Home Proposte di lavoro e di lettura Virgilio Padre dell’Occidente

Virgilio Padre dell’Occidente

by Giorgio Zangrandi

di Luigi Alfonsi

Virgilio è l’uomo misterioso che aprì i mondi e mediò il passaggio dal mondo pagano a quello cristiano (IV egloga), dal mondo antico al Medio Evo (cfr. Comparetti, Graf); diede moduli e schemi alle nascenti epopee delle genti nuove emergenti alla storia: forse dalle Chansons de geste al Nibelungenlied attraverso il Waltharius. Mentre Omero suggellava e concludeva l’età micenea ed achea, Virgilio era l’avvenire.

Statua di Virgilio a Mantova

È un mistero sempre rimasto tale, né noi mai lo scopriremo appieno. Ma lo intuirono le età cristiane, almeno in parte, lo capì meglio ancora Dante; Virgilio è un profeta già da Macrobio e Fulgenzio, non solo un poeta.

Omero è certo più grande come poeta, se vogliamo anche come interprete totale dell’anima greca; ma Virgilio è il pensoso psicopompo che, attraverso la notte, e le notti d’Europa, ci prepara, con speranze meditate e sempre senza fallaci illusioni, al domani, al nostro domani.

Ma ascoltiamo il Carducci nel discorso di Pietole:

«Un senso superiore della vita, una coscienza purissima del buono e del bello, una umanità delicata e commossa anima quella divina poesia, che pare affretti nella realtà i sogni giovanili cantati in riva di Mincio;

Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo

E pure all’impero del mondo si seguirono, biechi e sanguinosi, Tiberio e Caligola. Ma anche nacque Gesù Cristo. Da allora i secoli ammirano il poeta mantovano, a guisa del suo Cycno, “abbandonar la terra e seguire le stelle col suo canto”: Linquentem terras et sidera vocesequentem. Mediatore tra due mondi, egli passa quale Hermète tra le ombre dell’inferno, rompendo le tenebre del Medio Evo con l’aura verga del suo carme: passa, e Dante, non a pena lo scorge su ‘1 limitar della selva selvaggia, gli tende le braccia e gli si prostra; ed egli terge in Dante l’Italia e l’Europa dalla fuligine della barbarie e manda il suo spirito per le genti diverse,a Camoens, a Racine, a Schiller.

Tale è nella storia del pensiero umano il vostro conterraneo, o Mantovani di Pietole…».

È, si può dire, il poeta che accompagna le crisi della società europea:

                        Ergo Vergilius cecinit nova saecula frustra

                        frustra ego praedixi frustaque effata Sibylla est?

riflette in Ultima Linea del Pascoli Orazio parlando all’amico Fusco, pessimista sulla realtà della Roma contemporanea:

                         neque maior | Roma fuit, credas, alio neque tempore peior.

Ma Virgilio pur di queste crisi aiuta, nei momenti culminanti, lo sbocco e l’esito positivo.

Però si può dire oggi solo dell’Europa, solo dell’Occidente? No, il suo messaggio vale per tutto il mondo: gli è che nella Europa, in tutta l’Europa, in ogni nazione d’Europa, di un’Europa ancor civile e colta, e non solo nell’Occidente, ma pure nella Russia dei grandi romanzieri, esso è presenza essenziale; anche per la mediazione unica di Dante, eguagliato nell’amore per Virgilio solo forse dal giovane Agostino Schelke di Tubingen.

