbedienza dei due guardiani. Nuovamente sono descritti come due alberi, questa volta querce come il modello omerico ma osservate, con gli occhi del poeta, nella pianura padana: e come nel modello stanno forti contro i nemici, che però qui hanno invitato ad entrare. All’inizio la manovra sembra efficace: i primi ad accorrere vengono respinti o uccisi. Ma l’esempio di Pandaro e Bizia è seguito dagli altri Troiani, anch’essi spinti a violare gli ordini: si ammucchiano (glomerantur) tutti sulla soglia o la varcano (procurrere longius) per combattere corpo a corpo (conferre manus). E’ un caso che uno dei fratelli si chiami Pandaro, come il troiano che nel IV libro dell’Iliade ha violato la tregua ingannato da Atena? Virgilio, che nel V libro ha ricordato quel Pandaro chiamandolo clarissime (“famosissimo?”) e definendo iussus lo stolto credulone omerico, su questo Pandaro e sul fratello non commenta. Certo entrambi gli episodi hanno un effetto nello sviluppo dei poemi: senza di essi vi sarebbe una situazione bloccata.
Turno si era allontanato, ma la notizia dell’apertura della porta lo fa accorrere: il v. 687 ha cesura dopo l’aggettivo nova (nov-et) che introduce la particolarità della notizia: il combattimento è mutato. Il secondo emistichio ha tre parole in allitterazione della p-, che in genere indica disprezzo: è un giudizio sul nemico che apre la porta, anzi la offre?
Il primo bersaglio è colpito da Turno ancora da lontano, con un giavellotto fatto di legno italico: è il figlio illegittimo di una nativa di Tebe Ipoplacia (in Misia, la patria di Andromaca) e del licio Sarpedone, uno dei più importanti alleati troiani nell’Iliade. Il poeta descrive la ferita come una grotta da cui sgorga un torrente: ma la frescura connessa all’immagine tradizionale della fonte è sostituita dal riscaldarsi dell’arma all’interno del corpo. Uno dei due guardiani, Bizia, viene ucciso anch’egli con un’arma da lancio, ma con la falarica, pesante proiettile in genere gettato con una catapulta: il particolare mette in rilievo sia la forza di Turno, sia la possanza dell’ucciso, entrambe fortemente rilevate da una folla di particolari e dalla similitudine con il getto a precipizio di una piattaforma di pietra nel golfo di Napoli, ben noto al poeta. Baia, famosa come località turistica, è detta euboica perché la vicina Cuma era colonia dell’Eubea; le isole coinvolte nello sconvolgimento del mare sono Procida (Prochyta) e Ischia (Inarime, reinterpretazione scorretta dell’omerico ἐν Ἀρίμοις, “nel paese degli Arimi”, dove si sarebbe svolta la lotta fra Zeus e Tifeo).
Marte interviene infondendo coraggio ai Latini e introducendo contro i Troiani i suoi satelliti, Fuga e Timor. Benché più volte nominato nel poema, finora non era intervenuto parteggiando per un popolo: la scelta dei Latini contro i Troiani è molto strana, perché nell’Iliade Ares, coi satelliti Deimos e Phobos (“Paura” e “Timore”, nomi passati ai satelliti del pianeta), sostiene i Troiani, al punto di combattere con Diomede ed esserne ferito. Due volte nel poema omerico Atena lo rimprovera di aver tradito e cambiato campo a favore dei Troiani (V, 830 segg. e XXI, 412 segg.), senza chiarirne il motivo: certo il dio della guerra è l’unico a parteggiare privo di una storia pregressa di rancori o affetti, anzi di una storia del tutto. Per questo forse Virgilio può affidargli un ruolo che sembra un nuovo tradimento, un doppio gioco: o forse perché la guerra è un tradimento di per sé.
Pandaro vede che il fratello è morto e pensa che fortuna e casus siano contro di loro. Con una nuova improvvida decisione, questa volta qualificatodal poeta come demens (v. 728), richiude la porta, lasciando molti compagni fuori e chiudendo dentro, senza accorgersene, Turno. Fra i due si svolge un duello, d’insulti e di colpi, ma un duello impari perché Giunone interviene a deviare la lancia di Pandaro, un’arma eccezionalmente rozza e non levigata come fuori del comune sono i due fratelli dell’Ida. Con un’espressione ardita, Virgilio dice che la dea volnus…detorsit, “deviò la ferita” (vv. 745-6) per “deviò la lancia evitando la ferita”. Turno però pensa ad un errore del nemico e nel vibrare il colpo dichiara di essergli superiore perché non sbaglierà: neque enim is teli neque vulneris auctor, “infatti non è tale (come te, o tale da sbagliare, o tale che tu sfugga)…”: espressione concitata, non facilissima da intendere e da tradurre, per il valore di is e per la reggenza da auctor sia di teli sia di vulneris. Di nuovo il gusto dell’orrido: la spada di Turno taglia a metà la testa di Pandaro, e le due metà si appoggiano ai due lati delle spalle. Stranamente, dopo l’insistenza sulla grandezza e la forza smisurata dei due fratelli, un tratto delicato: Pandaro è ancora un ragazzo, le guance sono ancora impubes, guance da adolescente, imberbi.
vv. 756-818
Ancora una follia, questa volta di Turno (furor…insana cupido). Allo sbandarsi dei nemici, sgomenti per l’orribile morte di Pandaro, avrebbe dovuto aprire le porte dall’interno ai compagni: i Troiani sarebbero finiti e con loro la guerra, ultimus ille dies bello gentique fuisset. Non lo fa: la brama di uccidere è eccitata da Giunone stessa, che già l’ha difeso da Pandaro dandogli l’illusione dell’invincibilità. E in effetti uccide sia fuggiaschi, utilizzando anche le loro armi, sia difensori che sulle mura non si accorgono della sua presenza, sia chi osa opporsi e incitare i compagni; di alcuni il poeta ci dice qualcosa di più: Amico che cacciava e sapeva avvelenare le frecce, Creteo che intonava sulla cetra carmi epici.
Finora non si è fatta parola dei capi preposti alla difesa, Mnesteo e Seresto, lasciati da Enea con questo incarico. Ora si accorgono della presenza di Turno e della strage di compagni in fuga. Fra i due è Mnesteo a prevalere, come già nel consiglio dei capi e in seguito nell’attacco a Turno. Richiama i Troiani palantis (v.780) mettendoli di fronte alla realtà: Unus homo è Turno, in campo nemico, chiuso e cinto dai nemici. Ricorda l’impegno verso l’antica patria perduta, i Penati, Enea: pietà e vergogna insieme (polisindeto: miseretque pudetque) dovrebbero farli rinsavire.
I Troiani si ricompattano, assalgono uniti l’unico nemico. Turno, paragonato ad un leone incalzato da una folla di cacciatori, si sposta lentamente verso il fiume che chiude l’unico lato del forte non cinto da mura; ma a malincuore, perché vorrebbe ancora combattere. L’intervento di Iride chiude il libro come l’aveva aperto: questa volta è Giove a mandarla da Giunone perché cessi di aiutare e incitare Turno: gli haud mollia iussa contengono implicita una minaccia, apodosi sottintesa della protasi espressa: se Turno non se ne va dal campo troiano…
E infine Turno si getta nel fiume: il Tevere, che era stato cortese con Enea nel libro VIII, accoglie benevolo anche il suo avversario (mollibus…undis) e lo rende sano e salvo (laetum) e purificato del sangue sparso (abluta caede) ai compagni.
(Giulia Regoliosi, aprile 2017)
Uno dei tanti approdi virgiliani al senso compiuto della “pietas”. Una intuizione religiosa che solo apparentemente mette al centro l’uomo – il “pius” e il rispettivo nemico – data la ricorrente immagine dell’eroe sottomesso ai giochi bizzarri dell’Olimpo divino o, meglio, all’ineffabile forza del Fato.
La comprensione del volere del Fato sembrerebbe essere l’unica forma di conoscenza di sè concessa all’eroe. Per questo nella parola “destino” (fatum) si perde quella centralità di cui sopra, se è vero che nel libro decimo, non meno che in altri, la sottomissione designa la cifra di un eroismo divino ed umano insieme, capace di imparare l’obbedienza da ciò che ha sofferto, disposto ad aprirsi alla novità che irrompe sui passi della vita: “fata viam invenient”. (1) Nel proprio destino Enea riconosce se stesso, ovvero “si conosce” come uomo chiamato ad un instancabile patire, e, nella fattispecie del libro in questione, come pellegrino non più preda esclusiva del mare, bensì anche della guerra che infuria nel campo latino e minaccia la gente troiana. In questo senso è importante stabilire il grado di conoscenza di sè che l’eroe possiede – quanto Virgilio lo renda consapevole della famosa “missione” – per evitare di ridurlo ad un fantoccio nelle mani della Fortuna, ora che il semidio è chiamato a misurarsi da vicino con l’efferatezza della guerra. Proprio a questo punto della narrazione Virgilio ha calcolato quanta forza, ma anche quanta pietas, “abitino” il suo personaggio.