 Non basta: Virgilio ha avuto la ventura di essere voce di libertà e di umanità, in tempi più recenti, sulle più diverse frontiere, e sempre in nome di ideali che non si possono tradire. Theodor Haecker, pubblicista cattolico antinazista, confermava la sua fede e la sua resistenza, scrivendo: Vergil, Vater des Abendlandes (München, 1931 e München, 1957) che la benemerita casa editrice nostrana, la Morcelliana, nel 1935 “volgarizzava” in Italia ed io me ne entusiasmavo studente alla Cattolica; e negli anni intorno al ’40-’44, mentre le bombe tedesche “coventrizzavano” Londra ed altre città, T.S. Elliot, presidente della “Società Vergiliana”, proclamava : prima caratteristica di un poeta classico è la maturità della mente , per cui occorre la storia e la consapevolezza della storia. Ma non si può avere piena coscienza della storia se non si possiede qualche storia oltre la propria; non ci si può rendere conto altrimenti del posto che ci spetta. Bisogna conoscere la storia di almeno un altro popolo, dalla civiltà elevata e abbastanza affine da avere influenzato la nostra. Questa coscienza storica i Romani l’avevano, mentre non potevano possederla i Greci, per quanto si possa stimare anche più alti i loro risultati… Era questa una coscienza che Vergilio fece molto per sviluppare. E conclude così l’elogio di Virgilio, “centro della civiltà europea” in quanto poeta dell’Impero Romano:

L’impero romano e la lingua latina non furono un impero e una lingua qualsiasi: avevano un destino straordinario nei nostri confronti e il poeta in cui quell’impero e quella lingua raggiunsero piena coscienza e completa espressione è perciò un poeta di eccezionale destino. (P. Santerno, Questo è proprio un classico, in “Il GiornaleNuovo” 1979).

William Francis Jackson Knight scriveva in quegli anni un poderoso libro, dal titolo suggerito da Tennyson, Roman Vergil, titolo che a qualcuno di noi parve allora …. fascista, per cui la traduzione italiana della Longanesi presentò il libro solo come Virgilio in copertina e Virgilio Romano all’interno.

Ma sarebbe lungo, da Comparetti a Büchner, per non parlare poi di tutti gli altri grandi germani, e poeti, e, in epoca nostra, soprattutto filologi (da Wilamowitz a Norden, a Peschl, a Schadewaldt, a Klingner, ora a Burck) (1) e francesi e inglesi e nostrani, seguire il Fortleben grandioso del poeta, in cui -chiedo venia della mia eventuale ignoranza- i soli episodi di dissacrazione e demitizzazione sono quelli di certo “Illuminismo italiano”. Non tanto ad opera del Bettinelli che presenta, nei confronti del nostro poeta, una posizione alquanto complicata, seguendo una parabola dalle Lettere Virgiliane del 1757 al saggio Dell’entusiasmo delle belle arti del 1769, in cui, in omaggio al tema stesso, si afferma : Omero, Dante, Ariosto, Milton, Cornelio (Corneille), tra poeti sembrano fare una classe primaria, e chi venne dopo, tra maggior lume e coltura, restar deve sotto in questa parte, come Virgilio, Petrarca, Tasso, Pope e Racine, i quali nel bello sono superiori. Quelli mancano nel disegno, nel decoro, nel costume, in che questi sono maestri; ma quelli il sono nel sublime, che sta soprattutto . E infatti Racine con Virgilio – si ricordi! – è il poeta caro al Manzoni, ammiratore col Rosmini del De Sibyllis del Nostro (2), è il poeta cui si rifà il Parini per esprimere le sue idealità morali (cfr. M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari 1954, p. 333, p. 340, p. 427). Dunque il Bettinelli, anche nelle Lettere Inglesi (1766), e così l’Algarotti, mostrano ben per Virgilio un’alta considerazione: il primo, passando da sensismo a sentimentalismo, da classicismo illuministico a preromanticismo, recupera il gusto della sensibilità e dell’immaginazione poetica minacciati dal tirannico dominio della ragione. Del resto le stesse Lettere Virgiliane non si riducono all’aspetto clamoroso di attacco razionalistico alla Divina Commedia, ma vanno giudicate come manifesto polemico contro l’arretratezza culturale della rimeria arcadica; più che colpire gli autori del passato sono rivolte contro i loro imitatori moderni (cfr. W. Binni, Il settecento letterario in Il Settecento, vol. VI, Garzanti 1968, pp. 630-35).