Quando sul campo di battaglia sboccia la tenerezza di Enea per Lauso, giovane figlio di Mezenzio, disposto a sacrificarsi per il padre, non possiamo evitare di farci dell’eroe l’immagine di uomo capace di conoscersi, di sorprendersi emotivamente turbato, di entrare con libertà nei propri sentimenti fino a rievocare commosso l’immagine del figlio Ascanio, così somigliante al giovane ferito che gli sta innanzi: “ … e il cuore gli strinse l’immagine del suo amore di padre” (… Et mentem patriae strinxit pietatis imago). (2)
A tutto ciò s’aggiunge la fiera certezza di essere un grande eroe: “ Ma una cosa, infelice, consoli la misera morte, che per la destra del grande Enea cadi” (Hoc tamen infelix miseram solabere mortem; | Aeneae magni dextra cadis). (3)
Sempre per smentire la centralità dell’eroe, Virgilio ne attesta l’eccentricità (ex centro), cogliendolo nell’atto di occuparsi di “altro”- si china pietoso sul giovane Lauso – e dimostrando di voler creare un personaggio totalmente umano, se è vero che la più autentica umanità è quella dell’uomo “eccentrico”, colui che dalla propria labile “periferia” (usiamo ovviamente il termine in accezione metaforica) muove verso il Centro, là dove sono il dio, il destino, la perfezione.
Ma se l’episodio drammatico di cui sopra sembra essere la conferma dell’ideale che muove l’eroe, la prima sezione del libro lo inquadra al contrario come mero oggetto delle tante ed inutili controversie divine.
Venere si esibisce prendendo le difese del nipotino Ascanio, ma Giunone, che non è da meno, ingombra la scena reclamandone il primo piano, intenzionata com’è a dare una mano a Turno.
Mentre le sorti dell’eroe trascorrono di bocca in bocca, il solo Giove mostra la volontà di porre fine alla contesa: nel concilio dei Celesti egli protesta perchè gli dei partecipano alle ostilità e, deplorata la lite delle dee, stabilisce che non si parteggi per nessuna delle due fazioni: il volere del fato si farà strada da solo. (4)
Due differenti piani della narrazione dunque: quello divino, segnato dalla contesa tra Giunone e Venere, e quello umano, ovverosia la risposta di Enea agli interrogativi del proprio destino, che sembra non aver escluso la sua attiva partecipazione alla guerra. Così, intanto che la madre Venere ne perora la causa presso il re e la regina degli dei, Enea, da parte sua, non perde tempo e raccoglie sagge alleanze. Mentre attorno al campo troiano si combatte accanitamente, l’eroe sul far della notte si mette in viaggio in mare per rientrare nella zona del combattimento insieme agli Etruschi di Tarconte, suoi alleati. Giunto al mattino in prossimità della costa, Enea alza lo scudo di fronte all’accampamento assediato dei Troiani: si spande un riflesso accecante simile alle comete color sangue che si infiammano in limpide notti, o alla vampa dell’astro di Sirio, foriero di pestilenza per I miseri mortali quando segna il cielo di una luce sinistra.
Sulla battigia la mischia è già accesa: da entrambe le parti si registrano numerose perdite e lo scontro è simile a quello dei venti di ugual potenza che cozzano instancabilmente senza che nessuno si arrenda.
Gli dei stanno a guardare: di fronte all’infuriare di una guerra inizialmente senza vinti e vincitori, sotto lo sguardo attento del Padre Giove, esprimono dolore e pietà per le sorti di entrambi gli eserciti, soffrendo per un pezzo di umanità che si consuma nel conflitto.
Ma Turno è sicuro e sprezzante; a lui non viene meno la fiducia, se è vero che ha la forza di spronare i suoi con tanta audacia: “ … è Marte stesso in mano dei forti … Fortuna aiuta chi osa”. (5)
Enea, dal canto suo, certo della propria origine divina, ci appare come colui che rincorre nobili mete, si ciba di grandi speranze, perchè grandi sono i desideri che lo muovono, ispirati e voluti dal Fato; così, mentre Turno mira a consolidare un potere e a riprendersi ciò che è suo, gli dei assistono a questa gara umana che il Padre degli dei fin dall’inizio ha posto sotto l’egida della Fortuna: “ … Le proprie imprese a ciascuno travaglio o fortuna daranno. Giove è re uguale per tutti. (6)
Spicca la figura di Pallante, figlio di Evandro ed emulo della gloria paterna: con il suo esempio di valoroso egli incita al combattimento: un grande ardore si impadronisce allora della schiera, simile all’incendio che si propaga d’estate nel bosco.
Ma due sono i giovani che si segnalano rispettivamente nei due opposti schieramenti: Pallante, già menzionato, e Lauso: essi, per volere della sorte, non si scontreranno mai direttamente.
Pallante affronta Turno colpendolo alla spalla, ma Turno uccide ben presto il giovane arcade trapassandone lo sterno. Dopo l’uccisione dell’avversario, il capo dei Rutuli è attirato dal bel cinturone d’oro, il famoso balteo, che reca incisa la strage di tanti giovani nella prima notte di nozze per mano delle Danaidi. Avrebbe fatto meglio a non prenderlo – commenta l’Autore – ma la mente umana è ignara del destino che l’attende e nel successo non ha il senso della misura: “ nescia mens hominum fati sortisque futurae | et servare modum, rebus sublata secundis!” (“O ignara del fato mente umana, e della sorte a venire | e di serbar la misura, quando il successo l’esalta!”). (7)
A questo punto mette conto osservare che Pallante, speranza del padre Evandro, affronta per dovere un compito più grande rispetto alle proprie forze. Indimenticabile, a questo proposito, la reazione di Ercole e di Giove. Alla preghiera di Pallante Ercole reprime un sospiro d’angoscia, perchè sa che per il giovane è giunta l’ora segnata dal destino. A sua volta Giove conforta il figlio Ercole, rammentandogli che per ogni uomo è decretato il giorno della fine: solo il valore può prolungarne la fama oltre la morte!
Altrettanto ricco di pathos risulta l’episodio della morte di Lauso, giovane anch’egli, ma sofferente per la cattiva fama del padre Mezenzio, e tuttavia disposto a mettere a repentaglio la propria vita pur di evitare il pericolo al padre. Lo stesso Enea capisce che il giovinetto pretende troppo dalle sue forze, tanto che cerca di allontanarlo. Lauso insiste ed Enea lo uccide; ma poi lo commisera e gli concede l’onore delle armi.
Il gesto di Enea che uccide e poi prova pietà, lungi dall’essere esclusivamente prova della crudeltà della guerra, è soprattutto dimostrazione della complessità di un eroe che si muove tra I limiti imposti dalla “lex fati” e l’orizzonte culturale del lettore romano fruitore del testo di Virgilio. E’ spudoratamente “romano” scagliare l’asta in segno di vendetta, ma è profondamente “pio” chinarsi sul capo del nemico ferito fino a commuoversi. Enea, inizialmente colpito dalla pietà filiale del giovane Lauso, lo invita a desistere e, solo davanti all’insistenza di quello, lo colpisce uccidendolo. La morte del nemico dunque, per l’eroe troiano, non è motivo di orgoglio e trionfo, bensì di dolore, a tal punto che con sgomento paterno rilegge l’immagine del proprio figlio Ascanio in quella giovane vita prossima a spegnersi. Resta in lui la sensazione di sogni di gloria infranti, ma una tale percezione è tutt’uno con la pietas. Qui Virgilio ha voluto ritoccare la figura del suo eroe, il “pius” che non può sottrarsi al proprio destino, ma che, nello stesso tempo, non è indifferente a quello tragico di un giovane: la fine di Lauso pertanto sembra indurlo ancora una volta a interrogarsi sulle ragioni che presiedono al volere divino.
Poco lontano Mezenzio, dopo il nobile discorso rivolto al cavallo Rebo, trova la sua fine, ignobilmente buttato a terra dallo stesso cavallo che gli è rovinato addosso. Eppure quest’uomo, nel suo gigantesco furore, nemico degli uomini e degli dei, riconosce alla fine le proprie colpe e chiede di essere sepolto accanto al figlio: ciò lo riscatta, conferendogli un tratto di profonda umanità.
Curioso anche il fatto che Pallante e Lauso, entrambi bellissimi e di età quasi uguale, non vengano mai a battaglia tra loro: Giove non permette che si scontrino perchè il fato li destina a nemici più forti, rispettivamente a Turno e ad Enea. A questo proposito mette conto citare il commento di Gian Biagio Conte in merito al valore del “balteo” di cui Turno si appropria: egli sottolinea un tipico aspetto della sensibilità virgiliana, ossia la partecipazione dolorosa al destino di morte dei giovani guerrieri: “ Se nelle figure di eroi giovinetti va riconosciuta una delle più importanti invenzioni letterarie di Virgilio, la figura di Pallante è certo quella che più integralmente e più intensamente ha conosciuto il sentimento del suo poeta. Nel suo caso, più compiutamente che in altri, il motivo della “mors immatura” raggiunge la profondità della tragedia. Quando egli appare sulla scena di battaglia, è quello il suo primo giorno di guerra, il suo battesimo delle armi. Il coraggio lo trascina a combattere con ardore, il successo e la vittoria lo entusiasmano e gli danno la sicurezza della gloria. Ma all’improvviso, sotto la lancia di Turno, si chiude la sua “aristìa” (amore per le imprese gloriose); la morte stronca la bella illusione della vittoria. La superiore forza di Turno rende vana la confidente speranza che il coraggio basti a vincere. … E proprio a sigillo dell’episodio in cui il giovane muore, Virgilio non mancherà di sottolineare la tragica collusione delle circostanze che dello stesso giorno han fatto il suo primo giorno di guerra e l’ultimo suo giorno di vita”. (8)
Altra considerazione merita la vicenda di Lauso e Mezenzio, che ci riporta al tema dei differenti piani della narrazione – vita terrena e vita divina – permettendoci di ipotizzare che nel rapporto padre – figlio (Mezenzio/Lauso), così drammaticamente stigmatizzato nel frangente della guerra, si potrebbe leggere un rispecchiamento del dialogo “celeste” tra il padre Giove e il figlio Ercole. Brutalità e forza d’amore paterno convivono in Mezenzio, così come onnipotenza e lucida comprensione degli eventi albergano in Giove.