Omero e Virgilio (vetrata: Office of the Art at Harvard, Memorial Hall)

Insomma anche il Settecento meditò e discusse su Virgilio; e vi par poco? Così pure il Muratori ebbe piena ammirazione per il nostro poeta ed il suo ruolo; l’Algarotti, come già abbiamo visto, lo mette sullo stesso piano di Omero, di poco posponendolo al greco (più belli sono i giochi, più belle sono le armi di Omero che di Virgilio, perché così gli uni come le altre più necessari nella Iliade che nella Eneide non sono, in Saggio sopra la pittura, p. 102 ed. Da Pozzo; … I poemi di Virgilio e di Omero sovra tutti che de’ pittori è il re, p. 117 ibid.; Virgilio dovea di piccol tratto rimanersi dopo il grande Omero, in “Saggio sopra Orazio, p. 459, …ma è vero ancora che dei Greci più animosi furono i Romani. Lasciando da banda l’ingegno di Virgilio, che teneva, si può dire, tre regni, ibid. p. 481). Ma in un punto, anche per l’ Algarotti, per merito sia pur della lingua, Virgilio sembra avere la meglio: I Latini, nazione non tanto delicata, concedeva loro (cioè ai poeti) assai meno libertà. E da ciò nasce per avventura che appariscono più cose in Virgilio che in Omero, dette soltanto in grazia del metro.

Muratori e Algarotti ebbero quindi per Virgilio piena ammirazione; più problematico, anche per l’ovvia contraddizione, in qualche spunto è il Bettinelli che poté affermare:  Ma sapete voi che io non conosco il più perfetto, tra tutti gli antichi e i moderni poeti, di Pope? Trovo dei difetti in Orazio, in Omero, in Virgilio, in Voltaire, nel Tasso e nell’Ariosto, e non ne trovo in Pope,, e lo metto sopra tutti, dopo che quest’uomo ha  saputo abbellire e dar forza alle più alte insieme e più necessarie massime della morale dell’ uomo, temperando mirabilmente la più bella poesia colla filosofia più pregiata (Lettere Inglesi p. 95; cfr. Fubini, Dal Muratori al Baretti,Bari 1957, vol. II, p. 259 e p. 377; e per il Muratori, vol. I, pp. 76-77, p.143).

Divertenti piuttosto certe “fanfaluche” libertarie antivirgiliane, poi (quelle politiche almeno) egregiamente rifluite, nobilmente registrate, lealmente e …comitalmente rientrate, dell’Alfieri; da quest’ultimo del trattato Del principe e delle lettere, libro III, Alle ombre degli antichi liberi scrittori (c. 2), con relative note, a quello, andando a ritroso, che scriveva il 4 marzo 1786, anni prossimi alla Rivoluzione Francese:

Non fu sì santo né benigno Augusto

come la tromba di Virgilio il suona

né fu Virgilio un pensator robusto

da fare il vero nascer d’Elicona.

Il non avere in libertà buon gusto,

dagli alti cori a lui non si perdona:

che l’adular chi l’ha di doni onusto,

fa che il vate in viltà col sir consuona.

                                (Rime, parte I, CLIII, vv. 1-8, ed. Maggini, Asti 1954)

E giù sino alla ripresa alfieriana dell’ammirazione per Lucrezio, e alle riserve per Virgilio, sia pure in prospettiva diversa, da parte di Massimo Bontempelli. Ad es. si veda da L’ avventura novecentistica – Selva polemica, 1926-1938: Virgilio e Molière stanno di continuo rendendo a mille doppi il poco che ebbero da Luigi e da Augusto (e poche righe prima : Non si voglia dunque protezione. Pericle non protesse le arti. Augusto non protesse le arti, p. 184). E ancora: Augusto era un po’ migliore (sc. del Cardinale Ippolito che proteggeva Ludovico Ariosto)… A buon conto i due più grandi della poesia romana, Lucrezio e Catullo (si noti!) erano morti tutti e due da qualche tempo, niente affatto protetti, uno pazzo, l’altro esausto (p. 186); Roma è rappresentata non meno da Lucrezio che da Virgilio, non meno dall’incomprensivo Catullo che da Orazio… Le parti apologetiche dell’Eneide sono le più scarse di poesia e per ciò stesso le meno veramente e profondamente interpretative della grandezza e spirituale ricchezza del suo tempo (p.311); Il poeta del mondo ellenico … nella Odissea ci fa sentire la poesia come libertà sconfinata dell’uomo tra le forze della natura … A Roma accade precisamente il contrario: l’avventurosa fuga di Enea disperso di guerra, tra le mani di Virgilio, diventa un gran poema politico … A Roma il grande erede di quella materia (sc. poemi filosofici), che la esaltò nella più alta poesia che Roma ci abbia lasciata, è Lucrezio col De rerum natura. (p.312).