E ancora, se Ercole rappresenta la forza del dio pronto a sfidare l’impossibile nell’obbedienza al Padre dell’Olimpo, Lauso rivela a sua volta la bellezza di una gloria ricercata a costo della vita, senza per questo dimenticare I doveri della pietà filiale. Le due coppie si impongono all’attenzione. Diverso il rapporto di figliolanza: stirpe divina l’una, generazione terrena l’altra. Diverso l’esercizio della paternità: in Giove, pronto ad asciugare le lacrime di Ercole, si rivela nel far memoria della brevità del tempo della vita, il cui valore può essere accresciuto solo dalla gloria; in Mezenzio, naturalmente incline al furore e sprezzante degli uomini, si esprime in un gesto di amore filiale: alla fine egli riconosce le proprie colpe e chiede solo di essere sepolto vicino al figlio.
Ecco ciò che resta della gigantesca brutalità di un uomo. Indimenticabile l’immagine virgiliana che lo ritrae a colloquio con il cavallo Rebo prima di sostenere il duello con Enea: “ Rebo, a lungo, se a lungo dura qualcosa ai mortali (res si qua diu mortalibus ulla est), abbiamo vissuto. Oggi … o farai vendetta con me, o cadrai con me…” (9). Parole decisamente nobili, che presentano alcune affinità rispetto al discorso di Giove quando,con paterno coraggio, risponde all’Alcide: “ Fisso a ciascuno il suo giorno, breve e irrevocabile il tempo della vita per tutti: gloria allargar con le azioni, questo ottiene virtù”. (10)
(Simonetta Bigatti, 2016)
Note
1) ROSA CALZECCHI ONESTI, Eneide. Introduzione e traduzione con testo a fronte, EINAUDI editore, vs. 113
2) Ibidem, vs. 824
3) Ibidem, vss. 829 – 830
4) Cfr. nota 1
5) Ibidem, vss. 280 sgg.
6) Ibidem, vss. 111 sgg
7) Ibidem, vss. 501-502. Il balteo diverrà infatti per Turno causa di morte, perchè Enea, vedendolo, vendicherà la morte di Pallante con quella del capo dei Rutuli.
8) Cfr. GIAN BIAGIO CONTE, Virgilio. Il genere e I suoi confini, GARZANTI, Milano 1984
9) ROSA CALZECCHI ONESTI, Eneide, vv. 861 sgg. Passim 10) Ibidem, vv. 467 sgg. BIBLIOGRAFIA ROSA CALZECCHI ONESTI, Eneide. Introduzione e traduzione con testo a fronte, EINAUDI EDITORE C. VIVALDI, Eneide. Intruduzione e traduzione, EDISCO, TO 1981 GIAN BIAGIO CONTE, Virgilio. Il genere e i suoi confini, GARZANTI, MI 1984 R. FAVARETTO e AAVV, Libri e lettori. Epica classica, HOEPLI 2010 A. DIOTTI, A. MERONI, Liber libri, antologia latina, Ed. Scol. MONDADORI 2009
La varietas è la caratteristica più evidente del libro, che si realizza nei toni, che vanno dall’elegiaco all’oratorio, dal pacato al tragico; nelle sequenze, che alternano con sapiente misura descrizione, narrazione e dialogo; e nei personaggi, con l’opposizione tra il demagogo Drance e il fiero Turno, fino all’apice dell’eroismo tragico di Camilla, tradita dalla sua femminilità rinnegata.
Particolarmente significativa appare l’alternanza di parti descrittive o narrative e parti dialogiche: basti notare che poco meno dei 915 versi del canto sono costituiti da interventi diretti (circa 400, tra discorsi –di Enea, Drance, Venulo, Turno-, racconti di un narratore in seconda – Diana che racconta la storia di Camilla –, preghiere, etc.).
Tre sono le grandi sequenze in cui si articola il libro, e che si susseguono l’una all’altra in una trama avvincente: la tregua e i riti funebri per i caduti (vv. 1-224), il gran consiglio di guerra a Laurento (vv. 225-444), l’attacco di Enea alla città, la storia, l’aristìa e la morte di Camilla (vv. 445-915).
Nella prima parte (vv. 1-224) Enea innalza un trofeo con le armi sottratte a Mezenzio, incita i suoi a prepararsi all’assalto della città di Laurento, quindi esorta a compiere i riti funebri in onore dei caduti e in particolare di Pallante, che deve essere ricondotto al padre Evandro con un corteo di Troiani, Etruschi e Arcadi. Agli ambasciatori latini, giunti per chiedere una tregua per seppellire i morti, Enea rivolge parole di rammarico per la guerra scoppiata per la rottura dei patti da parte del re Latino, assentendo alla richiesta; Drance, il più anziano degli ambasciatori, risponde a Enea assicurandogli i propri buoni uffici per farlo alleato del re Latino, in mezzo a un generale assenso. La scena si sposta quindi a Pallanteo, dove la Fama aveva già portato la notizia della vittoria troiana e della morte di Pallante: tutta la gente esce dalla città per andare incontro al corteo funebre con le fiaccole, accendendo la campagna di una striscia luminosa; quando il feretro giunge alle porte della città, Evandro si getta sul corpo del figlio, lo abbraccia a lungo e, quando il dolore gli consente di parlare, pronuncia fra le lacrime parole commoventi. La scena si sposta di nuovo nei diversi luoghi in cui Troiani e Latini procedono ai riti dovuti ai compagni morti in battaglia. A Laurento, in particolare, dominano il pianto e la confusione: molti sono ostili a Turno e al conflitto, altri sostengono il giovane in ossequio alla regina Amata e per riguardo alla gloria militare del re rutulo.
Il tono della sezione è prevalentemente elegiaco e patetico: i sentimenti che dominano sono il dolore, la mestizia, la sofferenza e l’esasperazione per un conflitto evitabile. È suggerita dal poeta una riflessione sulle drammatiche conseguenze della guerra, che ha già imposto un pesante tributo di sangue sia ai Troiani che ai Latini.
Un’immagine significativa, in questo senso, è quella di Enea che, vittorioso (victor, v. 4), scioglie i voti agli dei per la vittoria sugli avversari e in particolare su Mezenzio, sebbene sia maggiormente preoccupato della sepoltura dei caduti e la sua mente sia turbata dal lutto (quamquam et sociis dare tempus humandis / praecipitant curae turbataque funere mens est, vv. 2 s.): la gioia per la sconfitta dei nemici passa in secondo piano rispetto alle curae della pietas e alla sensibilità verso il funus che la guerra inevitabilmente porta con sé. La guerra è accolta come luttuosa necessità, di cui pare emblema il trofeo realizzato con le armi strappate a Mezenzio, tra cui spiccano le rorantis sanguine cristas (v. 8), i tela…trunca (v. 9) e il bis sex thoraca petitum / perfossumque locis (vv. 9 s.). Lo stesso tono nel successivo discorso dell’eroe, che inizia sì con l’affermazione della grandezza dell’impresa compiuta, l’esortazione ad abbandonare il timore (Maxima res effecta, viri; timor omnis abesto, v. 14) e l’invito a preparare in cuore le armi e a pregustare la guerra con la speranza (arma parate animis et spe praesumite bellum, v.18), ma che presto vira sulla necessità degli onori funebri ai caduti, aggiungendo che questo è l’unico honos a valere negli inferi (v. 23), e sulla morte del valoroso Pallante, rapito da una morte prematura (quem non virtutis egentem / abstulit atra dies et funere mersit acerbo, vv. 27 s.). E il discorso, che dovrebbe essere incoraggiante e bandire dagli animi dei soldati il timore (ne…segnis…metu sententia tardet, vv. 19 ss.), è pronunciato dal dux tra le lacrime (sic ait inlacrimans, v. 29).
La mestizia domina, naturalmente, la scena delle esequie di Pallante; si noti, a livello lessicale, il ricorrere di termini afferenti alla sfera semantica della tristezza, del dolore e del pianto, in primis l’aggettivo maestus: al v. 26 maesta è la città di Pallanteo; al v. 35 maestus è, con bella ipallage, il crine delle Iliadi che eseguono il compianto rituale e, al v. 38 il loro pianto; al v. 52 maesti sono i Troiani che accompagnano la salma tributando un inutile onore (vano maesti comitamur honore), al v. 76 maestus è Enea che riveste il cadavere di Pallante (ora solo un miserabile corpus, v. 56), al v. 92 maesta è la falange di guerrieri che accompagna il feretro. A queste occorrenze si aggiungano quella di sostantivi e verbi indicanti pianto (gemitus vv. 37 e 95, luctus vv. 38 e 62, deflevit v. 59, lacrimae vv. 41, 62 e 96, lacrimans v. 90) e dell’aggettivo infelix (vv. 53 riferito a Evandro, 85 riferito ad Acete; al v. 32 nella litote non felicibus aeque riferito agli auspicia di Evandro ben diversi da quelli del figlio). E altri se ne potrebbero citare. La scena ha, al suo centro, la figura di Pallante ridotto a miserabile corpus, nella quale leggiamo la violenza della guerra che uccide la bellezza: Ipse caput nivei fultum Pallantis et ora / ut vidit levique patens in pectore volnus / cuspidis Ausoniae, vv. 39ss. e qualem virgineo demessum pollice florem / seu mollis violae seu languentis hyacinthi, / cui neque fulgor adhuc nec dum sua forma recessit: / non iam mater alit tellus virisque ministrat.