 Ma non sono certo queste singole voci, né le scolastiche e alle volte pedestri notazioni della critica, già antica, a proposito della aemulatio ed imitatio virgiliana da Omero e da altri o delle sue klopaì , dei suoi furta da Lucrezio, a vanificare o semplicemente oscurare ed annebbiare la “presenza di Virgilio”tra noi (3) (e mi riferisco anche a un Colloque del 9 – 11 – 12 – dicembre 1978 per le cure di R. Chevallier dalle “Belles Lettres” che ha precisamente questo titolo).

Verifichiamo ora la “presenza di Virgilio”tra noi (4) come uno dei “Padri dell’Occidente”, a partire dalle due supreme realtà presenti nella poesia di Virgilio: l’uomo e il mistero. La civiltà dell’Occidente, l’Europa, l’Europa moderna (non quella di Ecateo si intende!!), come ammonì nella bufera della guerra la magnanima figura di Pio XII, è stata creazione dell’amore e dell’opera cristiana; la Fede, provvidenzialmente nata e sviluppatasi sul tronco ebraico, col meraviglioso innesto del pensiero greco, con l’ausilio pratico dello ius e dell’imperium Romanum. Civiltà dell’Occidente (ed intendiamo questo senza esclusivismi politici, e senza negare altre esperienze magari parallele o analoghe in altri mondi culturali) che, con successivi apporti e sviluppi, si fonda su due polarità: l’uomo e Dio. Polarità di cui punto di partenza può essere, secondo una concezione rigidamente umanistica, il primo; e, secondo una visione teocentrica e teologica, il secondo. Ma l’essenziale, per noi almeno, sul piano storico, è che si incontrino.

E partiamo in Virgilio, più che dalla res, come voleva Th. Haecker, dall’uomo. Quale uomo?

È fin dalla sua prima opera l’uomo vicino all’uomo, che sente l’uomo nella sofferenza, vittima sì dell’ingiustizia del “potere”, della sorte, della sua passione soprattutto; ma non il disperato: è l’uomo che trova e in sé e nella solidarietà del prossimo, nella bellezza della natura, nella vicinanza degli dèi agresti, nell’attesa di un mondo migliore, la speranza di sopravvivere. I victi tristes possono poi trionfare nell’apoteosi di Dafni e nella presenza di un deus, di un magnus ab integro saeclorum ordo.

È l’espressione di una classe sociale, nella sua individuale più alta interpretazione, venuta dal dolore, non dall’odio, delle guerre civili. Lavoro, impegno, fatica: imposti “biblicamente”, si direbbe, da Giove stesso (Pater ipse), ma come legge di progresso autonomo, negando paternalistiche concezioni spesso fautrici di ozio e di inerzia spirituale; gioia di creazione individuale, di vie aperte a beneficio di tutti, sempre sotto la legge suprema della divinità. C’è il dolore: a tutti i livelli e per tutte le cause, anche naturali; manca sì l’amore, quello divino: però c’è la fraternità nella sofferenza che la pietà sublima, e c’è la positività di questa accettata legge cosmica che, nella confessione dei nostri limiti terreni, riconosce anche i grandi risultati storici che la tenacia, sorretta da una speranza e da una fede possono garantire. Dio è qui sempre presente, come divinità comune, configurata secondo la visione corrente (anche se storicamente purificata). (5) Infine l’incontro tra l’uomo e Dio-mistero: l’uomo è sì un eroe, epperò un eroe della sventura, un perseguitato, è un esule, un “emigrante” si direbbe ora; e Dio è appunto mistero con le contraddittorietà della realtà e le antitesi della storia; e l’uomo oscilla tra la preghiera nel presente e il fatum della predestinazione, tra l’affannoso attaccamento alla vita, a i suoi valori e ai suoi dolori, alle sue dolcezze, e insieme l’angoscia del dubbio e la speranza nell’Aldilà. Ma infine la divinità prevale, non sull’uomo o contro l’uomo, ma in accordo, in pacificazione, in ecumenismo cosmico con lui.