Se si mettono insieme gli indizi sparsi nei versi in esame, si può cogliere ancora una volta il pensiero di Virgilio sulla guerra e le sue conseguenze. Dopo la morte, l’onore non ha più importanza (l’unico onore che vale per i morti è la sepoltura, v. 23); Pallante, che nulla più deve agli dei celesti (nil iam caelestibus ullis / debentem vv. 51 s., che Servio ad locum spiega dicendo che i vivi appartengono agli dei superi e i morti agli inferi), è accompagnato in patria con un corteo che è solo un vanus honos (v. 52) e solacia luctus / exigua ingentis (vv. 61 s.) per il padre infelice, che forse al momento spe…captus inani (v. 49) fa voti agli dei di rivedere il proprio figlio. La guerra e la morte sono una crudele necessità (nell’Eneide imposta dai fata) che tronca fallaci speranze, che separa dagli dei celesti per consegnare agli dei inferi, che annulla ogni honos. Ai vivi rimangono le lacrime, come quelle di Etone, il cavallo di Pallante che piange la sorte del proprio padrone (post bellator ecus positis insegnibus Aethon / it lacrimans guttisque umectat grandibus ora vv. 90s., ricordo del pianto dei cavalli di Achille nell’Iliade; Virgilio presenta come maerens anche Rebo il cavallo di Mezenzio in X 860). La sostanza della guerra è sintetizzata nelle parole di Enea che chiudono la scena, pronunciate gemitu…alto (v. 95): “Nos alias hinc ad lacrimas eadem horrida belli / fata vocant…”.
Agli ambasciatori latini giunti per chiedere a Enea una tregua, il condottiero troiano risponde mestamente che vorrebbe (ma non può! Vellem v. 111) concederla anche ai vivi e che la sua venuta è stata determinata dai fata (nec veni, nis fata locum sedemque dedissent v. 112). Enea riconosce come responsabile del conflitto il re Latino, che ha infranto accordi di ospitalità già presi (rex nostra reliquit / hospitia vv. 113s.), preferendo affidarsi alle armi di Turno. L’incapacità di Latino di gestire con salda decisione il potere è, in più punti della seconda esade del poema, vista come causa del conflitto sul piano umano (su cui, comunque sia, si innesta il piano divino, con gli interventi di Alletto del libro VII). Il Troiano termina il suo discorso accordando la tregua ed esortando a cremare i miseri (!) cittadini (nunc ite et miseris supponite civibus ignem v. 119). Nei versi che seguono fa il suo ingresso in scena Drance, figura del demagogo subdolo e calunniatore, ignobilmente avverso a Turno (Tum senior semperque odiis et crimine Drances / infensus iuveni Turno): tale figura verrà ripresa ai vv. 220 ss. e campeggerà nel grande consiglio di guerra a Laurento ai vv. 336 ss.
L’azione si sposta quindi a Pallanteo, dove la Fama, tanti praenuntia luctus, investe Evandro, la sua dimora e l’intera città con la notizia della morte di Pallante, di cui aveva diffuso poco prima le vittoriose imprese. L’immagine con cui si apre la sequenza è toccante e incisiva: una lunga striscia di luce, costituita dagli Arcadi che escono con fiaccole dalla città per accogliere il corpo del loro principe, divide per ampia distesa la campagna e si unisce alle schiere in pianto dei Frigi (lucet via longo / ordine flammarum et late discriminat argos; / contra turba Phrygum veniens plangentia iungit / agmina vv. 143 ss.). Alla loro vista, le madri incendiano di urla la città; Virgilio non dice le donne, ma, con grande finezza, le matres: sono loro ad accogliere Pallante, orfano di madre, con grida di dolore. E se la campagna brilla per le fiamme delle fiaccole, la città, metaforicamente, brucia mesta per le grida delle madri (maestam incendunt clamoribus urbem v. 147). E in questo dolore bruciante nessuna forza può trattenere Evandro, che si slancia sul feretro del figlio e lo abbraccia a lungo senza riuscire a staccarsene (la forza del verbo latino haeret v. 150 è difficilmente traducibile), gemendo e piangendo (lacrimansque gemensque v. 150); e parla solo quando, a mala pena, il dolore dischiude una via alla voce. E il discorso di Evandro è ricco di umanità che diventa poesia, poesia del dolore di chi ha perso la ragione affettiva della propria esistenza: dal pensiero dolente per il fascino che Marte esercita sui giovani, al punto da renderli incauti (praedulce decus primo certamine v. 155) alla menzione delle preghiere inascoltate da tutti gli dei (nulli exaudita deorum / vota praecesque meae vv. 157 s.), dal ricordo della moglie, felice per avere evitato un tale dolore (tuque, o sanctissima coniunx / felix morte tua vv. 158 s.) al rammarico di non avere combattuto e persa la vita al posto del figlio, vincendo così i propri fati e rimanendo (mirabile è l’intensità dell’espressione) genitore superstite (contra ego vivendo vici mea fata superstes / restarem ut genitor vv. 160 s.). Il dolore di Evandro sembra trovare momentanea requie nella riflessione sulla sorte (sors ista senectae / debita erat nostrae vv. 165 s.), nella consolazione che il figlio, vittima di una immatura mors, è però caduto da eroe, e nel pensiero che, se Pallante avesse eguagliato Turno nell’età, anche il re rutulo ora sarebbe un tronco immenso tra le armi. Ma la conclusione del discorso è sconsolata, segnata da un dolore immedicabile: Evandro continua una vita che gli è odiosa (vitam moror invisam Pallante perempto v. 177) sol per ricevere la notizia della morte di Turno, che la destra di Enea gli deve, e portarla ai Mani del figlio. Altra gioia non chiede, perché non gli è lecito (non vitae gaudia quaero, / nec fas vv. 180 s.).
L’attenzione del poeta ritorna quindi presso Troiani prima e Latini poi, che, in punti diversi del teatro di battaglia, rendono dolentemente gli onori funebri ai caduti. È il sorgere di un nuovo giorno (siamo in uno dei dodici giorni di tregua), per gli uomini segnati dall’infelicità, un nuovo giorno di opera e labores. I Troiani bruciano, secondo il costume dei padri, i corpi dei caduti e bagnano di lacrime la terra e le armi (spargitur et tellus lacrimis, sparguntur et arma v. 191): la riva del mare si accende di roghi funebri e i compagni vegliano i corpi semiarsi dei caduti per tutta la notte, senza sapersene staccare, col bagliore delle stelle che sembra rispondere –si noti lo stesso participio aggettivale ardentis / ardentibus-, in un tacito mistero, al bagliore delle pire (Tum litore toto / ardentis spectant socios semustaque servant / busta neque avelli possunt, nox umida donec / invertit caelum stellis ardentibus aptum vv. 200-202). Il poeta sottolinea la comunanza nel dolore di Troiani e Latini, che miseri (v. 203) in un’altra parte del campo seppelliscono o bruciano i loro morti: alla riva del mare che risplende dei roghi dei Troiani rispondono le sconfinate campagne che brillano, a gara, di fuochi frequenti, in cui brucia un mucchio indistinto di cadaveri (tunc undique vasti / certatim crebris conlucent ignibus agri vv. 208 s.); tre giorni dopo, maerentes (v. 211), raccolgono la genere e le ossa dai roghi e le seppelliscono.
Gli ultimi versi della sezione rivolgono lo sguardo sulla città di Latino, invasa da un grande fragore e dal culmine massimo di un gran lutto (praecipuus fragor et longi pars maxima luctus v. 214): le famiglie dei combattenti (le madri, le spose infelici, le sorelle e i bambini privati dei padri) maledicono la guerra e le nozze di Turno, e vogliono che lui si misuri in duello con il nemico. Ritorna quanto detto da Enea all’ambasceria latina (his mecum decuit concurrere telis v. 117) e, con forma e spirito diverso, da Drance a Enea (quaerat sibi foedera Turnus v. 129). Torna in scena Drance che aggrava le accuse e conferma che Enea è disposto a scendere in duello col solo Turno; altri sostengono il re rutulo per la sua gloria militare e l’autorità di Amata che lo difende. La scena ha la funzione di presentare la divisione nella città di Laurento, per definire il contesto in cui nasce lo scontro tra Drance e Turno nel corso del consiglio di guerra e perciò renderlo più giustificato e comprensibile.
La seconda parte (vv. 225-444) è un susseguirsi di discorsi tenuti durante il consiglio di guerra a Laurento, che si svolge nell’atmosfera mesta creata dalla guerra e nel segno delle parole rivolte da Enea agli ambasciatori latini. I discorsi hanno un tono diverso: sereno e pacato quello di Venulo, che riferisce l’esito dell’ambasceria a Diomede; ponderato quello di Latino, che mira a sedare gli animi e a scongiurare il protrarsi del conflitto; velenoso quello di Drance, nutrito di astio personale nei confronti di Turno, e segnato da oblique e ingiuste accuse; fieramente risentito quello del re rutulo, che contrappone alla vile facondia del demagogo la consapevolezza del proprio valore guerresco.