Corollari? Innanzitutto una filosofìa del lavoro e della vita che si elabora esistenzialmente, più che in astrattezza di sistema, in tormento di problema (Cfr. P. Grimal, Le lyrisme a Rome,Paris 1978, pp. 162-3, brevi, ma finissime note sulla filosofia virgiliana della condition humaine già nelle Bucoliche): dal giovanile epicureismo, vulnerato però dalla presenza del dolore e dall’impossibilità di raggiungere l’ataraxia, allo stoicismo morale, con venature, attraverso Posidonio, pitagorico-platoniche, che si aprono all’abisso ultraterreno, non senza il pianto e la rottura degli affetti della morte: pianto ed inni e delle Parche il canto. E centro ne è l’avventura umana di un eroe del dolore che è costretto ad abbandonare la patria amata, mentre dulces -dice- meorum reliquias colerem, per fondare un impero tra genti straniere. L’Enea virgiliano precede di pochi anni Pietro che, dalla Palestina, viene a Roma (allos osei opou ou théleis) per fondarvi un nuovo Impero, così come è preceduto, nella sua missione voluta dall’ Alto, da Abramo -e Camps ha notato l’analogia tra la storia di Enea e quella di Abramo qual è narrata nel libro del Genesi e ripresa nell’Epistola agli Ebrei (W.A. CAMPS, Introduzione all’Eneide, trad. it., Milano 1973, p. 35). E questo eroe exul fa la guerra, di cui ha orrore, per dovere (quaeque ipse miserrima vidi), non per piacere, ma per ristabilire un ordine morale, per dettare una pace. Il primo messaggio che si evince da Virgilio è quello dell’anelata pace e di un sistema politico-morale che la garantisca; dall’individuo alla perfetta società delle api. Anche la dichiarazione famosa

                        tu regere imperium populos, Romane, memento;

                        haec tibi erunt artes: pacisque imponere morem

                        parcere subiectis et debellare superbos                                                        (Eneide VI)