I termini con cui il poeta indica la situazione della città, motus e tumultus (v. 225), fanno pensare agli sconvolgimenti di una discordia civile e completano il quadro delineato nei versi precedenti tramite termini quali maerentes (v. 211), fragor e luctus (v. 214). Il passaggio dagli onori funebri per i caduti al quadro della città segnata dalla sofferenza e dalla divisione e alla successiva assemblea a Laurento è molto fluido e naturale, artisticamente felice. Nella città sofferente e divisa in opposte fazioni arriva la notizia dell’esito negativo dell’ambasceria a Diomede: i vv. 225-233 sembrano indicare che le voci circa il rifiuto dell’eroe di partecipare alla guerra si spargono prima dell’assemblea a Laurento, e lo stesso re viene meno, risulta prostrato dall’enorme dolore (il v. 231 deficit ingenti luctu rex ipse Latinus, con la forza dell’aggettivo determinativo ipse riferito al rex –“persino il re, proprio il re” – e del verbo deficio, che indica un venire meno di fronte al compito, un essere inadeguati alla situazione in cui ci si trova, scolpisce l’inettitudine di Latino di fronte al proprio dovere di sovrano, causa non ultima del dilagare del conflitto). I Latini vedono in tutto questo un segno dell’ira deum (v. 233), che li ammonisce, insieme alla vista dei tumuli…ante ora recentes (ib.), a considerare Enea fatalis, portato nel Lazio manifesto numine (v. 232).
Il primo a parlare nell’assemblea dei maggiorenti latini, presieduta da Latino haut laeta fronte (v. 238) è, nel silenzio generale, Venulo. Nel discorso sereno di costui (vv. 243-295) è incastonato quello di Diomede, riportato in forma diretta. Se i versi introduttivi di Venulo sottolineano la statura eroica di Diomede, presentato come il distruttore di Troia (contigimusque manum, qua concidit Ilia tellus, v. 245) e il vittorioso fondatore di una città nel Gargano (Argyripam … / victor Gargani condebat Iapygis agris, vv. 246s.), con stridente contrasto il Greco, che pure parla placido ore (v. 251), ricorda la guerra di Troia come una sorta di nefas (si veda al v. 255 l’espressione Iliaco ferro violavimus agros), di cui hanno scontato la pena tutti i guerrieri, non solo con i dolori patiti sotto le mura di Ilio, ma anche con le sventure del ritorno in patria. Diomede riconosce la sofferenza come punizione della follia che lo spinse (il riferimento è al libro dell’Iliade dedicato alle gesta dell’eroe, in particolare ai vv. 334 ss.) ad attaccare gli dei: Haec adeo ex illo mihi iam speranda fuerunt / tempore cum ferro caelestia corpora demens / appetii et Veneris violavi (!)volnere dextram (vv. 275ss.); il ricordo della guerra di Troia è quindi per lui solo dolore (nec veterum memini laetorve malorum, v. 280). Il discorso dell’eroe termina in una celebrazione di Enea, possente per animo e armi quanto Ettore, ma a lui superiore in pietas, col quale Diomede esorta i Latini a concludere una pace (Coëant in foedera dextrae, / qua datur; ast armis concurrant arma cavete vv. 292 s.); queste ultime parole corrispondono perfettamente all’interrogazione con cui aveva aperto il suo intervento: “O fortunatae gentes, Saturnia regna, / antiqui Ausonii, quae vos fortuna quietos / sollicitat suadetque ignota lacessere bella? (vv. 252ss.) e possono essere accostate a quelle rivolte da Enea agli ambasciatori latini ai vv. 108 ss. (“Quaenam vos tanto fortuna indigna, Latini, / implicuit bello, qui nos fugiatis amicos?). Quindi, uno dei più celebrati eroi omerici ripensa al proprio passato, alla Guerra per eccellenza cantata da Omero, senza gioia, vedendola come una follia che ha meritato la punizione degli dei, e invita alla pace: un’altra decisa ed efficace presa di posizione di Virgilio contro i conflitti, che compromettono la quies degli uomini.
Le parole di Venulo provocano fremito e turbamento nei Latini (variusque per ora cucurrit / Ausonidum turbata fremor vv. 296s.). Placato questo rumoreggiare, rivolta una preghiera agli dei, Latino pronuncia il suo discorso in favore della pace (vv. 302-335): inizia con parole di rammarico per non avere deciso prima circa il bene pubblico (“Ante equidem summa de re statuisse, Latini, / et vellem et fuerat melius vv. 302 s.) e avere consentito che la situazione precipitasse fino a un bellum inportunum (v. 305), che ha portato ovunque la rovina che è sotto gli occhi di tutti (cetera qua rerum iaceant perculsa ruina, / ante oculos interque manus sunt omnia vestras vv. 310 s.); senza accusare nessuno e sottolineando il valore dimostrato in guerra, espone la proposta, nata da una mente dubbiosa (dubiae sententia menti v. 314), di assegnare ai Teucri un antico territorio di sua proprietà, siglando un patto e chiamandoli socii in regna (v. 322), o, qualora preferiscano partire, aiutarli ad allestire una flotta adeguata; infine propone che le migliori famiglie latine mandino cento ambasciatori a recare le proposte, con rami di pace, ricchi doni, la trabea e le insegne del regno. Raccomanda quindi all’assemblea di decidere per il meglio e soccorrere la situazione allo stremo (consulite in medium et rebus succurrite fessis v. 335).
Anche in questi versi viene sottolineata, con discrezione, da parte del poeta l’incapacità di Latino di ricoprire la carica di re: come allo scoppio della guerra, quando tutti pretendono una guerra nefanda contro i presagi e la volontà dei Fati che il re ben conosce (VII, 583 ss. Ilicet infandum cuncti contra omina bellum, / contra fata deum perverso numine poscunt), Latino inizialmente resiste come una rupe nel mare, salda contro i marosi, ma poi, incapace di dominare il caecum consilium del popolo (ib. vv. 591s.), si dichiara vinto dai fati (frangimur heu fatis v. 594) e, rifiutando una guerra empia, si chiude nel palazzo e rinuncia al potere (sepsit se tectis rerumque reliquit habenas v. 600). Anche nel passo in oggetto, quindi, Virgilio sottolinea l’incapacità di Latino di agire tempestivamente, da rex che tuteli il bene del proprio popolo (si veda l’attacco del suo discorso, con parole di sterile pentimento): addirittura la mens che concepisce la sententia è dubia! Il poeta sembra mettere in guardia dai pericoli di un potere fragile, in mano a chi si lascia dominare dagli eventi e non è in grado di perseguire il bene riconosciuto come tale. E il ricordo dei tumultuosi anni della fine della Repubblica, prima dell’affermazione di Ottaviano, può avere influenzato il poeta (così come anche per la figura del demagogo Drance, protagonista dei versi successivi).
Gli ultimi due interventi interpretano le avverse passioni che dominano l’assemblea (e l’intera città), soprattutto dopo il resoconto di Venulo e la proposta di Latino. Un rapido e incisivo ritratto di Drance (vv. 336-342) precede le parole dell’oratore e completa quanto già conosciamo sul suo conto dai vv. 122s. (vecchio ostile a Turno con odia e crimen) e 220s. (esacerba gli animi dei cittadini aggravando le accuse contro Turno): ostile a Turno per invidia della sua gloria (gloria Turni / obliqua invidia …agitabat vv. 336s.), ricco ed eloquente (anzi, più eloquente di quanto sia largo di mezzi: largus opum et lingua melior v. 338), ma inetto in guerra (sed frigida bello / dextera vv. 338 s.), stimato in assemblea una mente non futile (consiliis habitus non futtilis auctor v. 339) e potente nelle sedizioni (seditione potens v. 340). Un ritratto chiaroscurale, in cui gli elementi positivi (la nobiltà della stirpe materna, la facondia, l’intelligenza di consigliere) sono bilanciati, anzi schiacciati da altri negativi (l’oscurità della linea paterna, l’inettitudine alla guerra, l’infida invidia, l’ostilità al valore, lo sfruttamento della seditio).
L’intervento di Drance (vv. 343-375) va in direzione opposta di quello di Latino, nonostante il dichiarato favore alla proposta del re: con le sue parole Drance esaspera gli animi, aggiunge ira a ira (his onerat dictis atque aggerat iras v. 342), cogliendo l’occasione solo per mettere in cattiva luce l’odiato nemico. Di contro alle parole di Latino, quindi, che poco prima aveva celebrato il valore dei combattenti senza accusare nessuno (Nec quemquam incuso: potuit quae plurima virtus / esse, fuit; totum certatum est corpore regni vv. 312s.) per pacificare le passioni, Drance punta il dito contro Turno, lo considera l’unico colpevole e responsabile del lutto cittadino, propone a Latino di concedere a Enea la mano di Lavinia e infine invita il re rutulo, se non vuole cedere, ad affrontare Enea in duello. Il discorso è sapientemente costruito e risponde al fine di esaltare chi lo pronuncia e di fare convergere l’odio di tutti sul nemico personale: Drance si presenta, nonostante l’espressione di apparente modestia, come il paladino della libertà di parola, mentre tutti, pur sapendo che cosa richiede il bene pubblico, esitano a dirlo e si limitano a mugugnare (“Rem nulli obscuram nostrae nec vocis egentem / consulis…cuncti se scire fatentur, / quid fortuna ferat populi, sed dicere mussant vv. 343ss.); egli parla nonostante gli minacci armi e morte (dicam equidem, licet arma mihi mortemque minetur v. 348) colui che con il suo auspicium infaustum e i suoi sinistri mores (v. 347) ha sprofondato nel lutto l’intera città, sottraendo oltretutto il diritto di decidere per il meglio sull’assegnazione di Lavinia e sulle sorti della guerra al re e alla patria (ius proprium regi patriaeque remittat v. 359). Si noti che il nome dell’accusato viene ritardato fino al v. 363, mentre Turno nomina fieramente Drance sin dall’inizio (v. 378).
Le armi che Drance impiega per screditare Turno sono varie: il sarcasmo, nutrito di ingiuste accuse, allorché riduce l’assalto e l’irruzione nel campo troiano della fine del libro IX (vv. 691 ss.) a una provocazione fatta fidando nella fuga (dum Troïa temptat / castra fugae fidens vv. 350s.) e quando dice che atterrisce il cielo con le armi, forse riferendosi al fatto che Turno si trovò a inseguire una figura plasmata d’aria (X 664 sed sublime volans nubi se immiscuit atrae; si noti che nei versi successivi -668ss.- Turno in qualche modo prevede queste accuse e vorrebbe suicidarsi); la supplica, che fa del Rutulo l’unico che possa fermare la guerra (ipsum obtestemur veniamque oremus ab ipso v. 358; pacem te poscimus omnes v. 362; en supplex venio: miserere tuorum, / pone animos et pulsus abi vv. 365 s.); l’interrogazione retorica, dolentemente atteggiata (Quid miseros totiens in aperta pericula cives / proicis, o Latio caput horum et causa malorum? vv. 360 s.); l’esortazione ad affrontare il nemico in un duello (aude atque adversum fidens fer pectus in hostem v. 370; illum aspice contra, / qui vocat vv. 374 s.).
Particolarmente studiato è il ripetuto cambiamento di soggetto delle azioni verbali (ora il re, ora i cittadini di Laurento, ora un innominato di cui tutti conoscono l’identità, ora l’oratore stesso) e, soprattutto, del destinatario del discorso: all’inizio il retore si rivolge a Latino (o bone rex v. 344, optime regum v. 353, fino a pater v. 356), poi a Turno, non ancora nominato (il vocativo Turne compare solo al v. 363, ripreso poi al v. 371 dal dativo Turno), ma definito Latio caput horum et causa malorum (v. 361), quindi ai presenti al consiglio, isolando Turno nei suoi gretti interessi personali (Scilicet ut Turno contingat regia coniunx, / nos animae viles, inhumata infletaque turba, sternamur campis vv. 371 s.), per tornare infine di nuovo al re rutulo, esortato ad affrontare Enea che lo chiama a duello (v. 373). Con questo pirotecnico gioco verbale, il retore vuole presentarsi innanzitutto come sostenitore della proposta e della figura del re e come alfiere della libertà di parola, esacerbando gli animi e portando quindi dalla propria parte i presenti attraverso il ricorso a verbi alla prima persona plurale (videmus v. 349, obtestemur e oremus v. 358, poscimus v. 362, vidimus e desolavimus v. 367), arrivando al culmine emotivo dei vv. 371ss. che contrappone Turno a nos animae viles, inhumata infletaque turba, in cui sentiamo risuonare un’eco della protesta dei soldati semplici di tutti i tempi, mandati a morte per l’egoistica brama di un condottiero. Al termine di questa abile requisitoria, l’esortazione di Drance sembra essere divenuta ordine perentorio di tutta l’assemblea: Etiam tu, si qua tibi vis, si patrii quid Martis habes, illum aspice contra, qui vocat (vv. 373ss.).
Al tortuoso e subdolo discorso del demagogo risponde Turno (vv. 378-443) con parole che sono un’esplosione di violenza e dolore (exarsit…violentia; / dat gemitum vv. 376s.); il discorso si articola in due sezioni: nella prima (vv. 378-409) il Rutulo replica fieramente a Drance, mentre nella seconda (vv. 410-444) discute le proposte di Latino, dando in clausola un’ultima stoccata all’avversario di questa mirabile ἅμιλλα λόγων.
Se l’intervento di Drance ben si adatta a un demagogo che voglia trascinare l’uditorio con calunnie, falsa modestia e doppiezza, quello di Turno rivela la statura eroica del personaggio: il Rutulo affronta il nemico a viso aperto, rivolgendosi immediatamente a Drance, il cui nome è fatto subito al v. 378 e ripreso al v. 384 (e un’ultima volta, al termine del discorso, al v. 443). Turno mette subito in rilievo l’inutilità della vile oratoria di Drance in un momento di guerra (Larga quidem, semper, Drance tibi copia fandi / tum, cum bella manus poscunt vv. 378s.): egli fa volare grandi parole nella curia (vv. 380s.), tuona in assemblea (v. 383), il suo ardore guerresco consiste in una lingua ventosa e in piedi pronti alla fuga (vv. 389ss. an tibi Mavors / ventosa in lingua pedibusque fugacibus istis / semper erit?). Ma l’oratoria di Drance, fa capire Turno, non è solo vile e inutile, è pericolosa, perché deprime le forze latine e potrebbe portare a una sconfitta: le ciance di Drance sono folli e turbano tutto, accrescendo il timore generale con l’esaltazione delle forze nemiche e lo svilimento di quelle patrie (vv. 399ss. Capiti cane talia, demens, / Dardanio rebusque tuis. Proinde omnia magno / ne cessa turbare metu atque extollere vires / gentis bis victae, contra premere arma Latini).
Turno ricorre allo strumento del sarcasmo per ridicolizzare l’avversario e indebolirne la posizione: ne riprende alcune espressioni ora rintuzzandole con le prove del proprio coraggio (v. 392 pulus ego?, cui segue la menzione del Tevere rosso di sangue troiano, dell’uccisione di Pallante e del gran numero di nemici, e che riprende il v. 366 pulsus abi), ora bollandole come follia (v. 399 nulla salus bello, che riprende il nulla salus bello del v. 362, in identica posizione metrica in apertura di esametro); inoltre, apostrofa Drance invitandolo a entrare in combattimento, sottolineandone la pavida esitazione (v. 389 Imus in adversos. Quid cessas?), per poi tranquillizzarlo che mai perderà la sua vita per mano di Turno (vv. 408s. numquam animam talem – quanto disprezzo in questo aggettivo, fortemente contrapposto al dimostrativo seguente- dextra hac (absiste moveri) / amittes).
Anche il discorso di Turno prevede una studiata alternanza dei soggetti delle azioni verbali e dei destinatari dell’azione: Drance è ora investito direttamente dalle parole di Turno (vv. 378 Drance, tibi…; 381 tibi volant; 383s. tona eloquio (solitum tibi)… / argue tu, Drance; 389 cessas? An tibi…; 399s. cane… / ne cessa; 408s. absiste… / amittes…tecum), ora oggetto del suo discorso, con un procedimento che ne allontana la figura per la sua indegnità (vv. 404 vel cum se pavidum contra mea iurgia fingit / artificis scelus et formidine crimen acerbat, e soprattutto, stoccata finale della requisitoria in cui brilla il disprezzo del vile da parte del magnanimo, vv. 443s. nec Drances potius, sive est haec ira deorum, / morte luat, sive est virtus et gloria, tollat).
La seconda parte del discorso (vv. 410-444), rivolta al re Latino (v. 410 nunc ad te revertor) è più pacata ma non meno decisa e segno di un’indole valorosa: Turno esorta il re a chiedere la pace se non ha più speranza nelle armi, se la sorte è irrevocabile; ma così non è, perché i Latini hanno ancora forze valide su cui contare e i Troiani pure hanno subito ingenti perdite, quindi la sorte potrebbe ancora cambiare. Tra i guerrieri più valorosi sui cui possono contare i Latini c’è la volsca Camilla (questo richiamo lega il discorso di Turno all’ultima parte del libro). Se poi i Troiani volessero un duello, Turno si dice disposto ad affrontare Enea, che chiama solo lui. E Drance possa vivere, anche in caso di sconfitta latina, ma possa non sottrargli l’onore e la gloria, in caso di vittoria.
In questa seconda parte emerge con particolare evidenza il tema della Fortuna, della sorte. Se essa è irrevocabile (v. 413 neque habet Fortuna regressum), gli uomini non possono che tendere mani inerti (v. 414 dextras tendamus inertes), perché il valore sarebbe inutile; comunque sia, migliore è la sorte di colui che, per non vedere tutto questo, muore combattendo. Ma per sua natura la sorte si presenta alterna e può sorprendere gli uomini (vv. 425ss. multa dies variique labor mutabilis aevi / rettulit in melius, multos alterna revisens / lusit et in solido rursus Fortuna locavit). La mutevolezza della sorte, unita alla considerazione che i Latini dispongono ancora di alleati ed eroici capitani in gran numero, è l’argomento che oppone Turno alla proposta di pace di Latino.
La proposta di continuare la guerra è suggellata dalle nobili parole dei versi 434-444, in cui Turno afferma con virile sicurezza che non intende rifiutare il duello con Enea: egli l’affronterà con coraggio, anche se questi dovesse superare Achille e dovesse (amara ironia tragica) impugnare armi di fattura divina, e consacra la vita ai Latini e al re (vv. 438ss. ibo animis contra, vel magnum praestet Achillem / factaque Volcani manibus paria induit arma / ille licet.Vobis animam hanc soceroque Latino / Turnus ego, haut ulli veterum virtute secundus, devovi). Il lessico impiegato (in particolare il verbo devoveo) non lascia dubbi: le parole di Turno richiamano il rito romano della devotio, con cui il comandante si consacrava agli Dei Mani per ottenere la vittoria e la salvezza del suo esercito (si ricordino le pagine di Tito Livio sulla devotio di Publio Decio Mure, console del 340, e su quella del suo omonimo figlio durante la battaglia di Sentino del 295, rispettivamente Ab urbe condita VIII, 9 e X, 28). Qui Turno appare come una sorta di vittima sacrificale, che si immola per la salvezza del suocero e dei Latini. Sui rapporti, invece, tra Turno, Enea, Achille ed Ettore, risultano illuminanti le parole del Traina: “identificando Enea con Achille, Turno assume inconsciamente la parte di Ettore”, e ancora “è formula fortunata che turno abbia la natura di Achille e il destino di Ettore: direi piuttosto che Turno comincia come Achille e finisce come Ettore. È questa la sua tragica ambiguità (A. Traina, Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, vol. V, pp. 108 e 100)
La nota finale del discorso stempera la magnanimità in un’ultima pointe sarcastica contro Drance: richiamando nuovamente le parole del demagogo (vv. 374ss. Etiam tu, si qua tibi vis, / si patrii quid Martis habes, illum aspice contra, / qui vocat), conclude fieramente e mordacemente (vv. 442ss.) Solum Aeneas vocat: et vocet oro, / nec Drances potius, sive est haec ira deorum, / morte luat, sive est virtus et gloria, tollat”.