acquista rilievo non solo dal pensiero ciceroniano del Somnium Scipionis e dei suoi precedenti sul compito arduo, ma accetto alla divinità, del governare e sull’impegno di servizio dello uomo di stato che sia giusto, ma anche del parallelo riconoscimento di supremazia che Virgilio tributa nei versi immediatamente precedenti agli altri popoli dell’ oikouméne nei campi della loro specifica affermazione: i Greci per l’arte e la cultura, l’Oriente per gli studi scientifici. Parallela alla pace sulla terra, raggiunta per via di virtus più che di fortuna (disce puer virtutem ex me verumque laborem,/fortuna ex aliis, Aen. XII, 435-6), la pace con gli dei e degli dei: la pax deorum, nell’armonia cosmica (6). Parrebbe -ed è stato detto- che l’ora et labora della regola benedettina, così come i saggi dettami delle Institutiones di Cassiodoro, riflettano e sintetizzino l’insegnamento virgiliano dell’uomo che pur nel dubbio (fors omnia versat), talvolta quasi al limite dello sconforto assoluto e della disperazione (o terque quaterque beati!), trova nella fede e nell’ausilio della divinità, obbediente essa pure ad una legge di giustizia universale, la forza di operare, di non abbandonarsi, di essere artefice del proprio destino come fissato dall’Alto, di creare la storia, di promuovere la civiltà per sé e per gli altri, per il mondo, nel nome di Roma (Tantae molis erat Romanam condere gentem!). Questo dunque il primo messaggio che, ripeto, Virgilio soprattutto a noi dell’Europa ha trasmesso: di mediazione tra cultura e potere, tra creatività individuale dell’intellighencija e responsabile esigenza di armonia e di sincera collaborazione tra l’uomo e la divinità, seppure tale supporto non sia esente da nebbie, dubbi e perplessità e sia solo di aiuto e di stimolo e di garante, anche severa, giustizia, non certo di redenzione e di amore spinto sino all’immolazione. Quindi un secondo messaggio, ed è quello dell’apertura, non tanto politica, ma culturale: ovviamente in primis alla poesia greca, anzi alla poesia e alla filosofia greca, continuando in un settore più ristretto l’insegnamento ciceroniano. E infatti tutta la poesia greca, quella classica come quella ellenistica, è presente nella sua opera poetica; e non solo Teocrito e Callimaco ed Euforione nelle Bucoliche; o Esiodo, Arato, Eratostene, Nicandro, ecc. nelle Georgiche; o Omero infine nell’Eneide. Molti altri, tra i quali non mancano né tragici né lirici greci (W.F. Jackson Knight ne ha già accennato e con lui, prima e dopo di lui, altri studiosi tali “fonti” hanno indicate e verificate). E latini: singolare incontro di tradizione epica antica, da Ennio e da moduli ancor più remoti, e da Lucrezio, sino ai neoteroi. Lo stile di Virgilio è un miracolo come l’anima sua, è stato detto dal Tommaseo ; quale virtù di stile poetico può immaginarsi maggiore della sua? scriveva il Manzoni (Albini).

E già Dante del resto:

                                Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte

                                che spandi di parlar sì largo fiume?

                               …………………………………………….. 

                                Tu se’ lo mio maestro e lo mio autore

                                 tu se’ solo colui da cui io tolsi

                                 lo bello stile che m’ha fatto onore.

E si pensi all’adesione dell'”ultimo figlio di Virgilio”, del Pascoli, poeta latino non meno che italiano, a lui.

Per noi quindi, ora: dopo il messaggio della fede e della speranza, pur nel nostro umano e universale dolore, dopo quello della recezione di altre culture e civiltà ritenute valide nell’ambito di una società pacificata, c’è il magistero di uno stile multiplo,epperò inconfondibile, che discende dalle sue amplissime interiori esperienze intellettuali: or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spargi di parlar sì largo fiume?. E del resto su lo bello stile che m’ha fatto onore, preso da Dante a Vergilio, si sofferma anche l’Algarotti (ibid. p. 138).

Virgilio è, in un momento caotico come il presente, pure un richiamo alla disciplina, all’importanza anche sociale ed educativa che lo stile espressivo può rappresentare, con suprema dignità di chiarezza classica, ma insieme con preannunci -anche qui rimane il mistero, l’enigma, la ricchezza di una personalità poliedrica che presenta e costruisce una ci-viltà nuova e diversa- con preannunci, ripetiamo, di simbolismo e di orfismo poetico.

Moderno anche in questo, anche in questo “Padre dell’Occidente”: nella ricchezza delle esperienze, di tutte le umane esperienze  che possono suscitare pure il dissenso; onde Omero è il poeta ammirato – e giustamente – da tutti nella sua limpidezza, e Virgilio è sempre oggetto di critica, di incertezza, nello stesso amore che sa suscitare nei lettori, per le contraddizioni che fa esplodere, per le ombre che attenuano la luce, per la melanconia che prevale su la gioia, per le lacrime che bagnano anche la gloria dell’Impero, per i dubbi e gli enigmi che attanagliano le nostre certezze, per le delusioni che sembrano a momenti spegnere le nostre speranze. E’ il poeta dei “perché” aperti che rimangono senza pacificante risposta, se non in un altro superiore mistero.