Nel primo episodio del libro in cui Turno prende la decisione di dirimere la guerra sfidando il rivale, Virgilio ci presenta i personaggi che in successione entrano in scena: Turno, Latino, Amata e infine Lavinia.
Turno (sono suoi il primo e l’ultimo verso del libro), visti i Latini cedere fiaccati (infractos v. 1) ai Troiani, è pronto a combattere fino a prevalere o morire.
All’inizio del libro l’eroe è superbo, pervaso da furor bellico, non vuole più indugiare e non si aspetta che indugino più i Troiani, sebbene ignavi imbelli (v. 12), come tradizionalmente erano detti i Frigi. Non vuole che indugi ancora Enea, il profugus che con gli occhi di Turno è detto desertorem (15).
Tutto il libro occorrerà a Virgilio per trasformare questo personaggio da Achille a Ettore facendolo progredire dall’implacabilità in battaglia all’umile accettazione della sconfitta e della morte.
Nei primi versi però è ancora come un leone dalla folta criniera che ferito si adira e esibisce tutta la sua forza violenta.
Latino contrappone la sua calma all’agitazione del giovane. Olli sedato respondit corde latino (v. 18) il verso con la ripresa di Ennio (Ann., 33 V) ben visibile nell’Olli … respondit mette in luce la calma di Latino. In quanto vecchio re deve prendere consiglio e ponderare tutte le eventualità, cosa impossibile se si cede al furor. Ripensa alle sue empie decisioni, di avere cioè rotto il patto con Enea (ospitarlo e associarlo al potere promettendogli in sposa Lavinia cfr. l. VII) e aver imbracciato armi empie (cfr.: vv. 29-31). Ora vuole tornare sui suoi passi per non causare altre morti e soprattutto non causare quella di Turno, giovane generoso benchè impetuoso e a lui caro (cfr. v. 19-20). Cerca quindi di dissuadere Turno dal combattere toccando i temi dell’incertezza della guerra e della pietà per il vecchio padre lontano e solo, di achillea memoria (cfr. Il. XIX 322 e XXIV 540).
Amata, la regina, dice che se Turno morirà, lei morirà con lui non sopportando di essere schiava del Teucro (memoria omerica: Il VI 464). Il verso che la introduce è calcato sul verso che inizia il libro di Didone: At regina… (v. 54) c’è forse una non celata analogia fra le due donne, regine, passionali e suicide, Amata è detta ben presto moritura (v. 55)
Lavinia, personaggio muto, sente, guarda, trascolora. Paura, pudore o emozione di essere al centro di eventi così estremi? Infatti lei sarà il premio della lotta, alla fine di tutte le contese.
Lavinia subisce, accetta come tante vergini del mito offerte in premio o sacrificio.
La battuta finale dell’episodio è ancora di Turno che ribadisce la sua volontà di voler sfidare Enea di cui sottolinea ancora l’ignavia rivolgendosi al nunzio che deve riportare a Enea la sfida che, insinua, non gli farà piacere: mea dicta tyranno haud placitura refer (v. 76)
81-133
La rituale vestizione delle armi è anticipata al giorno prima. Vediamo Turno che va veloce a rivestire i suoi cavalli godendo di contemplarne la bellezza e la possenza tuens ante ora (v. 82).
I cavalli sono dono divino, come la spada, ricevuti dagli antenati. Contemplando i suoi cavalli e palleggiando le sue armi, Turno ricorda la prodezza delle vittorie precedenti e auspica di lacerare il mezzo uomo frigio, semiviri (v. 99). E’ agitato dal furor come un toro che sfoga l’ira prendendo a cornate un tronco.
La vestizione di Enea è sbrigata in pochi versi.
Il giorno dopo i popoli e i due eserciti si preparano per la cerimonia del patto.
Maestoso lo schieramento, avvolti da un’aurea sacra i preparativi.
Ognuno (guerriero o astante) è teso dall’attesa degli eventi.
134-160
Ma Giunone non sopporta che abbiano presto termine i travagli dei Troiani.
Parla a Giuturna, sorella di Turno, resa ninfa delle acque italiche per volere di Giove, come contraccambio per aver goduto di lei. L’odio per i Troiani sorpassa la gelosia di moglie, dunque le parla da dea a dea diva deam (l’allotropia del v. 139)
Il nome della ninfa è connesso con la radice di iuvo, Giuturna è la soccorritrice dunque che, per ironia tragica, scatenerà gli eventi fatali per il fratello.
Il discorso di Giunone è ambiguo, fa leva sui legami di sangue che rendono giusto (decet v. 153) contravvenire ai patti. Giuturna piange, ma ancora Giunone la incalza ad affrettarsi a far cadere i patti giurati, la giustificazione questa volta sta nella sua maestà di dea auctor ego audendi (v. 159). Giuturna ora è incerta, turbata da una dolorosa agitazione.
161-215
Il giuramento avviene in uno scenario coreografico e solenne.
Il primo a sfilare è Latino di cui è ricordata la genealogia: la tradizione greca risalente a Esiodo lo voleva figlio di Ulisse e Circe; segue in subordine Turno. Poi Enea con al fianco Ascanio.
Enea prega e prende l’impegno che se vincerà su Turno, non ci saranno né vincitori né vinti, ma tutti saranno sottoposti alle stesse leggi uniti da patti eterni (vv. 190-1). Latino per manifestare la sua volontà a non rompere i patti usa immagini paradossali (… nemmeno se il cielo si disgregasse nel Tartaro, caelumque in Tartara solvat v. 205), il contenuto dunque è estremamente solenne, ma non politico come per il giuramento di Enea.
216-611
La violazione del patto e la ripresa della guerra avvengono per un concorrere di eventi. Primo fra tutti la percezione che da subito si diffonde fra i Latini di quanto lo scontro fra Turno e Enea sia impari, impar v. 216. La constatazione dello scontro non equo come le parole vorrebbero invece sancire (non viribus aequis v. 219), diffonde il sospetto. Gli animi vacillano. Qui si inserisce l’operato di Giuturna che prendendo la forma di Camerte, uomo di illustre origine e chiara fama, mostra quanto sia poco eroica la scelta di lasciare che uno si sacrifichi per tutti, tanto più che loro, i Latini, sono il doppio degli stranieri invasori. Ormai Laurenti e Latini vedono il patto come inefficace rispetto all’iniquità della situazione, quando un prodigio turba ancor più gli animi e viene interpretato come incitamento a combattere. Infine l’augure stesso scaglia un’asta che uccide uno degli uomini di Evandro, l’alleato di Enea. Si scatena la battaglia. Latino fa appena in tempo a fuggire, Enea intanto incredulo cerca a gran voce di richiamare al rispetto del patto, quando un dardo lo ferisce alla gamba e lascia così il campo.
Turno a vedere tutto questo da pallida vittima sacrificale si trasforma in spietato guerriero, inizia la sua aristia e fa strage di nemici.
Enea ferito nella tenda viene guarito dall’intervento miracoloso di Venere. Si riportano subito le armi all’eroe.
E’ a questo punto che Virgilio inserisce l’unico discorso diretto di Enea al figlio. Siamo prima dell’ultima battaglia e in filigrana riecheggia il commiato di altri due padri della tradizione: Ettore (Iliade) e Aiace (Aiace di Sofocle), l’atmosfera è tragica. Abbraccia e bacia il figlio nonostante l’armatura renda poco agevole il gesto. Lo esorta a seguire il padre come modello nella virtus e nel labor, ma a seguire altri nella fortuna (vv. 435-436). Enea si concepisce come eroe virtuoso e costante, ma non fortunato. Il destino che Enea segue è duro e faticoso, nonostante l’aiuto e la benevolenza divina.
All’aristia di Turno fa da contrappeso l’aristia di Enea. Esce dalla tenda, lo seguono i suoi fidi compagni in file serrate ed è tutto un pulsare del terreno, un sollevarsi di polvere e terrore. Un tremito di ghiaccio percorre il corpo degli Ausonii (vv. 444-447). Risalta la similitudine fra assalto dei troiani e azione combinata di tempesta dal cielo e tromba marina dal mare sui campi vv. 451 ss.; non c’è scampo: tutto è raso al suolo. Chiasmi e parallelismi rapidamente contrappongono uccisori e uccisi. I Rutuli fuggono, Enea non si cura d’altro che di cercare Turno, anche lui nel campo di battaglia è preso dal furor che lo fa uscire di sé.
La virago Giuturna angosciata rovescia dal cocchio l’auriga di Turno, ne prende le sembianze e come una rondine vola in un ampio e ricco palazzo cercando insetti e esche per il nido, così conduce a volo i cavalli mostrando il fratello e girando dappertutto perché i suoi si riprendano d’animo, ma tenendolo lontano da Enea che invano cerca il confronto vv. 473 ss. Il modello dello stratagemma di Giuturna è omerico (Iliade 5, 833).
L’inafferrabilità di Turno e i tentativi vani di Enea che mettono a repentaglio solo la sua incolumità fanno crescere l’ira nel troiano che infine (iam tandem v. 497) si scatena, preso anch’egli dal furor e abbandona le briglie del tutto all’ira.
Al verso 500 e ss., Virgilio inserisce una riflessione sul mistero sotteso alla storia umana: la pace c’è solo a prezzo di strage e sangue.
Si apre qui la domanda rivolta a Giove che fa da pendant con quella del proemio: perché hai deciso che genti destinate a stare per sempre in pace si scontrassero con una così gran violenza? (aeterna pace è qui da leggersi in relazione a imperium sine fine del primo libro).
In altre parole qual è il senso del dolore, della guerra e del male?
E’ LA DOMANDA dell’esistenza umana di fronte al divino.
La risposta non è immediata, né all’inizio del poema né qui. La domanda rimane aperta.
Seguono scene del duplice massacro fatto da Enea e da Turno, scene di guerra violente e feroci sconosciute all’epos omerico curruque abscisa duorum suspendit capita et rorantia sanguine portat (vv. 510-512). Cadono sotto i colpi del furor di Enea e Turno giovani, fratelli, tebani tristi, persone illustri per discendenza e gente comune, anche un giovane exosum nequiquam bella (che invano odiava le guerre v. 517). Tristi esempi di vita interrotta, che Virgilio innalza dalla polvere del campo di battaglia con la sua poesia, priva qui di accenti eroici, ma equilibrata e composta come un mesto canto funebre. Enea e Turno ugualmente fuori di sé portano ovunque devastazione travolgendo e nullificando l’esistenza di chiunque, ardua impresa per il poeta tenere il conto di tutte quelle vite annientate.
L’intervento divino qui si fa necessario per dare una svolta alla narrazione e per distogliere la mente di Enea dall’ottundimento della ferocia.
Venere ispira al figlio di assediare Laurento per accelerare la vittoria sui Latini. Come è tradizione nell’epica l’intervento divino è causa di uno stato psicologico nuovo. Enea si riprende, la strage e la violenza tornano ad avere una giustificazione nel patto tradito e tornano a iscriversi in un piano strategico che tende alla vittoria e cioè all’emancipazione dalla violenza. L’assalto dell’esercito troiano crea confusione e incertezza fra i Latini. La scena si chiude con la similitudine dei pastori che stanano le api dentro una roccia, l’originale è in Apollonio Rodio.
La catastrofe arriva con la reazione di Amata alla triste sorte dei Latini. Il senso di colpa la induce al suicidio che perpetra da eroina tragica come Didone, come Giocasta, come Fedra, come Antigone. Non sceglie però la bella morte, la morte virile, come Didone, l’altra figura tragica del poema, che si getta sulla spada d’Enea. Amata si impicca come Giocasta, come Fedra, come Antigone, una morte considerata infamante, informis (v. 603), non bella.
614-790
Turno da un angolo remoto del campo di battaglia iam segnior atque iam minus atque minus successu laetus equorum (v. 616) dà i primi segni di depressione. Lo slancio del furor è svanito, presagisce il peggio, ode suoni di malaugurio. La sorella-auriga cerca di spronarlo ancora alla strage di Troiani, ma lui le rivela di averla già da tempo riconosciuta e di aver compreso i suoi inganni o di chi dall’Olimpo l’ha inviata fra gli affanni dei mortali. Di fronte alla devastazione e alla strage non vuole più sfuggire al suo compito “A tal punto morire è doloroso?” (v. 646) cioè al punto di preferire il disonore stando alle trame delle divinità dell’Olimpo (in questo caso Giunone, ma Turno non lo sa).
E’ interessante qui come Virgilio enfatizza la grandezza dell’uomo che può ergersi al di sopra delle trame divine grazie all’accettazione della morte. Accettando il suo limite ontologico, cioè che deve morire, l’uomo antico si emancipa dalla subordinazione alle divinità olimpiche.
Sopraggiunge un compagno che lo informa che Enea fa strage, la città è assediata, Amata si è suicidata. Turno è confuso, i sentimenti che lo caratterizzano (pudor, furor, luctus, amor) si agitano in lui bloccandolo per un attimo in una fissità psichica: silenzio, sguardo fisso. Poi la mente gli si rischiara nuovamente e sa cosa deve fare. Dice alla sorella: “… quo deo et quo dura vocat Fortuna sequamur” (v. 677), esortazione ad andare dove un dio e la dura sorte chiamano – I Rutuli sono esortati a cessare il combattimento i Latini a deporre le armi, Turno accetta il duello addossandosi la responsabilità di aver violato il patto.
La guerra è finita.
Enea udito il nome di Turno interrompe ogni azione. Immediatamente Rutuli, Troiani e Itali depongono le armi. Si sgombra il campo per il duello dei due campioni.
Lo scontro si svolge nell’imitazione del modello omerico, tanto più l’esito è scontato, nonostante i tentativi delle varie divinità di favorire i propri protetti.
C’è un’ultima scena che ritarda la fine ormai scontata: il colloquio fra Giove e Giunone. Il modello ancora una volta è l’Iliade: Ettore e Achille stanno girando attorno alla rocca di Troia uno fuggendo, l‘altro inseguendo e tutti guardano in silenzio, compresi gli dei dall’Olimpo, quando Zeus parla commiserando l’imminente fine di Ettore e compie la “pesa delle anime”, il tempo di Ettore è giunto, Apollo si ritira e Atena guida Achille alla vittoria.
Nell’Eneide la scena presenta delle analogie e differenze: dalle nuvole gli dei stanno guardando il duello, quando Giove prende la parola per dire a Giunone che è ormai tempo che il destino di gloria per Enea si compia. Tuttavia Virgilio usa accenti diversi. Giove qui si rivolge a Giunone dapprima come un saggio marito che prega prima di comandare e chiede di non essere più infastidito dai lamenti della consorte, poi parla come il re degli dei.
A questo punto l’antropomorfismo da commedia svanisce, la portata ideologica diventa maggiore: si è giunti al momento estremo, Giunone ha potuto fin qui tormentare i Troiani, suscitare una guerra esecranda, spargere lutti…ora però Giove vieta di andare oltre: ulterius temptare veto v. 806. La guerra fra popoli destinati a vivere per sempre in pace deve finire. Giunone si piega, cessa le ostilità, ma in cambio chiede una fusione perfetta dei popoli in cui il retaggio troiano (nome, usanze e lingua compresi) venga assorbito completamente nel nuovo popolo. Sit Latium, sint Albani per saecula reges, / sit Romana potens Itala virtute propago vv. 826-7. Giove la rassicura tornando al tema già sviluppato nel colloquio con Venere del libro primo: Giunone vedrà sorgere una stirpe grandiosa, unita per lingua e per religione e nessun popolo avrà un culto maggiore per lei. L’impero senza fine nel tempo e nello spazio (Eneide I 278 ss.) sarà nell’esito (se non nell’origine) tutto romano. La guerra infandum è superata nell’unione dei popoli italici dall’area settentrionale ed etrusca all’area centrale e meridionale. Così come al tempo di Virgilio le guerre fratricide sono superate nella pax augustea. La formula vincente è compresa nell’Itala virtus (v. 827), i popoli italici uniti per esportare la virtus del soldato contadino in tutto il mondo.
L’allontanamento di Giuturna segna ancora una nota triste. Le è comandato di abbandonare il fratello al suo destino e la ninfa soffre della sua condizione d’immortale che la costringe a lasciare il fratello solo ad affrontare la fine.
Il finale vv. 791-842
Enea apostrofa Turno con parole feroci, Turno abbandona il registro superbo, audace e feroce, depone cioè i panni di Achille e con fierezza e melanconia risponde che non Enea gli fa paura, ma il fatto che ormai Giove gli è nemico. Fa quello che già aveva fatto Ettore nell’Iliade, scaglia un gran masso contro il nemico, esibendo una forza straordinaria, ma invano: come nel sogno sembra che sia possibile agire, ma vani tentativi ci fanno crollare in una muta paralisi.
Turno si smarrisce, Enea scaglia la lancia, lo ferisce, Turno levando la destra in segno di supplica chiede di essere risparmiato e almeno che il suo corpo sia restituito ai suoi, Enea si ferma impietosendosi, ma la vista del balteo di Pallante gli riaccende l’ira e affonda la spada nel petto di Turno. La vittoria è di Enea, ma non può essere priva dell’oltraggio della morte violenta dell’avversario. La gloria di Enea è imperfetta per Virgilio perchè il prezzo è l’annientamento del nemico, così la pace di Augusto è frutto della sopraffazione dell’avversario. Il poeta non si piega alla propaganda del vincitore che mistifica la storia.
Il verso finale adombra l’indignazione per l’ennesima giovane vita interrotta: vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.
Così finisce l’Eneide, col controcanto tutto virgiliano che ricorda nel momento della gloria marziale, l’orrore del massacro e della violenza.
(Olivia Merli, 2016)
BIBLIOGRAFIA
Virgilio. L’utopia e la storia. A cura di Alfonso Traina, Loescher 2003
Ronald Syme, La rivoluzione romana Einaudi 1962 pp. 442 ss.