Ma rimane, con Enea soprattutto, il cantore delle doti costitutive dell’homo Europaeus: la pietas, la virtus, cioè il valore che non è mai compiaciuta, belluina, ma se mai, anche nella vendetta, sofferta ferocia; la iustitia, la pax, la humanitas, come comprensione nel dolore e legge di fraternità tra tutti gli uomini:

                    non ignara mali miseris succurrere disco dice Didone (I, 630)

e

                    sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt riflette Enea (I, 462).

Ed ancora, anzi prima ancora, Enea ai suoi:

                    O socii (neque enim ignari sumus ante malorum),

                    o passi graviora, dabit deus his quoque finem

                    …… forsan et haec olim meminisse iuvabit.

                    . . . . . . . . . . . . .

                    Durate et vosmet rebus servate secundis. (I, 198-207)

Anche ora, com’allora, come sempre, qui nell’Occidente, regno del cor inquietum di Agostino. E Virgilio, confortato da l’amore di Agostino, aiuti anche noi, nelle nostre drammatiche scelte ed obbligate opzioni, a superare questa seconda assurda barbarie (così come all’insegna di Cristo fu aurora), dopo le tenebre e dentro le tenebre e dell’Antichità e del Medio Evo, di nuova vita. Non è quindi da commemorare un Grande, un Grandissimo, ma veramente secondo l’intuizione di Th. Haecker e di T. S. Eliot, è da ricorrere con amore a un supremo padre di civiltà, della nostra civiltà.

Riconoscendo nell’eredità classica e cristiana la vera civiltà dell’Europa, ripetiamo anche noi Maro, Maro, vates gentilium, de Christo testimonium come si canta nel medievale Ordo prophetarum, ispirato al Sermo ps. Beati Augustini Episcopi de natale (!) Domini, Lectio sexta:

Nonne quando ille poeta (Vergilius) facundissimus inter sua carmina “Iam nova progenies celo (!) demittitur alto” dicebat, Christo testimonium perhibebat? In dubium hoc veniat nisi alios ex gentibus idoneos testes pluraque dicentes in medio introducam.

Veramente Vergilio ha aperto un nuovo mondo allo spirito.

Note:

(1) E.Burck, Vergiles Aeneis in Das romische Epos, Darmstadt 1979, pp. 51-119.

(2) Cfr. P.P. Trompeo, Col Manzoni tra Virgilio e Racine, in Rilegature Gianseniste, Roma 1930, pp. 103-127.

(3) E la presenza di Virgilio in Ungaretti? Basti pensare ai Cori descrittivi di stato d’animo di Didone e al Recitativo di Palinuro da La Terra promessa, dove “l’Eneide è sempre presente”, dice il Poeta (p. 566, ed. L. Piccioni, Verona 1969); e il legame tra “persona” e “civiltà” è appunto da Ungaretti ribadito nei 19 cori di Didone (ibid.). Ed ancora Ungaretti stesso (cfr. pp. 429-430, ed. L. Piccioni, nello studio del Piccioni Le origini della Terra promessa): Didone è l’esperienza della natura di contro a quella morale (Palinuro). E prima: Enea è bellezza, giovinezza, ingenuità, in cerca sempre di Terra PROMESSA.

(4)Si veda anche per l’oggi B. Sulmona, Identità e apertura: crisi delle culture nel mondo contemporaneo, in Studi Miscellanea – Filosofia, Pedagogia, Psicologia, Genova 1979 pp. 5-17.

(5) Anzi la tragicità dell’esistenza che in Catullo è vissuta, si direbbe, nell’attimo, in Virgilio si estende e diffonde a storica immensità.

(6) Si veda anche I. Lana, L’eroe epico e il mistero della conoscenza. Un tentativo di lettura dell’Eneide, in Atti della Accademia delle Scienze. Collana di Scienze nuove storiche e filologiche, CVIII (1974), pp. 655-685